Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 44) Crescent

Stiamo solo parlando del funzionamento del cervello. E stiamo anche riferendoci al modo in cui quella nudità di funzione ama vestirsi. In ultimo, ci riferiamo a un mondo in cui gli abiti hanno dismesso i loro abitanti e inscenato la storia dell’uomo. Ci dibattiamo senza posa tra il silenzio statico della salute e i copioni ciclici della comorbilità universale.
Possiamo amare sia l’uno che gli altri oppure, più ragionevolmente, farli interagire per dar vita a forme più ponderate. A tale uopo ci serve tutto, e la totalità non si lascia eludere. Buttar via qualcosa non sarebbe possibile e, in ogni caso, in un mercato sovrappopolato, sarebbe scovato e rigenerato.
Ortodossia e scandalo sono necessari, in certe fasi del ciclo, ma rappresentano sempre il rimando alla filogenesi delle fasi precoci. Esistesse una vera vecchiaia, sarebbe possibile anche qualche forma di saggezza. Ma tutto ha l’abitudine di ripartire sempre un’altra volta: gli errori si ridistribuiscono sulla terra come il ciclo della pioggia, come istinto primordiale. Anche il sonno, in una certa misura, ri-azzera il contatore lasciando immutato il bisogno di esser altro da ciò che è possibile pensare.
Ma anche se fosse possibile un’esperienza resa progressiva da memorizzazione e adesione, sarebbe necessario uno sforzo immane per diffondere sul pianeta i frutti più dolci del progresso e a tale scopo sarebbe auspicabile una sovranità assoluta volta all’esclusivo servigio della propria virtuosa criterialità.
Ancora più preliminarmente occorrerebbe qualcosa-di-più dell’animale. Servirebbe l’idea dell’oltre-animale dell’animale stesso: e ricadremmo nell’indigenza prometeica d’un essere contemporaneamente dominante e parassitario. Resta forse solo il de-pontenziamento, il qualcosa-di-meno dell’animale. Esso potrebbe essere possibile solo a condizione che ‘riduca’ indifferenziatamente tutti: nessun animale ama fornire un vantaggio evitabile al prossimo suo. L’istinto di difesa, ancorato alla propria arcaicità, non lo consentirebbe se non come succedaneo del suicidio. “Tutti”, tuttavia, resta solo termine astratto, indicando più una somma di insommabili che una qualità complessiva omogenea.

Un piano comune per l’uomo è impossibile. Se fosse possibile non sarebbe auspicabile.
In ogni caso, e permanendo l’impossibilità, il piano al ribasso avrebbe più chances di quello al rialzo: è ciò che il mercato persegue, lavorando ai fianchi con gradualità ogni impulso alla singolarità, al percorso singolare non integrabile.
Quando facciamo ricorso ai termini specifici d’un qualunque sistema presupponiamo la sua organicità, costituita dalla cedevole modellabilità d’ogni suo elemento. Ogni piano per il mondo organico prevede la sua riduzione a mondo inorganico. A distanziare la vista, guardando dall’alto, non ci sfuggirebbe la condizione d’un essere ansioso di privarsi della propria specificità, del criterio che lo innalza sopra il resto. All’uomo la vita è intollerabile, a partire dalla battaglia che egli inscena per la sopravvivenza, anche quando poco osterebbe alla sua cessazione. Potrebbe mai la paura d’esser predato lasciare ontogeneticamente il posto alla consapevolezza d’essersi affrancato da tale condizione? La pluralità non aiuta: la storia dell’uomo è storia di invasioni e saccheggi e la memoria sembra tenere maggiormente in conto i propri timori che le proprie speranze.

Si potrebbe credere che la Terra, oggi ch’è unificata da un unico fascio di fibre nervose, possa iniziare ad agire come uno. Nondimeno, ciò che senza sforzo è comune a tutti gli uomini resta il nudo e crudo bisogno. Senza troppi fronzoli: nella diversificazione si perde l’efficacia, nella complessità l’urgenza. Un solo piano è semplice e violento, o non è. Privato di semplicità non può attecchire e senza violenza non può essere il migliore possibile.
Restano infine tanti piani, parzialmente conciliabili, mossi da diffidenza e antagonismo o da fiducia e cooperazione. Il grado di difficoltà delle due variabili resta fortemente sbilanciato, poiché fornito di fragilità diverse.

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Bene, adesso che la sintesi del mio pessimismo cosmico e sociale ha avuto modo di esplicitarsi resta soltanto da metter su un buon disco, l’esatto luogo di questo pianeta in cui la volontà di potenza del singolo coincide con il benessere dell’altro uomo. Ci sono di queste pieghe, nel tessuto neurale, che implicano relazionalità ab origine: il cuore concepisce una canzone e orecchie sono ansiose di sentirla. Inforco le cuffie (per timore di infastidire a tarda ora i miei sospettosi vicini) e spalanco le porte della ricezione a una certa quantità di energia ‘formata’ che qualcun altro ha assemblato con cura, quasi a distillare il proprio mondo in brandelli di abbandono all’altrui attenzione. V’è del magico nella sospensione, in questa panacea di corrispondenze che ha la forza di far convivere l’elemento energetico indistinto con la singolarità del proprio latore. Comporre musica è come lanciare un messaggio in bottiglia tra le onde, sperando che qualcuno vi si dedichi con la stessa intensità con cui è stato vergato. O è come isolare un virus che si spera possa infettare l’intero universo.

Dalle parti del virus sono accampati i bristoliani Crescent. Il loro lavoro migliore, “By the roads and the fields” (2003) assomiglia a una bottiglia d’acqua dimenticata sul balcone della casa al mare per 10 mesi. Un intero e inedito ecosistema in bottiglia.
I suoni vengono su come bolle pigre, le mucillagini hanno reso opaco il perimetro, microorganismi sciamano in tondo senza far rumore, bande parate a lutto restano fuori a intonare marce funebri, filtrate dalle spugne e dal vetro.
È un disco inclassificabile, totalmente privo di sommovimenti interni, apatetico e atarassico. Una raccolta di novelle che narra la vita della palude.
Una visione del futuro, probabilmente.


In copertina: “By the roads and the fields” (front cover, Crescent, 2003)

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