CONSONANZE E DISSONANZE / Squisito o non squisito? “Il cadavere felice” (Sartoria Utopia, 2017) di Viola Amarelli

Davanti al titolo di questo libro di Viola Amarelli, non è difficile pensare, per assonanza, al cadavre exquis, ossia al metodo compositivo del “cadavere squisito” approntato dal Surrealismo francese all’inizio del secolo scorso. Leggendo via via i testi del volume, tale accostamento risulterà sempre più appropriato, e non perché la poesia di Viola Amarelli presenti rilevanti marche surrealiste, ma a partire da una chiara ragione etimologica che il raffinato livello metapoetico della raccolta consente altresì di confermare.

“Squisito”, infatti, deriva da exquirere, “ricercare”: mentre i surrealisti attuavano la loro ricerca affidandosi al caso e all’ars combinatoria generati dall’utilizzo di alcune semplice regole (il verso assurto a  emblema, le cadavre exquis boira le vin noveau, era scaturito da un “gioco” in cui ogni “autore” aggiungeva una parola della frase senza conoscere le altre parti, secondo l’ordine prestabilito soggetto-aggettivo-verbo-sostantivo-aggettivo), Viola Amarelli usa l’espressione “cadavere felice” per segnalare a un tempo la propria vicinanza e la propria distanza da alcune “scritture di ricerca” contemporanee che le sembrano ricadere nell’arbitrarietà ludica, e talvolta pretestuosa, del gesto surrealista.

Buona parte della raccolta si attesta infatti su un livello metapoetico, nel quale talvolta si arriva a rivendicare una maggior prossimità con le nude e crude cose (già titolo del libro pubblicato dall’autrice per L’Arcolaio nel 2011) e, ancor più in profondità, con la loro “ossoessenza” (p. 9), talvolta si prende esplicitamente la mira contro gli accademismi, le traduttologie, le lectiones serpentiformi, / i periodi uroborici, l’armamentario lulliano, il bilame / del computo binario… (p. 14). Come già nel caso dell’ultimo libro di Daniele Barbieri, mi pare utile accogliere questa tensione conflittuale, ma sviarne la vis polemica verso un confronto più generale con opere che a una tale dichiarazione di poetica (o di anti-poetica, se si vuole) accostano tratti ben più interessanti, in ciascun caso.

In quello di Viola Amarelli, anzi, si giunge perfino a toccare il secondo corno della questione, entrando così nel pieno del paradosso (ma non della contraddizione). Tra i morti cui si torna, sopravanzando la questione dei cadaverini, c’è sicuramente Giuliano Mesa, evocato in questi versi con la lucidità plastica del dolore e l’onestà intellettuale del rapporto con uno dei massimi riferimenti della recente poesia italiana: “le cose non vanno come dovrebbero / come vorresti, piuttosto, dillo / non sei le cose” (p. 52). E nella stessa andatura sintattica slogata di alcuni passaggi si sente in contrappunto la voce di Nadia Agustoni, in quella consapevolezza comune, dentro e fuori la fabbrica che domina la poesia di Agustoni, che porta a dire “che cosa può un corpo, / poco” (p. 45).

Si delinea così una via asintotica rispetto alla cosiddetta “scrittura di ricerca”, vicina e al tempo stesso lontana, nel segno di una sottrazione – come sottolineata da Guido Monti nella recensione sul manifesto dello scorso 15 agosto – che porta lontano da alcune sterili lallazioni (pochissimi i casi in cui la scrittura di Amarelli si impania negli omoteleuti e nelle paronomasie) e verso l’“ossoessenza” di un dire poetico che, in ultima istanza, non è poi così divergente dal suo bersaglio – nomen omen – metapoetico.

 

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