Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 54) Green

Ci sono momenti in cui una chitarra diventa un monolite, ne assorbe il sinistro lucore e i tentativi che si fanno di cavarne espressione sono come testate al muro. Sono momenti in cui ti aggrappi fortemente all’idea d’essere qualcosa, un musicista forse e che, per ricambiare la cortesia, lo strumento potrebbe prostituirsi quel tanto che basta per infonderti il conforto d’una mezza identità. Ma sono anche momenti in cui il vuoto aggressivo che s’esplica nel voler tirare fuori a tutti i costi una melodia coincide con la più totale assenza di attività emotiva e cerebrale. A voler pensare male, sembra proprio che le sei corde esercitino ostinatamente un veto: non esiste più niente da dire e, in ogni caso, non sarai tu a estorcerci una confessione. Avresti dovuto bazzicare il conservatorio e addestrare le tue dita con il pilota automatico della cultura tecnica. Con una citazione ce la si cava sempre.
Il povero ex musicista sprofonda nella cupezza del sentimento d’essere stato rigettato da ciò che più di tutto ama. L’anima lo pone come un esame: se vali qualcosa è adesso che devi dimostrarlo, ora che tutto attorno le sinapsi creative tacciono. Ma l’anima è bastarda, perché ha capito che la rapa è esangue. L’anima brama solo d’annichilirsi, e slealmente; ritrovarsi tra macerie di illusioni; vuole non saper riscattare la fiducia che truffaldinamente ha instillato nei suoi ascoltatori. Con che trucco sono riuscito a ingannare gli amici sinora? Il mondo appare come un comitato per l’emanazione di una scomunica.

Ci sono altri momenti in cui la vita è un road movie entusiasmante. Ogni stazione del senso è addobbata con i festoni del caso, notte e giorno si fondono nel medesimo flusso d’endorfine e golosità di vita. E tu potresti essere morto, e ogni tuo gesto dettato e agìto esclusivamente dalla corrente, dalle nuvole che si sfilacciano e riaddensano e recitano nel teatro delle forme del divenire cosmico. Sei Re Mida: su qualunque nota tu ponga le dita, essa addensa a sé la precedente e la successiva e, tramite il tuo apparato muscolare, l’universo ti comunica le ultime novità, incaricandoti di propalarle al pianeta Terra. Non cerchi nulla; al contrario: tutto ciò che sai e sei trabocca dai nervi in inusitate sembianze; l’energia ti assume e frulla in un trionfo di necessità impellente. E così impari a sprecare: trascuri di registrare, persino. Vai in giro per gli angoli della casa, che divengono quelli del mondo, a carezzare suggestioni che si danno il cambio come gioiosa risacca.
Qualcuno chiama questo stato ispirazione. Io propenderei piuttosto per: espirazione. È il primo stato, quello in cui solo l’accettazione supina della vostra insignificanza vi ha evitato il suicidio, a doversi chiamare i(n)spirazione. La vita agisce in noi con la costanza di un’alternanza, come lo stato desto segue il sonno e il sonno lo stato desto.

L’inceppo è altrove. L’intoppo è il lavoro. Ai musicisti il lavoro prescrive: produci incessantemente. Non puoi non produrre perché non puoi non mangiare. La maggior parte dei grandi artisti si sono confrontati con il ricatto della società organizzata identitariamente, che impone loro di ostendere espirazione e ispirazione, veglia e sonno. Ma soprattutto affitta a ciascuno lo scoglio a cui le ventose dell’identità dovranno aderire. Alcuni artisti diverranno tutt’uno con lo scoglio, diventandone indistinguibili; altri preferiranno abbandonarsi ai flutti dichiarandosi altro rispetto all’estorsione dell’espressione. In mezzo a questi due estremi troviamo la fantasmagoria di un’umanità transitata nella terra dell’arte in guise e durate differenti.

green

Da più di quindici anni non sento più parlare (de)i Green. Al tempo (1988) ci ritrovammo fra le mani un sette pollici intitolato “R.E.M.”, la cui povera grafica sembrava scimmiottare la copertina dell’LP “Green” dei più noti R.E.M. di Athens. Incuriositi lo acquistammo e scoprimmo così una band eccezionale. Oggi questo tipo di artificio, estenuato sino al parossismo, è una pratica comune nell’era di Internet: cercare in tutti i modi (dal gusto sovente infimo) di attirare lo sguardo su di sé. Nel 99% dietro l’escamotage non c’è nulla se non volgarità e disperazione, e l’attenzione si disperde come una scorreggia all’aria aperta.

Nel caso dei Green invece il trucchetto sembrò ricompensare il nostro lato topino-di-Skinner, soprattutto con l’album che seguì quel singolo: “White Soul” (1989) che trova Jeff Lescher (la mente e il plettro dietro il progetto) alle prese con una sfilza fragorosa di serenate pop (definizione di Scaruffi) inclini a una densità compositiva sbalorditiva.
Ecco, di fronte a “White Soul” possiamo immaginare un’espirazione che dona beatitudine, la freschezza magica e contagiosa di chi ha ascoltato Beatles, Rolling Stones ma anche Replacements e Hüsker Dü e un giorno, oziosamente imbracciando la chitarra, ne abbia distillato una sintesi baciata dalla dèa dell’imprevedibilità fisiologica.


In copertina: “White Soul” (front cover, Green, 1989)

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