L’angolo del giovedì 1. La falsità di una storia vera – di Fernando Coratelli

 di Fernando Coratelli

In questi tempi di bulimia social, di ansia da prestazione di «quanti like ho preso con il mio ultimo post?», c’è uno spettro che si aggira sulle strade narrative: Tratto da una storia vera – che sia di cronaca o mia personale.
Questa definizione aveva fatto la sua comparsa già nel secolo scorso negli ambienti cinematografici, sembrava un ottimo metodo per galleggiare contro le grandi e inarrivabili storie-archetipi inventate di sana pianta da alcuni maestri (che non starò qui ora a elencare, altrimenti sforo il numero di battute-spazi-inclusi); ma non solo, l’invasione della televisione che raccontava i fatti tuoi/miei/vostri/nostri aveva messo in difficoltà l’industria cinematografica, ragion per cui dire che il film che avresti visto era tratto da una storia vera mandava in solluchero gran parte del pubblico attratto dal potere dire: «Hai capito che è successo?».
Certo, anche in letteratura si erano avuti i primi casi, tuttavia erano ascrivibili a ricerche artistiche/intellettuali – basti pensare all’A sangue freddo di Capote, per citarne uno. Resistevano però i grandi romanzi metaforici: mi invento una storia per dire qualcosa che rappresenta la realtà, e in questo i grandi autori del neorealismo italiano sono stati maestri.
Con il nuovo millennio si è poi avuta una valanga di tratti da una storia vera, di certo fomentati dall’ansia gossippara che i blog prima e i social poi hanno sbattuto in faccia al popolo del Web, che a quel punto ha preso a considerare qualsiasi cosa tratta da una storia vera, meglio se dell’autore stesso. L’avevano percepito in tempi non sospetti (nel 1996) quei geniacci dei fratelli Coen, quando vollero avvertire gli spettatori che si appropinquavano alla visione del loro nuovo film (poi pluripremiato) Fargo che i fatti narrati erano accaduti per davvero in Minnesota. Non era vero, erano storie inventate. Fatto sta che Joel Coen spiegò molto bene il perché di quella boutade, disse: «Se il pubblico crede che una storia sia basata su un fatto reale, questo ti permette di fare cose che altrimenti la gente non potrebbe accettare». Certo, la conseguenza fu che parecchia gente, dopo il film, si recò nel Minnesota alla ricerca dei soldi seppelliti e mai ritrovati, appunto perché avevano creduto che si trattasse di una storia vera.

Oggi questa smania ha coinvolto tutti, tanto che può capitare che un editore arrivi a rifiutare un romanzo perché «sai, su questo argomento preferirei una storia vera, una docu-fiction». Spieghiamo: docu-fiction è un altro modo per dire «tratto da una storia vera», di solito quando la vicenda non collima con i fatti propri dell’autore, altrimenti si usa l’espressione auto-fiction. Il dramma è che la maggior parte degli editori e degli scrittori, dei recensori e del pubblico fa una gran confusione tra docu-fiction e «ispirato [diverso da “tratto”] a un fatto vero», tra autobiografia, auto-fiction e romanzo a chiave. Beh, non mi dilungherò a entrare nello specifico delle differenze ma diciamo che erroneamente parecchi usano auto-fiction per intendere tanto romanzi a chiave quanto autobiografie, forse perché pensano faccia più intellettuale un’espressione straniera, un po’ come l’uso ormai inarrestabile di selfie invece di autoscatto (ma questa è un’altra storia).
Torniamo a monte del discorso. Se si porta a un editore una docu-fiction (cioè una vicenda tratta da una storia vera) o se si porta una lunga sequela di cazzi propri, ecco che probabilmente si spalancheranno le porte della pubblicazione, poi dei premi, degli amari da scolarsi o dei Nemici da combattere – sì, scusate ho divagato ancora. Succede così che quando dopo tante fatiche si riesce a pubblicare un romanzo, che non sia tratto da una storia vera o non sia la cronistoria delle proprie giornate, il pubblico/lettore è talmente abituato ormai a dare tutto per veramente accaduto che fa un tutt’uno di opera e autore. Così si dà del pedofilo a Walter Siti, per esempio, oppure si chiede a un’autrice se il personaggio X è tornato a casa da lei, o se Y alla fine ha confessato le sue magagne. E se per un caso assurdo ci si trova davanti a un romanzo corale (in Italia saranno stati sei i romanzi corali pubblicati negli ultimi dieci anni) allora ci sarà sempre qualcuno che a una presentazione chiederà all’autore: «In quale dei personaggi lei si identifica?». Già, perché il voyerismo estremizzato nell’era social, accompagnato da una mania di protagonismo e egotismo, non presuppone neppure l’idea che oggi possa esistere Tolstoj senza che Anna Karenina sia una sua amica che si è buttata sotto un treno, o Camus senza che abbia ammazzato un arabo sulla spiaggia di Algeri, o Brancati senza che sia impotente, o Hitchcock senza essersi rotto una gamba per spiare i vicini. Potrei continuare all’infinito ma mi fermo qui, e cito i due eserghi che compaiono conseguenzialmente nel romanzo di Federico Baccomo Anna sta mentendo: Questa è un’opera di fantasia. / Questa è una storia vera.
Tornare a sottolineare la differenza tra la verità di una storia narrata (anche quando inventata di sana pianta) e la falsità del veramente accaduto sarà la prossima battaglia letteraria e filosofica. Nel frattempo, facciamo un accordo: lasciatemi le opere di fantasia e tenetevi le vostre auto-docu-fiction.

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