“LA BAMBINA BIANCA” di Vito M. Bonito

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Da dove viene il quintuplice? Da terra, acqua, fuoco, aria ed etere.
In questo quintuplice corpo, cos’è la terra, cos’è l’acqua, cos’è il fuoco, cos’è l’aria, cos’è l’etere?
È detto: ciò che è solido è terra; ciò che è fluido è acqua; ciò che è caldo è fuoco; ciò che si muove è aria; ciò che ha spazio è etere.
Garbha-upaniṣad (Upaniṣad dell’embrione)

 

Nel paese in cui vivo c’è un platano bicentenario, alto quaranta metri.
Una meraviglia di albero monumentale che, da sempre, è il “nostro” albero: di mia figlia e mio.
Quando lei era davvero piccina, ci sedevamo con le schiene contro il tronco (che misura quasi due metri di diametro) e ne evocavamo, in quel nostro pargoleggiante shintoismo à la Miyazaki, il venerandissimo spirito.
Era il tempo in cui m’inventavo canzoncine insensate: in una di queste, la paragonavo — mia figlia — a un agnolotto che, prima o poi, avrei mangiato (strofa 1) o a un’astronave che, prima o poi, avrebbe volato (strofa 2). Si può comprendere, dunque, il batticuore mnestico che m’è preso recentemente leggendo questo verso:

ti bacio mia splendida pèue
bambina architrave
mia bianca astronave (…)

Pèue.
Dove Pe è la diciassettesima lettera dell’alfabeto ebraico: “Pe sta per bocca, l’organo della parola. Una bocca aperta, con un dente in alto (…) Ogni anno gli ebrei meditano su questa lezione della lettera Pe, in occasione della festa di Pesach, per ricordare non solo la liberazione degli Ebrei, la loro uscita dall’Egitto, ma anche la necessità di sperimentarla nel presente, nella propria vita, incoraggiando la bocca (pe) di ciascuno ad aprirsi per parlare e raccontare, interrogare e proporre un nuovo senso alle parole ritualmente ripetute”, ci dice l’autore dei suddetti versi, il poeta Vito M. Bonito.
Versi che ho ricevuto in dono in un’abbacinante plaquette che s’intitola “LA BAMBINA BIANCA”. Lo scrivo tutto in maiuscolo, com’è nella copertina, per mantenere la doppia valenza di BIANCA: aggettivo e nome proprio, e perché sempre maiuscolo dovrebbe essere il gaudio per la nuova vita che scende, come un dono di neve, e che consuma, come fiamma, tutto ciò che eravamo prima di lei, consegnandoci, con la sua ontogenesi, alla nostra fine, sic et simpliciter.
Quindi, prima di tutto: che tu sia la benvenuta, b\Bianca.
Poi: che il nome proprio di un figlio possa essere la scelta privilegiata nel titolare una raccolta poetica che intorno a questo “avvento” ha preso corpo, non è cosa nuova. Io stessa ci sono cascata.
Ma qui allora dovremmo dire del mistero del Nome. Del sacro che, culturalmente, l’umano “mette in circolo” con l’attribuzione del Nome.
Uno dei saṃskāra hindū (traduciamolo a un dipresso — molto a un dipresso — col nostro “sacramento”) è quello del jātakarman, la cerimonia della nascita che, secondo le fonti più antiche: “aveva luogo subito dopo il parto, prima del taglio del cordone ombelicale; il padre portava nella stanza un fuoco sacrificale e, dopo aver preso il bimbo in grembo, vi versava a più riprese piccole quantità di una mistura di burro fuso e siero di latte, pronunciando gli appositi mantra di buon auspicio. Si chinava poi sull’orecchio destro del bimbo e diceva tre volte vāk, che vuol dire parola, per generare in lui intelligenza, facendo infine leccare al neonato una miscela di siero di latte, miele e burro fuso e imponendogli un nome destinato a rimanere segreto; infine metteva il bimbo al seno della madre, pronunciando formule di preghiera”[1]. Ecco, a me sembra che il padre-poeta abbia qui, non tre ma sette volte tre, quante sono le poesie che compongono la plaquette, pronunciato le parole d’intelletto e di simbolico nutrimento, e che il nome segreto sia tutto quel che la parola, anche quella poetica, deve lasciar fuori, non estrarre dal silenzio o, al limite, tramandare in un bisbiglio.

chiamatemi pèue
la bianca falena
l’infanta altalena
che scende e risale
 
io parlo i pesci le api
la neve nivale
 
divento di rame
le acque l’ossame
persino la fame
 
io parlo la pietra
la bolla l’anguilla
 
sono il fumo lo splene
il niente e nessuno
le mani di sangue
già piene
 
sono il tuo scaccomatto
lo schianto
l’autoritratto
di te a testa in giù
 
io sono l’astratto
 
l’incanto
 
il caucciù
 

La natura dedicatoria del libretto è ribadita dai disegni che Bonito ha affiancato ai versi, disegni — suoi — di casupole, rondini, luna, stelle e figurette umane che camminano, che volano, che sostano alle finestre, che hanno chiome ardenti o mistica forma di mandorla.

Il testo ha la grazia di un canto a due voci: quella a un tempo sapiente e infantile di pèue, e quella, del padre, strinata dalla fiamma filiale, lui ridotto al puro ablativo.

 

le agonie le afasie
le notturne
                   aritmie
 
sei vivo sei morto
nessuno lo sa
il passato il presente
ciò che sarà
 
sono fiato di niente
ubbie senza forma
vento da cui non si torna
 
esser non esser
chi viene chi andrà
la luce del corpo
l’oscurità
 
non so dirti
se è tutto un inganno
questo tuo affanno
mio caro papà
 
se capogiri serali
o babilonie
                       della tua anzianità
 
vedo però
che porti gli occhiali
 
e parli solo
                     dell’aldilà                     
 

Cosa ci rivelano i figli che attendiamo? Forse nulla. Ma chissà. Alle nostre domande rispondono: Nessuno sa / se vive o muore. Colonizzano i nostri sogni con esoteriche parole, sorridono del nostro parlare sempre i morti, loro, che sono il nuovo. E quella bocca spalancata, col suo dente, sbrana la pochezza dei nostri simulacri; si mangia, nella sua venuta, l’universo-mondo; lima la mente e forse potrà anche abraderne il rogo di voci/ e rasoi/ che pace non ha.

  

sono la bambina di fuoco!
bùmmmm!
 
con le manine
faccio tremuoti
mulino tempeste
                          che! non mi credi?
 
trattengo il respiro
fino alle stelle
 
nel buio celeste
                   le vedi
le fatue fiammelle?
 
le vedi nel vento
                          le teste?
 
gli alberi ardenti?
i vestiti con gli occhi
                          fosforescenti?
 
le lumache le senti?
 
nel sangue
sorridono stanche
 
le senti
che parlano bianche?
           

Ricordo bene quando scrissi: “Con quelle spazzolette tue di ciglia/hai ripulito il mondo/e a tua insaputa/me l’hai perfino rinsavito”. Può accadere, con un figlio. È da augurarselo, da augurarlo.

Grazie, Vito.

Laura Liberale

(testi da: Vito M. Bonito, LA BAMBINA BIANCA, plaquette a tiratura limitata)

 

 

 

 

[1] S. Piano, Lo hindūismo II. La prassi religiosa, in Giovanni Filoramo (a cura di), Storia delle religioni 4. Religioni dell’India e dell’Estremo Oriente, Laterza, Roma-Bari, 1996, pp. 144-145.

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