CONSONANZE E DISSONANZE / Il senso intorno al verso: “Tecnovintage” di Gerardo Iandoli

Come preannunciato dal titolo, la silloge “Tecnovintage” di Gerardo Iandoli che qui si propone ambisce a mappare il contemporaneo, registrandone, innanzitutto, quella temporalità schizofrenica che è profondamente incistata nei corpi, nei discorsi, nelle politiche. Arrestandosi, in realtà, sulla soglia della schizofrenia, la voce risulta scissa, come testimoniano alcune spie testuali, anche irrelate fra loro: tre dei cinque testi iniziano con la formula “C’è…”, “C’era…”, “C’è ancora…”, immergendo così il lettore in uno scenario che poi il riferimento – forse intenzionalmente celato, forse soltanto sintomatico – al distacco come posizionamento intellettuale (ad esempio con quella “lucina” che è già stata, com’è noto, di Antonio Moresco) porta subito a lacerare. Sono altrettanto divergenti le commistioni di immaginari 1.0 e 2.0, di dialettalismi (seppure italianizzati) e lemmi sofisticati, di fluenti costruzioni sintattiche e squarci gnomici. La costruzione del “senso intorno al verso” vive, in fondo, di questa tensione, nell’era tecnovintage: se si può ancora notare “dell’umano dietro ai palloncini / di Jeff Koons”, il kitsch è sempre in agguato e, prima di arrendere la lingua della poesia all’ibridazione con i linguaggi contemporanei iper-tecnologici (come Iandoli si guarda con timore dal fare), occorre attraversarne tutte le implicazioni culturali e politiche. Rischiando anche la schizofrenia, ma fermandosi sulla soglia. (L.M.)

 

C’era la forza solo per un ultimo intreccio
di mani: la lucidità dei guanti
si struscica madida di lisciore
e il lieve frinire sfiora gli auricolari
delle maschere antigas degli amanti.
Ogni battere di ciglia è un impulso rosso
sugli schermi degli sguardi incrociati
e a tracciarsi sono i codici morse
del desiderio. Non se ne sa il sesso
di questi due corpi avvinti dal kevlar,
eppure l’alternanza dei loro respiri
produce il senso intorno al verso dell’uomo in vita.

Le maschere si toccano: la plastica
cozza e il bacio è uno sbattere di spigoli.

E nonostante un nuovo morbo divampi
tra le assenze delle masse e dei gravi,
un laser decide di recidere
le maschere che filtrano gli atomi d’aria
solo per mostrarne il volto concavo:
un attimo non basta a registrarne la vita
e i corpi cadono, l’uno sull’altro,
mentre tra i gas si forma l’idea nuova
della sovrapposizione degli umori.
Come se tutto potesse ancora accadere.

 

C’è un’isola con un lungo cantiere:
è una questione di prospettiva infinita
in cui il rumore non sembra avere un’origine,
eppure il mare circonda, assoluto nel suo schifo
della spiaggia. La divisione è netta.
Da una parte il silicio, dall’altra l’idrogeno.
Tale geometria non preoccupa la bambina
che balla con la sua veste anni Trenta
passi caraibici con gesti tectonici:
i boccoli sono vortici di marmitte
industriali che impastano la crema
di nocciole: il grasso unge la vista
e una musica resta la sola lucina
a impegnarsi a concepire una linea retta,
la monotonia è uno squarcio sul futuro
che collassa in scarpine nere lucide,
il cui marchio è solo uno spazio bianco.

 

Il frumento si presenta coriaceo
alla pressione dei pesanti cingoli:
è una traccia di un feudalesimo di lance
non più capace di opporsi allo sparo
che da lontano trascende l’artigianato
del sangue. Attenzione,
un’esplosione azzera ogni riflesso
e la melodia dei toni infuocati
sparge acida rugiada di nitrato:
il finale è un bagliore commovente.
I carri trapassano come amanti offesi
tracciando vie per raccolti futuri:
l’umanità sgattaiola dalle grotte
e si getta nei campi a racimolare
quel che resta del frumento spezzato
perché si è persa la parola del pollice.
Il macinare molare è una preghiera
destinata al dio dimenticato che falcia:
questa intermittenza della morte è infinita
e ci si consuma tra cibo e chimica
fino al prossimo carro che ristabilisce
una rinnovata traiettoria dell’angoscia.
Ma senza più vociare, finalmente,
si vivrà di soli odori: la polvere acre
è la droga che cura da ogni metafisica.

 

C’è ancora dell’umano dietro ai palloncini
di Jeff Koons, diseredati del lucido
per via delle polveri sottili e gli spasmi
di spari elettromagnetici come spiriti
in pena. Una madre stringe il braccio del figlio
e solo quello, come un’arma ultima.

Un proiettile spilla un graffio al kitsch.

La madre rilancia il figlio, negandosi
il ricordo di qualsiasi possibile.
Eppure la crisi non c’è mai stata:
il Crocevia appariva solo sullo specchietto,
quando si era già in corsa per l’eclisse
come estremo baluardo dello sguardo.

 

Di questa guerra oncologica resta
un filo spinato a forma di cicatrice
sul suo seno giunonico.
L’estetica chirurgica installa una granata
al posto del grappolo della crescita
e la simmetria erotica è salva,
come anche il pasto del nuovo infante.
E ci sarà una sola passeggiata
tra i bracci meccanici che ci fabbricano
gli ennesimi gusti omogeneizzati
da rinnovare a ogni ciclo stagionale:
la poppata crescerà un’esplosione
che darà senso al figlio nell’istante
in cui ogni sua particella accelerata
parteciperà nel processo nutritivo.
I ruoli soccombono nell’amalgama
e ogni pezzo sarà ricostruito
più coscientemente: come la madre,
così la macchina si metterà da parte
nel pianto uraganico dell’umanità.

 

Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si laurea a Bologna in Italianistica nel 2014. Dal 2016 è dottorando presso il CAER (Centre Aixois d’Etudes Romanes) dell’Università d’Aix-Marseille. Una sua raccolta di poesie, Arrevuoto, è in corso di stampa presso Oèdipus Edizioni.

 

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