Da Roma verso Urbino insieme alla poesia di Gabriella Sica – di Ilaria Grasso

di Ilaria Grasso

 

Ho incontrato Gabriella Sica durante la presentazione della raccolta Altre Amorose di Luigi Trucillo alla Casa Delle Letterature di Roma. Ci ha presentate una comune amica ed io, non conoscendola affatto, ho iniziato come mio uso a farle domande sul luogo di nascita o su dove avesse studiato. Lei, gentilissima, rispondeva e ribatteva alle mie domande con altrettante. Ci siamo dunque trovate a parlare di Urbino, città a cui sono particolarmente legata perché lì ho vissuto durante il periodo universitario, uno dei più belli e spensierati della mia vita. Mi ha detto di aver scritto e appena pubblicato una lunga poesia il cui tema centrale era il viaggio che da Roma conduce ad Urbino. Ero troppo curiosa di capire quale fosse lo sguardo di una poeta di fronte a quei panorami a me tanto cari. Con un pizzico di sfacciataggine le ho chiesto quel testo e lei con generosità me lo ha inviato di lì a pochi giorni. E ora eccomi qui a fare alcune riflessioni.

La poesia di cui vi parlo, La strada per Urbino, è nel primo “Quaderno” della Casa Della Poesia di Urbino, uscito presso Cinquesensi Editore, 2017, che ha come intento quello di fissare una Testimonianza della poesia nel Montefeltro. Hanno fornito contributi anche Antonio Prete, Vittorio Sgarbi, Luca Cesari, Ursula Vogt, ognuno secondo la propria sensibilità e il proprio linguaggio.

La lettura della poesia è stata un bellissimo viaggio. Partendo da Roma, Gabriella Sica mi ha riportato nella mia Urbino. Le emozioni e le riflessioni non sono state poche. Il titolo della poesia rimanda a un altro percorso, quello del personaggio Guido Corsalini nel libro La strada per Roma di Paolo Volponi. Il giovane Guido fugge dalla realtà urbinate che avverte sempre più stretta in cerca di nuove e più stimolanti esperienze per provare a cambiare i propri orizzonti e realizzarsi nel lavoro, lontano dalla grettezza e dalla monotonia della quotidiana vita di provincia. Guido e Gabriella si muovono sulle stesse rotaie in direzioni e con motivazioni opposte.

Chi parte da Roma è una donna matura con le proprie consapevolezze personali e culturali che, sbirciando dal finestrino di un treno i luoghi dell’infanzia, si guarda all’indietro arrivando alla “città ideale” che rappresenta una meta esistenziale, oltre che fisica e geografica. Queste righe non sono soltanto una mera rappresentazione emotiva ma una riflessione più ampia su idee, utopie, e forse sugli spazi e sulla vita in generale.

Urbino infatti, assieme ad altre città come Pienza e Palmanova, è stata edificata in epoca rinascimentale secondo quello che venne definito il modello della “città ideale”. In quel periodo, lo studio dei testi latini e greci, e in particolare le teorie filosofiche-politiche di Platone e Aristotele, stimolò la riflessione intorno a uno Stato Perfetto in grado di sostenere armonicamente la sfera economica, politica, religiosa, sociale e culturale. Tale prospettiva influenzò gli architetti dell’epoca nella creazione di un modello di “città ideale”. E proprio a Urbino, nella Galleria Nazionale delle Marche, è presente il quadro che meglio rappresenta tutto ciò.

Ciò che distingue uno spazio qualsiasi da un luogo è l’attribuzione di un senso per cui anche l’anima e il cuore possono rappresentare un luogo. Questa poesia ci dimostra che un viaggio è esteriore e interiore, secondo il senso che gli diamo. Gabriella Sica ripercorre una vita intera affacciata al finestrino del treno, in direzione di una città ideale fatta di sapienza e arte, che potrebbe salvarci dalle rovine di questa nostra società gretta e insensibile ai sentimenti e più in generale all’essere umano.
Il componimento principia descrivendoci con dovizia dapprima i panorami del viterbese (dove è nata), passando per lo svincolo di Orte, e altre città prima di raggiungere Urbino. Mi pare che il testo tra parentesi agisca come le nuvolette dei fumetti. Sono i pensieri, i ricordi, le emozioni che l’autore affida intimamente ai fogli e a noi lettori.

Non è un caso che le parentesi all’interno del corpo poetico del testo iniziano proprio mentre il treno passa per Orte, importante snodo ferroviario e zona familiare al poeta perché proprio lì ha trascorso gli anni delle scuole elementari.

(O cari tetti e il muretto e la casa
sui binari più in là i prati
in fondo il campanile
tra i lineamenti poveri delle case
e le poche parole
nella valle intorno a Orte Scalo
transito dei sopravviventi
e i colli morbidi nel cereo cielo
profumo e suono
lontane acerbe stagioni di sete)

Mi sembra davvero di vederla bambina durante la nevicata del ’56, prima di trasferirsi a Roma qualche anno dopo:

(La neve a marzo del cinquantasei
copriva il mite seme interrato
l’intricata calda vita
nel suo germogliare
nello stupore
nel quieto dolore
stando con l’orso iroso e buono
l’innocente gallinella del lamento
e il passero bruno che non si salva.
Lungo le siepi in cemento
Su e giù tra la casa e la stazione
La bambina alle elementari
con il fiocco bianco del mondo
e la corda per saltare i pensieri
imparava a memoria
la lingua materna della litania
lungo i binari
tra i fiori viola che sbocciano di notte
imparava in bicicletta la morte
la scossa la sorte)

All’altezza di Terni, nella sua “mente di diamante” e “di cristallo”, appaiono le immagini dei “cupi e lunghi inverni” in quelle zone, gli stessi di quando bambina andava a scuola di ballo. Più avanti nel viaggio e con i versi troviamo una bimba decisamente inquieta e fremente di fuga proprio come Guido Corsalini di Volponi.

(già avevo in me greggi di pecore
voli di rondini migranti
e mucchi di foglie scricchiolanti
che mi parlano ancora
fasci mi legano di spighe d’oro
stimmate porto dell’ombroso bosco
là verso Vallarte per la via di Orte..)

Via via che ci avviciniamo a Urbino le città che incontriamo nel raggio visivo del finestrino del treno sono Gubbio, Assisi e Fabriano. Da quel momento ho come l’impressione che le parole si addolciscano proprio come gli avvallamenti di quella parte d’Appennino.

Ci stiamo avvicinando alla “città ideale” e salendo lungo i tornanti che ci condurranno a Urbino il pensiero di Gabriella Sica va all’aquilone pascoliano della città ventosa (ondeggia tra i rami rosa un aquilone) Nel frattempo anche la mia mente si riappropria di scorci a me cari. Riconosco la “permanente bruma”, il panorama verso la chiesa di San Bernardino attribuita a Francesco di Giorgio Martini, che ha contribuito alla progettazione del Palazzo Ducale di Urbino.

Commuovi chi a te ritorna Urbino
delizia di dolci colli
penitenza di cantoni muri e contrade
con il tuo corpo ora grigioroseo
e ora color camoscio
è solo una sfumatura che varia
secondo l’ora
è la cangiante luce di vento e d’oro
che corre per le tue vene
su e giù per le salite e le discese

E mi commuovo anche io a ricordare come la luce cambia il colore urbinate delle facciate e delle costruzioni. Quel colore “grigioroseo” rimane indelebile una volta visto. Una variazione cromatica simile l’ho vista solo sulle Dolomiti. Il color camoscio delle case di Urbino odora di pietra e foglie e vita.

Il confine tra ciò che l’uomo ha costruito e ciò che la natura ha fatto si assottiglia fino a scomparire, e ritrovo una sensibilità nel costruire molto distante da quella odierna.

Sembrano darmi ragione anche i versi di Gabriella Sica, con sottile ed elegante “sprezzatura”:

Ora la strada entra in te Urbino
ripida e furtiva
senza più indugio fino
all’ardito rubino del tuo cuore
è il cor cortesia di mente e passione
è questo il fiammante frutto
il compiuto segno
del pensiero che rinasce in verso
e salva la vita calda che non c’è
che è così com’è
la vita tarda e stanca a sera
che tra le rovine corre di Roma
è la grazia mirabile del fiore
la nobile sprezzatura
la disinvoltura del verso lieve
il soffio del sollievo che solleva.

Quando ho chiuso il quaderno sono rimasta ferma ancora un attimo seduta sul divano, con gli occhi chiusi e le narici bagnate di ricordi e poesia a viaggiare ancora.

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