I Minotauri – Del dicibile, dell’indicibile – di Mario Fresa

di Mario Fresa

Nulla dire se non ciò che può dirsi. Così Ludwig Wittgenstein. È forse una rassegnata accettazione della paludosa situazione ove sempre, inevitabilmente, si affoga, e affonda, il nostro povero linguaggio, qualunque volta che s’illude, lo sfrontato, di poter descrivere qualcosa che sia posto al di là delle colonne d’Ercole di ciò che può dirsi? (forse un altro direbbe: del divino, o del sacro?). Ma voleva intendere davvero ciò, quell’alto pensatore?Sì e no: perché l’assunto wittgensteiniano parla per sé stesso; e non intende confutare il proprio contrario (ch’è posto, in verità, al di fuori di ogni disputa eventuale!). Dico, cioè, ch’esso non ha punto l’intenzione di spazzar via, con tanta secchezza, la questione di una plausibilità esistenziale della metafisica: ma, solo, rileva la necessità di estrometterla del tutto dalle possibilità (e dalle modalità) del linguaggio. Vorremmo aggiungere (spingendo al massimo grado la tensione dell’argomento ontologico di Anselmo) che essa plausibilità metafisica non solo è indicibile e irrapresentabile per il tramite della modalità, ma anche, addirittura, per il tramite della stessa pensabilità; e rientra, perciò, nel più alto grado (o ancor meglio: nell’àmbito del punto estremo) della nostra capacità di pensare. Sicché l’idea metafisica è da porsi, infine, sulla vertigine di una soglia ch’è situata, appunto, fra il massimamente pensabile e il non pensabile; e il pensare metafisico altro, insomma, non è, se non un pensare del limite (un pensare aliquid quo nihil maius cogitari possit).

La parola può dire, dunque, solo il dicibile; e il dicibile è possibile solo nell’àmbito di ciò che è pensabile (risolvendo e chiarendo il concetto, infine, con una sorta di chiasmo giocoso, ma ben vero, potremmo asserire che: il pensabile è possibile solo col modo della dicibilità; e il dicibile è possibile solo col modo della pensabilità).

Ma tu dirai: ha, dunque, ancora senso (e gusto) il tentare di frequentare la parola forte – non volgarmente utilitaristica – della scrittura d’arte (declinata in prosa o in poesia), considerato che noi possiamo scrivere e discutere solo del già noto o dell’annotabile, del recepibile, del rappresentabile? Ovvero è meglio e più saggio tacere, dire il meno possibile, visto che l’essenziale (il senso più profondo dell’Essere; ciò che è appena sfiorabile dal più alto dei nostri pensieri) sempre ci sfuggirà, si ritrarrà, e poi sùbito disparirà, lasciandoci così, senza poter capire senza poter ridire senza poter sapere qualcosa che non sia già costretta nei miseri modi della nostra capacità di pensare? Anche le idee astratte e le espressioni della (cosiddetta) nostra volontà e perfino i “sentimenti” che attraversano la (sempre cosiddetta) realtà entro la quale noi viviamo sono, in vero, costituiti da sensazioni, rifrazioni, impressioni, proiezioni: non già da fatti autentici, presenti, dimostrabili (e, perciò, descrivibili: dunque pensabili e dicibili). Miseria buffissima del nostro poter dire. Involontaria comicità delle nostre possibilità di pensare o di esprimere linguisticamente un’idea: la lingua batte alla porta dell’assenza di Dio; e lì si arresta, perché non può far altro che tacere. Il linguaggio si dispera, e poi dà pugni furiosi contro il vuoto della sua stessa magra insensatezza, contro l’avvertimento della propria assoluta impotenza comunicativa (e qui potrebbe soccorrerci una lettura alta, perché non ricompositiva: il meraviglioso e inquietante Brief des Lord Chandos, pubblicato da un grande drammaturgo tedesco nel 1902).

Ora, un libro genialissimo di oggi, Tratteggi, scritto da Marco Furia (mi piacerebbe definirlo, questo libro, comicamente drammatico; e anche: drammaticamente comico), ci illustra alla perfezione quell’estremo e insuperabile limite (or ora descritto; almeno nellemie intenzioni) che si frappone tra la presunzione di voler dire l’impensabile e la triste constatazione che, a nostro dispetto, si può dire solo ciò che possiamo pensare. Che cosa racconta il libro di Marco Furia? Fatti minimi. Cose. Oggetti. Movimenti. Spazi. Rumori. Nessun giudizio, nessun “sentimento” nella descrizione (il sentimento non è, in fondo, una impostura del linguaggio, e anche dell’io? E, poi si ricordi che: perfino usare il pronome personale “io” significa ricorrere al sentimento, cioè alla distorsione, al sogno illusivo secondo il quale l’oggetto dello sguardo – la realtà – potrebbe, o addirittura dovrebbe, mutare per il capriccio delle false e personali intenzioni dei nostri sentimenti; ed è per questo che nel libro di Furia quest’io non c’è; giacché a dire e a subire le azioni è un lui, un Es, un altro).

Tutto è lucido e oggettivo, in Tratteggi; ogni piccola azione è descritta (anzi: registrata) minuziosamente, con automatica precisione linguistica (di qui l’emergere del comico paradossale: e non v’è bisogno, per il lettore più attento, di scomodare Bergson per ricordare che il linguaggio trasformato in un ingranaggio automatico e depensato non può che suscitare una forma di singolare ed esorcistico riso).

E ora, qualche assaggio del libro:

Parecchie briciole di pane essendo sparse sulla morbida superficie di policromo tappeto, percorso stretto corridoio, superata la soglia di angusto sgabuzzino, nonché afferrata per il manico potente “scopa elettrica”, ritornò sui suoi passi: al momento di inserire la spina nella presa di corrente, si accorse di non essere in possesso dell’indispensabile “adattatore”.

Raggiunto un’altra volta il ripostiglio, estrasse da metallica scatola il necessario aggeggio e, poco dopo, collegò l’apparecchio all’impianto elettrico.

Spostata tonda manopola dalla posizione “off” a quella “on”, non avendo ottenuto alcun risultato, si accorse, a seguito di rapida ispezione, del fatto che l’adattatore era difettoso: ritornato nuovamente a rovistare, ne trovò uno in buono stato.

Raggiunto policromo tappeto, messa in funzione l’elettrica scopa, fu sorpreso dall’automatico spegnimento della stessa: una lucente spia segnalava la necessaria (improrogabile) sostituzione del (ricolmo) sacchetto interno…

[…]

Piacevole ascolto di brano musicale fu interrotto da ripetuti trilli: abbandonata comoda poltroncina, premette rettangolare tasto provocando, così, lo scatto dell’automatica serratura di cui ligneo portone era dotato.

Uscito da confortevole appartamento, sportosi un poco, scorse allampanato individuo intento a inserire ripiegati fogli nella cassetta di ciascun condomino: si trattava di materiale pubblicitario?

Estratta minuscola chiave da impolverato portaoggetti, raggiunse deserto androne e, aperto piccolo (semitrasparente) sportello, prese atto dell’esattezza della propria ipotesi.

La scrittura di Marco Furia prende atto che si è iniziata una guerra (irreparabile!) tra ciò che può essere detto e ciò che non può essere detto.

Questo libro non accetta l’illusione consolatrice del pacifico ripristino di una condizione In statu quo ante bellum.

Impossibile tornare indietro. Impossibile sperare che Dio risponda al nostro sciocco inutilissimo bussare alla porta del suo (incomunicabile) silenzio.

Impossibile fingere con sé stessi, e con gli altri, di poter dire qualcosa che non possa rientrare negli strumenti di una pura, matematica pensabilità (ma come uscire da questo labirinto ch’è il linguaggio? Labirinto creato solo da noi, istupiditi minotauri che divorando i pensieri con il gioco della parola ci illudiamo di possederli, quei pensieri, o di comprenderli per sempre? Quand’è che sortiremo, insomma, da questo assurdo e buffo ragnatelo ?).

Marco Furia, Tratteggi. Immagini di Minya Mikic. Anterem Edizioni7Cierre Grafica, Verona 2017, pp. 48.

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