Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 30) Humpty Dumpty

Ci sono cose che non si fanno, deontologicamente parlando. Ma la vita deontologicamente organizzata spesso è una faccenda terribilmente più seriosa dell’impulso creativo. Insomma, tengo abbastanza alla correttezza nel lavoro (semmai è il “lavoro” in quanto tale, irregimentato e coattivo, imposto dal capitale globalizzato, a essere il motivo principale d’ogni fraintendimento sullo scopo della presenza umana su questa terra.) Ma, se imbraccio una chitarra o mi metto a scrivere sul mio diario segreto, ogni regola formale può tranquillamente scivolare via tra i rigagnoli dell’oblio. Distinzione non da poco, a fronte della tendenza della mente umana –per economizzare elettricità o aderire bene alla maschera sociale eteroassegnata- a programmarsi neurofisiologicamente al fine di fornire una certa immagine di sé al mondo fattosi giudice e, attraverso esso, a se stessa. L’arte c’è indispensabile anche (se non soprattutto) per fare a pezzi, tramite una sublimazione, l’invariante costante d’ogni epoca storica: il dominio dell’uomo sull’uomo. Nella libertà manipolativa delle forme artistiche, noi suoniamo il pianoforte come se rompessimo i denti a un padre autoritario (cit.).
Nell’ottica di qualcuno che scriva di musica, tra le cose da evitare a tutti i costi c’è esprimere, di propria iniziativa e pubblicamente, giudizi articolati positivi sulla propria produzione artistica. Di solito si aspetta un Marzullo prezzolato che tra mille salamelecchi ci sottoponga alla fatidica domanda-selfie dei giorni nostri. Si faccia una domanda e si dia una risposta. Cosa stai cercando di dirci, Venator? Non avrai mica intenzione di…? Sì, invece. Proprio quello.

Humpty Dumpty ai tempi di Q. b.(in posa per la fama)

Nel 2008 ero già nella fase adulta della mia esistenza: lavoravo a scuola da qualche anno e, da appena uno meno, ero fidanzato a una bella collega dal magico-plastico-automatico sorriso che mi faceva vedere i sorci verdi. Totalmente ignorante di musica bella, Ella ascoltava perlopiù canzonetta italiana, e neppure di quella buona. Dopo un paio di anni che stavamo semi-esplicitamente insieme, a sangue freddo, un giorno mi chiese: ma come mai porti le unghie della mano destra lunghe? Il tutto condito dall’asfissiante totalità maschile della scuola in cui lavoravamo insieme, colleghi pretati di religione inclusi, a non farsi mancare l’occasione quotidiana di offrirsi a lei sessualmente (sì, anche nei modi più costumati e accettati).
La tendenza misogina presente in ogni essere umano di sesso maschile può per tutta la vita mantenersi a un livello latente (recommended) oppure trovare il contesto giusto per partorire le sue contromisure (even more recommended). Nel mio caso l’occasione venne dalla fortuita quanto provvidenziale conoscenza virtuale di un certo soggetto che invece di chiamare Mister X appelleremo Renato Q. (per esplicita richiesta) e che, caso volle, avesse avuto in sorte d’ascoltare nel 2006 il mio primo lavoro interamente in italiano (un ingenuo ep synth-pop di cinque tracce) fino a farselo piacere. Negli anni successivi iniziammo a collaborare a qualche pezzo, compreso l’allora abbastanza diffuso “Colite Spastica”, piccolo inno a suffragio dei detentori di colon irritabile, trasversale massoneria spirituale di cui faccio parte dall’età di dodici anni. Il 2008 segnò invece la prima tappa (di tre) di una collaborazione più stretta.
“Q. b.”, il disco per cui affronto la pubblica gogna, nacque dunque da quell’intesa fortemente impregnata di auto-difesa di genere e da comuni gusti musicali. Io misi a sua disposizione dodici bozzetti musicali già forniti di testi provvisori (che impostavano argomento e mood della canzone definitiva) e lui sciorinò probabilmente la migliore letteratura pop presente sui dischi italiani di quel periodo. Ogni pezzo di “Q. b.” resta per me memorabile, e non solo perché il disco segna definitivamente la mia maturazione di scrittore di canzoni, ma soprattutto perché –e credo di poterlo dire senza forzare molto quello che sento- quelle canzoni possedevano dei grandi testi. Fu per valorizzare soprattutto quelli che –per la prima e unica volta- decisi di concedermi il vezzo di assecondare la dea Velleità (che, in qualche misura sortì l’effetto vaticinato dal celebre pezzo dei Cani e portò sollievo indiretto alla mia strana vita di coppia) e stampai trecento copie fisiche del lavoro (oggi esaurite. Ma se vi interessa c’è qualcuno su eBay che ne vende una copia a 53 euro).

Humpty Dumpty(dopo l’esperienza con l’LSD)

Un’altra freccia all’arco di “Q.b.” furono sicuramente gli amici musicisti di cui ero virtualmente circondato al tempo: Rex (ve lo ricordate nei Sonica?) che canta “Caterina”; Silver Julio che nello stesso pezzo suona la chitarra ritmica (che, invero, prima di diventare “Caterina” stava nel repertorio dei Silver Julios, breve ma intensa band di cui costituivamo i due/terzi); Chantalle (ve lo ricordate come primo chitarrista di Babalot?) che mi arrangia “Mr. Makake”; il Maestro Giuse Rossetti che mette fretless bass e synth in “Sulla Pelle”.

E poi c’è l’aneddoto. Al tempo di Myspace la canzone “Sai Violetta” era girata un bel po’, e non per i motivi più nobili. Per sottrarre Q. a ogni responsabilità occorrerà premettere che “Sai Violetta” è il pezzo su cui meno egli è intervenuto testualmente. Prima ancora di concepire il disco insieme la canzone aveva raggiunto ventimila ascolti in rete nella sua prima versione e occorreva dunque non snaturarlo troppo. La storia è semplice e un po’ triste.
Ve la ricordate Miss Violetta Beauregarde? In quegli anni aveva sbancato grazie alla sua multiforme abilità in: produrre dischi in stile electro-clash (qualunque cosa significhi); scrivere infuocate pagine di protesta verso la vita e la società sul suo blog; mostrare il suo corpo nudo o semi-abbigliato in chiave punk sull’allora celebre sito “Suicide girls”; e, in ultimo, far circolare un grazioso video in cui si esercitava nella seminale arte del facial. Tecniche di marketing aggressivo, insomma. Che funzionarono alla grande a giudicare anche da una copertina del Mucchio Selvaggio e dal giro di social misfits (me compreso) che attirò. Qualche mese prima di “Sai Violetta” io frequentavo una piccola comunità di nerd virtuale e, come sign, avevo scelto una foto (che mi piaceva molto), di Violetta. E un giorno, per magia, Violetta lì apparve. Entrammo in contatto nel modo in cui due egotici possono: insultandoci. Ma l’allontanamento definitivo avvenne quando le suggerii incautamente di insistere più con la fotografia che con la musica. Non so se si trattò di una battuta sessista, ma la sua musica era veramente tremenda (per i miei gusti, s’intende). L’ispirazione per il testo di “Sai Violetta” venne principalmente dagli scampoli dei nostri pubblici litigi su quel sito (“Asphalto”, si chiamava e si chiama).
I ventimila ascolti, dunque, in sostanza li scroccai ai fan della Beauregarde (che nel frattempo aveva triplicato il suo share con un secondo più meticoloso facial in un film a nullo costo, titolato, caso curioso, “Il Mucchio Selvaggio”, della cricca TruceKlan). Ventimila ascolti sono tanti, anche se almeno tre/quarti di essi sono ancora oggi fieri haters di Humpty Dumpty.
Nel gergo dei supermercati la “merce civetta” è quella che, messa lì in sottocosto, attira clienti per poi vender loro tutto il resto. “Sai Violetta” mi procurò un giro di miliardi che però, purtroppo, spesi tutto in cocaina e Ferrari Testarossa. Ma questa è un’altra storia.

(Mi accorgo di avere un po’ esagerato con le cartelle. Non era inevitabile, ma l’ho evitato. Se il libro delle “Hidden Gems” andrà in porto mi riprometto di essere ancora più logorroicamente meschino. Nel frattempo, se vi va e un minimo vi fidate, il disco è in download gratuito qui. Alla prossima.)

Alessandro Calzavara


In copertina: “Q. b.” (front cover, Humpty Dumpty, 2008)

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