I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): vite ed edifici pericolanti secondo Massimiliano Damaggio

 

So (e con me lo sanno non pochi altri) che per Massimiliano Damaggio vita e poesia non sono distinte, so che la sua passione vitale coincide esatta con il suo scrivere, so che questo libro (Edifici pericolanti, Dot.com Press, Milano, 2017) vede la luce dopo un periodo lungo e doloroso di lavorazione e so che Massimiliano continua a reputare non necessaria la sua pubblicazione (non fosse stato per la testarda volontà di alcune persone questo libro non esisterebbe) e in molti conosciamo e amiamo una frase che Massimiliano Damaggio ripete: “La poesia mi ha salvato la vita“. E so, pure, che Massimiliano detesta (a ragione) questo mio fare riferimento a vicende che, stricto sensu, con la poesia hanno poco a che fare, ma questo è un caso in cui non so e non voglio distinguere la persona dal libro, ché siamo davanti a qualcuno che, come molti dei suoi amati poeti brasiliani e sudamericani, greci, russi e pochissimi italiani, con purezza disarmata e disarmante vive i propri sentimenti, le proprie scelte, le proprie tristezze e le proprie esaltazioni – e che non si risparmia. Non m’importa se tutto questo può apparire sentimentale, perché nel caso di Damaggio i sentimenti sono motivazione molto forte alla scrittura, sentimenti che vanno dall’amore alla rabbia, dalla malinconia all’amicizia.

Il valore di Edifici pericolanti risiede in una scrittura limpida e diretta senz’essere approssimativa e facilona, asciutta e impietosa senza ingrigirsi in un qual certo “realismo” o “impegno”, respiro di una mente totalmente immersa nel mondo e nel dolore altrui. In questo modo Atene e la Grecia contemporanea, terra d’elezione e paesaggio interiore, (ma anche alcuni luoghi d’Italia, come Civitavecchia e la Lombardia) accolgono la gestazione del libro e ne costituiscono spesso riferimento storico, politico, geografico, personale, in quanto occorre sapere, accingendosi alla lettura, che non esistono maschere, né giuochi delle parti in Edifici pericolanti, ma che esiste l’attraversamento onesto fino all’autolesionismo dell’inferno proprio e altrui, attraversamento, anche, di una realtà del lavoro degradata e degradante: il tema del lavoro e del conflitto tra libertà individuale e costrizioni sociali ed economiche costituisce uno dei pilastri su cui si reggono questi numerosi “edifici pericolanti” che, un po’ come le Torri celesti di Anselm Kiefer, sembrano continuamente sul punto di crollare eppure continuano a trasmettere un’idea forte e commovente della testardissima volontà di vivere.
Gli Edifici pericolanti venuti alle stampe sanno conservare un umanissimo sentore di taccuini in continua lavorazione, un senso liberatorio e libertario di vagabondaggio, una vertigine del viaggiare senza dover render conto a padroni o ad agende di lavoro – e queste pagine sono imbevute di una pietas profonda, di un senso di solidarietà per il destino di amici o di sconosciuti che hanno conosciuto l’umiliazione, l’esclusione, una forma qualunque d’ingiustizia: infatti, quando Massimiliano Damaggio afferma che la poesia gli ha salvato la vita vuol dire che bere e dissetarsi alle pagine di poeti come Drummond de Andrade, Lorca, Chlebnikov e molti altri è stato per lui davvero quello che per altri sono l’acqua e il pane: salvarsi dalla morte continuando una pervicace affermazione d’indipendenza e di libertà e con un attaccamento generoso alla vita, anche nei momenti personali più bui – ma attenzione, non esiste autobiografismo in questo libro, bensì apertura al mondo e alle persone attraverso un sé stesso che si impara a superare e a zittire.
Il lettore sappia dunque che apre un libro di dolore e di gioia, di coraggio e di slancio, nel quale la scrittura è sempre, sempre contaminata dalla carne che materia il nostro corpomente e che tale contaminazione è uno dei momenti più significativi e di valore che possa esser dato di vivere. Le numerose, pie sartine stile Ottocento, gli ancor più numerosi soloni della poesia italiana di questi anni, gli obbedienti soldatini ordinatamente intruppati dietro i molti “grandi” della nostra repubblica letteraria non immaginano neanche lontanamente quanto accumulo di letture, di solitudine, di pensieri, quanto impietoso sfrondare, scavare, limare sia Edifici pericolanti – e ancora adesso Massimiliano Damaggio convintamente afferma che non era necessario che il libro fosse dato alle stampe (ma, posso assicurare, il suo non è né un vezzo né una posa da attore più o meno di seconda categoria: egli letteralmente si vergogna di quanto ha scritto, ma nel senso che il pudore che prova è fortissimo, pur non sapendo – e a ragione, aggiungo io – rinunciare alla scrittura: o meglio, sono stati, l’ho già detto, alcuni dei suoi amici più cari ad aver voluto questo libro, mentre Massimiliano non nutre grande stima per quello che scrive e ciò malgrado i numerosi apprezzamenti ricevuti – si tratta di una modestia dell’uomo e del poeta che, rara, s’incontra, ormai, nel mondo della scrittura come altrove). A me sembra che Massimiliano avverta la necessità vitale della scrittura e, contemporaneamente, non dimentichi le condizioni d’asservimento lavorativo, esistenziale, psicologico cui sono condannate le persone, sente spesso lo scrivere quale condizione d’ingiusto privilegio, cosicché i testi di Edifici pericolanti vivono e si riscaldano al fuoco di una generosità umana e del rifiuto di qualunque retorica o abbellimento estetico (il libro va anche letto sui binari paralleli dello stile e della scelta etico-politica, del dire con deliberata durezza e della dolcezza di cui è capace un essere umano quando non si ripiega su di sé, ma si apre, partecipe e solidale, alle amarezze vissute dagli altri): la scrittura è comunque capace di passare in secondo piano di fronte alla sofferenza generale e all’inumanità di questi nostri anni, in un atto d’umiltà che la riscatta e la fa ritornare degna di essere ascoltata – Edifici pericolanti è un libro di geografia nel quale la toponomastica dell’ingiustizia e dell’abuso viene tracciata con precisione geometrica e la poesia sottentra non a consolare, non a lenire, ma come coltello affilatissimo che compie un atto d’amore nel mentre sembra straziare e lacerare.

il licenziamento di Gianluca

Gianluca, hai il sorriso ferito
dalla forbice fra obbiettivo e fatturato
sulla sedia blindata della riunione
carichi in canna il resoconto ultimo
e ti si sente
attorno un largo silenzio, e nel rumore
del tuo dissesto interiore ognuno sta
nella posizione da contratto

Dietro questi piccoli quadri
si muovono gli uomini abbaiati
dal cane del credo quotidiano

Lei ora appartiene, ti dicono
all’archivio dei nomi in disuso

 

sull’isola di Kìthira

La strada, bianca come un disinfettante
le pietre grandi, le pietre piccole, le pietre vaioliche
le colline, vuote come una morte recente

Questo alla fine, all’inizio, è la poesia
che come una mosca tossica
depone nel corpo le uova della solitudine

Apro le mani, piene di dita inutili
che sanno solo scrivere parole

 

il licenziamento

Lei ora appartiene, ti dicono

all’archivio dei nomi in disuso

 

otto tentativi di salvezza

Anni fa vivevo in un palazzo degli anni ’60. Un giorno l’amministratore ci comunicò che sarebbe stato necessario fare delle infiltrazioni di cemento perché la struttura portante si stava sgretolando. Da fuori non si notava. Era all’interno dei muri il problema. Era un edificio pericolante.

A Sarajevo nel ’98 era da pochi anni finita la guerra. Gli edifici pericolanti erano innumerevoli. C’erano macerie dovunque, l’acqua era razionata e distribuita in determinate ore della giornata. Un giorno accompagnammo in tram un amico all’aeroporto e ci trovammo a dover attraversare un campo minato. Vidi sulla faccia dei compagni un terrore muto e capii che eravamo edifici pericolanti. Fino a pochi minuti prima scherzavamo, ridevamo sul tram.

Ciò che sta per cadere non è caduto. Negli anni ho però potuto sperimentare che ciò che è pericolante può essere già crollato, ma non sempre lo possiamo vedere. Come il palazzo nel quale abitavo, o i cittadini di Sarajevo in quel ’98, o l’addetto allo scaffale. Questo gioco dell’equilibrio fa sì che essere pericolanti, o meglio in bilico, sia la nostra condizione esistenziale.

 

al parcheggio del supermercato

Ti trovo la sera seduto sulle parole
inefficaci dell’uomo evacuato

fra gli scarti della giornata
ti porto del pane

Ma sono gli allarmi a rispondere
questo vento che scende nel tuo silenzio
dove attendi nel fondo della notte
un suono riemergere dal fondo della carne

Faccio una battuta e sopravvivo
ma prendo per amore l’elemosina
e sosto, senza amore, perché è facile
condividere del prossimo
il meno e non il più a noi prossimo

 

sarà la bellezza la nostra vendetta

Nel ’97 passai l’estate con l’amico Samuele a Kìthira, una splendida isola a sud del Peloponneso. Una sera assistevamo a un tripudio di colori sul mare e Samuele mi disse: “Tu sai perché tutti considerano bello ciò che stiamo guardando?”.

Tutti i poeti fanno un gran parlare della bellezza ma io non ho mai capito che cosa intendano. Non so cosa sia la bellezza. Ripensando al tramonto, potrebbe essere una cosa qualsiasi che rende felice ogni singolo individuo il quale ha, s’intende, una personale concezione di felicità. Non so dare una risposta. Ho però intuito che è nell’incompletezza di ogni singola risposta che si può trovarne un poco, laddove la porta mostri lo spiraglio di un’ulteriore scoperta, di un tentativo ancora, in opposizione al programmare che nega qualunque mistero e invece di creare domande impone risposte. Nell’imperfezione di tutto ciò e nel nostro tentativo di trovare un equilibrio penso ci sia un indizio di bellezza. Quante volte ci troviamo a consolare un bambino in lacrime perché, ad esempio, sullo schermo è morto un cagnolino? A noi sembra impossibile che il piccolo spettatore non riesca a distinguere tra finzione e realtà – e sorridiamo. Ma in un certo senso ha ragione lui, e noi torto. Il cagnolino del film è tutti i cagnolini che sono morti, stanno morendo e moriranno. È la rappresentazione universale del dolore e forse il bambino, in cui finzione e realtà hanno labili confini, è la vera chiave per sfiorare l’equilibrio e, di conseguenza, una forma di bellezza. La poesia è una singolarità in cui confluiscono verità e finzione, e ogni cosa è la rappresentazione universale del suo significante. Per questo sono convinto che sia vero quanto scrive Mário Quintana: il luogo dove tutto non muore è la poesia.

 

sulla statale per Killìni

Ma io alla fine è con l’aria che combatto
e levo in alto le mani per tradurre
una carne in una frase

 

E, infine, bellissima, struggente, nobile, tenera fino alle lacrime ecco Atene, luogo d’amicizia e di libertà, tempo sospeso di pensieri amorevolmente terrestri, in un ritratto di raro livello umano e poetico:

 

πόρτρετο μιας πόλης

Θα υπάρχει πάντα ένας, κάποιος
που θα κατεβαίνει την Θεμιστοκλέους
στο χλιαρό αέρακι, κάτω από τα δενδράκια
που δεν παίζουν το καλοκαίρι (σύντομα φύλλα
της σιωπής στο φως του μεσημεριού), κάποιος
που θα κατεβαίνει με προσοχή τα σκαλοπάτια, κομμένα
στα δυο από τη κίτρινη σκιά των λαμπάδων
και θα πέφτει, όπως έπεσα τη νύχτα αυτή εγώ
στη ζεστή αγκαλιά μιας ασφάλτου

Θα υπάρχει πάλι ένας, σε αυτά
τα πεντακάθαρα απογεύματα, σαν το μωρό
που κοιτάζει, που θα είναι
κολλημένο στο τιμόνι, εκεί όπου τελειώνει
το Ποτάμι, και ο δρόμος
πετάει πάνω από τη θάλασσα, κάποιος
θα αποφασίσει να μην στρίψει, όπως θα έπρεπε
να κάνω εγώ, για να μένω εδώ, οριστικός
πολίτης του Φαλήρου

Ένας, κάποιος, θα σταματήσει
στο Θησείον, καθώς κάνει κάτι, μια δουλίτσα
τον Νοέμβρη τον ζεστό, τον σκιερό, τον γεμάτο
από τραπεζάκια, τελευταία στρατιωτάκια της Αντίστασης
σε χρόνο, γραβάτα, παραγωγή
από μια πλευρά ένας άνθρωπος, ένας άνθρωπος από την άλλη
παράγουν λόγο, και αίσθημα, και εκκρεμότητα
Λόγος, αίσθημα, εκκρεμότητα

του χρόνου, στο κουτσό το τραπεζάκι
δυο καρέκλακια, στου Μεταξουργείου το βραδάκι
θα υπάρχει ένας, κάποιος, που θα κοιτάζει
μια τεράστια απόσταση
τα χνάρια του, ξαπλωμένα
στον χρόνο που περπάτησε: ήταν
μικρός, αλλά φαινόταν
μακρύς, έχει κάτι καλύτερο
παρά να τον μοιραστούμε μπροστά σε μια μπίρα, όλοι
τη νύχτα;

Όλη τη νύχτα, όλα τα χρόνια, όλο το χρόνο
μέχρι να φανούν οι αρχαιολόγοι
οι ιστορικοί, σαστισμένοι, κάτω από μια πέτρα
θα προσπαθήσουν να αποκρύπτο-
γραφήσουν κόκκαλα, πράγματα, σημειώσεις
που δεν θα έχουν πια το όνομά σου

που θα έιναι, πάλι, όπως πάντα
η Αθήνα

 

ritratto di città

Ci sarà sempre uno, qualcuno
che scenderà per Themistokléus
nell’aria tiepida, sotto gli alberelli
che d’estate non suonano (brevi foglie
di silenzio nella luce delle quindici), qualcuno
che scenderà attentamente i gradini, tagliati
in due dall’ombra gialla dei lampioni
e cadrà, come questa notte io sono caduto
nell’abbraccio caldo di un asfalto

Ci sarà ancora uno, nei molti
pomeriggi limpidi, come un bambino
che osserva, che starà
incollato al volante, là dove finisce
il Fiume, e la strada
vola sopra il mare: qualcuno che
deciderà di non curvare, come avrei dovuto
fare, per restare qui, definitivo
cittadino di Fàliro

Uno, qualcuno, si fermerà
a Thissìon, mentre fa qualcosa, un lavoretto
nel novembre caldo e ombroso e pieno
di tavolini, ultimi soldatini della Resistenza
a tempo, cravatta, produzione
da un lato un uomo, un uomo dall’altro
producono pensiero, e sentimento, e sospensione

Pensiero, sentimento, sospensione
del tempo, al tavolino zoppo
due sedioline, nella notte di Metaxuryìon
ci sarà uno, qualcuno, che guarderà
da questa distanza enorme
le proprie orme, distese
durante il tempo camminato: era
breve, ma sembrava
lungo, cosa c’è di meglio
che condividerlo davanti a una birra, tutti
la notte?

Tutta la notte, tutti gli anni, tutto il tempo
finché compariranno gli archeologi
gli storici, perplessi, sotto una pietra
tenteranno di decifrare
ossa, oggetti, appunti
che non avranno più il tuo nome

che saranno, ancora, come sempre
Atene

 

 

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