Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 53) Lebenswelt

La musica, immancabilmente, ridiscende nella biografia personale; i criteri di giudizio si frammischiano all’esperienza emotiva; i gesti quotidiani si lasciano informare da ipnosi operanti appena sotto la soglia del discernimento, guidate da sguiscianti anguille di memorie uditive. Ma immaginate di sedere in cima a una collinetta, in una notte d’intenso benessere ormonale, e improvvisamente assistere allo spettacolo di fuochi pirotecnici inframezzati da scintillanti voli d’uccelli e farfalle, getti d’inchiostro senza carta e raggi laser. A prescindere da ciò che credete di trovare in voi stessi: la musica che vi agita e dirige è quell’inafferrabile girandola. Si muove a capriccio anche se credete di dirigerla o farvi scudo. La soglia tra il volontario e l’involontario è un cellophane di pelle già usata, un palloncino scoppio dopo una festa di bambini. In nome di quel fittizio involucro floscio metà dei piaceri della vita potenziale si disperde nel sogno masochistico del controllo e dell’identità, nella difesa di confini e proprietà. Il ricatto dell’organico, la pena di trascinare seco organi ammalabili, si potenzia e inghiotte, recidendo il contatto formale con la propria infinità operante.
Il finito, al meglio, dovrebbe essere il mezzo tramite cui l’infinito, l’insensato, canta al limite delle proprie possibilità disgreganti, tenuto insieme da una tenue cartapesta di occhi e percezione; il solco lungo cui l’acqua scorre e vivifica frutti e fiori.
La musica di Dioniso sottrae a sé, annulla il confine, restituisce all’illimitatezza di risorse oggi razionata in nome dell’avidità del potere distributivo. Non v’è follia maggiore di aver combattuto la follia rigenerante dell’universo in noi, aver separato il desiderio della fusione dal polo di attrazione di ogni stimolo. Aver innalzato la morte a termine di estorsione ontologico, aggrappandoci al feticcio della coscienza come limite invalicabile. Sgorghiamo dall’onnipotenza della materia e, nel nostro breve frattempo coscienziale, elemosiniamo monete d’un senso transitorio e fragilissimo, innalzandolo a unico sovrano d’una vita indigente e isolata.

Naturalmente tutto ciò non esiste. Esiste solo il separato, e aspetta nell’anticamera del dentista, che la vita termini. Fissa i quadri, legge distrattamente le riviste, sfoglia il cellulare, è martoriato dall’orologio. Gira intorno alla propria volontà di diffrazione, e penetra con un senso atrofizzato la vera vita, quella senza vita. Pur finalizzato in ogni più riposta fibra alla morte (stavo per scrivere “propria” morte, ma la conseguenzialità mi ha fermato) egli la fugge e disvuole: si è così abituato a temerla che in quel timore trova la propria più intima espressione.
La paura della morte implica contenimento, salda adeguazione a strategie identificanti, parsimonia e feticizzazione del reale. Una vitaccia, alleviata soltanto dal sublime canto della separatezza, della malinconia verso l’antico inteso come maggiore distanza dalla morte e quindi edenico scorrazzare nella spensieratezza.

Giampaolo Loffredo

Ascoltando “Out is the cow” di Lebenswelt io stabilisco ogni volta un legame telescopico con le mie ossa. Da quelle parti ipotizzo l’esistenza d’un minuscolo nucleo di me, un concentrato fisiologico di ogni mia jattura pensabile, nascosto agli urti e all’esposizione, lasciato soltanto a sentire, tramite strati di distanza, l’orrore e la paura per l’esistente – di ciò che sta fuori.
Non ho mai cercato di esplorare il mondo, conoscerne le inesauribili possibilità; mi sono limitato a difendere quel pavido bitorzolo, lasciandogli lo spazio minimo per respirare la clausura e la dolcezza del vivere nascosto.
“Out is the cow” sembra provenire da questa stessa dimensione, dalla solitudine e dal raccoglimento che distillano la propria preghiera di note, covandola in giorni difensivi e anallergici, per l’esclusivo piacere di essere travolti dalle maree del tempo e degli elementi, gettando il proprio seme di nullità in un cosmo brutalmente de-antropizzato. L’ampiezza della sproporzione tra il modesto calore di questo segno lavorato e l’indifferenza del kosmos e persino del bios tracciano l’intima misura dello sbigottimento di cui Giampaolo Loffredo (aka Lebenswelt) si fa latore.

Avrei potuto raccontarvelo tramite i consueti stereotipi, “Out is the cow”, ma non sarei mai riuscito, citando altri gruppi o facendo nomi di generi ormai estinti, a rendere conto della diuturna malia che m’incatena a questi suoni.


In copertina: “Out is the cow” (front cover, Lebenswelt, 2004)

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