Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 42) Eyeless in Gaza

Musica è un termine generico.
Sotto la categoria da esso suggerita il linguaggio comune pone un numero abnorme di rimandi. Non è qui mia intenzione potare rami sgraditi né imbastire critiche del pressappoco. Eppure dalla musica ho imparato anche a difendermi.
Una persona indossa la propria musica interiore come la propria eleganza, o la propria assennatezza. Ciò presuppone nondimeno un confronto reale tra il soggetto e il proprio gusto. Tale confronto oggi rifugge il vincolo dell’intenzionalità: in un contesto generalizzato di ipnosi medial-molecolare, la volontà è sostituita dall’occasione. (“Che musica ti piace?” “Tutta”)

L’enorme quantità di note strutturate che investe i luoghi d’adunanza ipnotica, in prevalenza non fisici, abitua sin dalla nascita l’individuo alla presenza (non scelta né decifrata) di sottofondi musicali. (“C’è troppo silenzio. Metti un po’ di musica”.)

La qualità di sottofondo del sottofondo (la sottofondamentalità) è tanto più celata quanto più in primo piano. Non esistono luoghi ove l’attenzione per la musica sia più rarefatta che nei luoghi ove la musica si presenta come attrazione centrale. Non ci si lasci ingannare dai nomi sui manifesti: la dimensione pubblica ha da lungi scansato la musica dalla sua centralità e il segno più tangibile di tale fenomeno è da rinvenirsi nella sua stessa iper-proliferazione. Ciò che gli altoparlanti diffondono ovunque è piuttosto un rantolo sintetico, un’esplosione sincronica ininterrotta: il suo scopo è coprire ogni significazione d’un impedimento percepito come “naturale”, come il suono della pioggia, o lo scrosciare di cascate. (“Che hai detto? Parla più forte!”)

L’odierna post-società del post-spettacolo si caratterizza per un ubiquo brusio di fondo. Ma si ponga attenzione ai termini: fondo qui non sta per s-fondo, bensì proprio per fondo, sinonimo di fondamento. Tutto ciò che è raggiungibile dall’accuratezza e lentezza dello spirito è avvolto da un denso, impenetrabile, vischioso wall of sound. Tale muro è una delle plurime facce di ciò che la metafora pre- e post-floydiana del muro addita. A ogni senso, il proprio ostacolo. Musica e ballerine, contest tra cantanti, festival della canzone, programmazioni h24 non stop, discoteche, supermercati; persino nei luoghi conviviali (bar, ristoranti, negozi, centri commerciali) l’elemento comune è: musica senza musica, musica come muro. Sui mattoni poi ognuno dipinge ciò che gli piace, e ritiene di chiamarlo proprio. (“Nessun altro come Dj Shit riesce a parlare così di me. Sembra che mi conoscE meglio di me.”)

Il flusso prevede gradevolezza e rassicurazione, ritmiche graziose e reiterative da percepirsi al confine tra materia e inconscio, sollecitanti all’ottimismo del consumo superfluo. Se lo stesso effetto potesse essere raggiunto invadendo i corridoi di schiuma da barba si può star certi che le cifre dei dividendi dell’industria della musica si trasferirebbero, nel silenzioso cuore digitale del mondo, nella colonna di quelli dei produttori di schiuma da barba. Non è musica ciò che può indifferentemente essere schiuma da barba. (“Vado al supermercato. C’è l’aria condizionata, e buona musica”.)

Soprattutto, la prima vittima dell’inquinamento da musica, è il desiderio di musica; musica come muro in un labirinto infinito: niente prima, niente dopo, tutto così da sempre. Come le stelle, essa esiste, e non proviene più da nessun luogo, se non dai luoghi stessi, privati della loro specificità, mare aperto senza coordinate. Chi sia a produrla poco tange: tutto ciò che occorre memorizzare è una faccia, e qualcuno che le si muova a ritmo accanto. Cosa ci sia dietro (un’idea, un’estetica, un autore, una strumentalità) è talmente lontano da quanto si comunica da aver azzerato la stessa domanda. Alla poesia testuale si è sostituito il vociare di archetipi affettivi tarato su un’età indefinita eppure paralizzata all’imberbe manicheismo dell’adolescenza. Ogni piccola turba ha il suo cantore, e ogni pretesto è buono purché non si esprima altro che una rifrazione della medesima tautologia. (“Che musica è? Mi piace, il messaggio è positivo”.)

I miei ricordi di adolescenza relativi alla musica sono invece quelli d’un percorso percepito come assolutamente esoterico; ad accompagnarmi passo passo v’era la sensazione di star percorrendo un sentiero che avrebbe preso fuoco al mio passaggio. Nulla di ciò che andava formando la mia personalità d’ascoltatore esisteva al di fuori del gesto stesso dell’ascolto, anche nel caso in cui i dischi sul piatto fossero palesemente notori. Mi domandavo anzi se la stessa canzone potesse sortire in altre persone le identiche sensazioni che mi procurava. Non era un quesito ozioso; dovevo ancora capire cosa fosse la solitudine, se una condizione transitoria o permanente, necessaria o accidentale, e in quest’ultimo caso se, per qualche caso, vi rientrassi.
È certo anche che la utilizzassi come strumento di distinzione, ma non saprei riferire esattamente come andarono le cose, se la musica commerciale smise di interessarmi nell’atto stesso della decisione del distacco oppure se quella decisione seguisse semplicemente ai mutati gusti. Fatto sta che, come sviluppando una forma estenuata di nevralgia, iniziai a soffrire psicologicamente ed epidermicamente la musica dei miei paraggi, la musica non richiesta. Mi avventurai negli ascolti come un esploratore, ansioso soltanto di aprire nuovi varchi in quel paesaggio di conformità che costellava la direzione che la vita –così sembrava- aveva scelto di default per me. Non scorsi più alcun merito nel farmi piacere ciò che a bella posta era piazzato lì per costituire la mia identità. Il mondo iniziò ad apparirmi come un tranello ben escogitato. Scoprii le riviste con le foto in bianco e nero: il loro odore di toner m’inebriava. Detti fondo alla discografia paterna, selezionando solo ciò che a primo ascolto superava la prova della sopportabilità. Iniziai a camminare sulle mie gambe.

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E arrivarono gli Eyeless in Gaza. Si trovavano nella Busta Sorpresa Primordiale. Essa conteneva i seguenti vinili:

Cabaret Voltaire – “Mix up”;
Colin Newman “A – Z”;
Clock Dva – “Thirst”;
English Subtitles – “Original Dialogue”
e infine
Eyeless in Gaza – “Caught in Flux/The Eyes of Beautiful Losers”.

A consegnarla in prestito direttamente nelle mie mani fu Davide, il mio professore di Italiano e Latino al liceo. Fiutando da vari elaborati la mia passione per un certo tipo di musica (al tempo già idolatravo Simple Minds e Smiths) aveva assemblato una cinquina destinata a farmi compiere il definitivo salto di qualità (o forse semplicemente d’oscurità). Di fatto ognuno di questi dischi potrebbe essere un capitolo di questa rubrica.
Trasferii ossequiosamente il loro contenuto su delle cassettine e presi a consumarle. Ognuno di essi aveva qualcosa di diverso e nettamente distintivo; da ognuno di loro si dipartiva un sentiero che invitava a esser percorso sino alla fine.

Martyn Bates e Peter Becker, gli Eyeless in Gaza, possedevano alle mie orecchie un’alchimia non solo inedita, ma estremamente persuasiva. A flussi di coscienza affidati a pochi strumenti e a una stravolta voce di sfondo si alternavano brani in cui la chitarra veniva percossa nervosamente, una tastiera delirava pedali minimali e tutto insieme era come trovarsi al centro di una coscienza tormentata, senza alcuna mediazione. Bates era certamente un cantante originalissimo, più incline a straziarsi che ad abbellire, espellendo demoni a squarciagola. Becker, dal canto suo, sapeva trasformare quelle dolorose abreazioni in pezzi compiuti, sostenendo chitarra e voce con un armamentario di percussioni, bassi e suoni sintetici. Se dovessi dire cosa mi colpì al tempo fu proprio la prorompente centralità della voce di Bates, pesante della sua stessa sincerità, e come tutto attorno ad essa si disponesse il malessere del mondo sotto forma di armonie a metà tra il robotico e il romantico.
L’impressione è che a quello spleen martoriato tutto fosse posposto e la musica era come dicesse: non siamo qui per piacere, ma per liberarci d’un peso tremendo, per scaricare rabbia e frustrazione, inseguendo un devastante anelito di Bellezza.

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Incapaci di sintesi come invece l’altro amore mio coevo, i Joy Division, gli Eyeless in Gaza ne erano la versione divagante e faconda, al confine tra rumore e stream of consciousness.
“Caught in Flux” (1981) e la sua (ormai inseparabile) appendice “The Eyes of Beautiful Losers” sono due dischi spigolosi, idiosincratici, personalissimi, immediatamente riconoscibili.

Già dal disco seguente, l’intenso “Drumming the Beating Heart” i due ragazzi del Warwickshire iniziarono la rincorsa a una forma più distesa e classica, quasi “confessionale” nella sua vividezza. Non li ho mai più persi di vista. Ancora oggi, pur avendo perso ogni brillantezza e quasi ogni seguito, continuano a buttare giù le loro attempate ossessioni.
Come se non importasse altro.
E infatti.


In copertina: “Caught in Flux” (front cover, Eyeless in Gaza, 1981)

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