InVersi Fotografici – Dell’accerchiato incanto: Francesca Della Toffola Vs Andrea Zanzotto

di Cinzia Accetta

L’InVerso fotografico di oggi è concentrico come le onde di un sasso nello stagno. Il gesto non si esaurisce nel semplice atto che separa la pietra dalla mano, ma diffonde sulla superficie dell’acqua l’energia residua che trasforma la forza in movimento regolare. La natura accoglie e ammortizza l’energia e il cerchio è la forma preferita per la capacità di propagarsi accarezzando i contorni.

Gli “accerchiati incanti” sono per il poeta Andrea Zanzotto quelle pozze d’acqua che si incontrano passeggiando nei “palù” ma anche quei cerchi che si formano nell’acqua quando cade una foglia o un’infiorescenza o simili. Nel mio progetto – scive Francesca Della Toffola – quei momenti di incanto diventano il tentativo di fusione con la natura. La stessa natura dalla quale il poeta si sentiva abbracciato, confortato, avvolto..

Confini è una rassegna fotografica ideata e organizzata da PhotoGallery di Firenze e Massenzio Arte di Roma e che ha per filo conduttore la fotografia al confine in termini di linguaggio o di tecnica importati da altri media. Ho visto le opere di Francesca a Milano nel 2013 e mi ha colpito molto la forza evocativa del tondo che offre uno sguardo privilegiato su di una natura antropizzata ma che annulla i contrasti riassorbendo l’oggetto-uomo come un sasso inghiottito dall’acqua, attenuandone la capacità distruttiva.

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Fili d’erba germinano dalla pelle, bucano gli occhi, parlano dalle orecchie. 

La terra divora, mastica, fagocita…la pelle diviene acqua,

i capelli sterpi intricati,

la bocca anfratto per radici.

Essere filo d’erba tra fili d’erba.(FDT)

Il paesaggio è uno dei due temi ricorrenti nella poetica di Zanzotto, insieme alla lingua. Il paesaggio – dai sedimenti organici cantati nel Galateo in bosco fino alle altezze allucinate di Fosfeni –  è l’interlocutore privilegiato dell’io lirico zanzottiano e gioca un ruolo cruciale dalla prima raccolta del 1951 fino a Conglomerati. Zanzotto spezza il quotidiano rapporto tra significato e significante, sperimenta nuove strade e sovverte il significato ordinario delle parole e le regole tradizionali del codice poetico per giungere al significato puro. Gli scorci della sua terra si caricano di significati metaforici e simbolici, la natura tende verso l’astrazione.

Francesca Della Toffola si lascia suggestionare nella sua ricerca da questa visione astratta di emblemi puri che rimandano a un senso ulteriore e misterioso che sta “dietro” gli elementi naturali, facendone rappresentazione personale e nuova attribuzione di senso.

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Al di là

da Dietro il paesaggio, 1951

Al di là tu falci e componi
Le gentil somiglianze dei fiori
Al di là non è sazia
Mai la tua fame di bambina
Ed hai la mela e il ghiaccio vegetale,
là ti punge al polso la tua bussola
per indicarti la stella
ch’è il tuo vero gemello;
perché tu possa conoscere
colli piccoli come noci
per i tuoi denti giocosi,
soli come voli di vespe
e parole che suonano come monete;
e tu prepari al vento l’ora
delle più grandi altezze
delle più vivide seminagioni
delle tue visite che innamorano
È per te che la gioia dei paesi
Liberamente va imitando
I tuoi semplici atti;
e per te questa terra non è
che un mite minuto satellite
che ben sa dove si dirige.

 

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Da un eterno esilio…

dall’Appendice dell’edizione del 1981 di Vocativo, 1957

Da un eterno esilio
eternamente ritorno

e coi giorni mi volgo e mi confondo,
vado, da me sempre più lontano,
divelto per erbe prati e tempi
d’ottobre
e silenzi confidati agli orecchi
da stelle e monti.

 

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 Sì, ancora la neve

Da “La Beltà”

 

“Ti piace essere venuto a questo mondo?”

 

Bamb.: Sì, perché c’è la STANDA”.

 

Che sarà della neve

che sarà di noi?

Una curva sul ghiaccio

e poi e poi… ma i pini, i pini

tutti uscenti alla neve, e fin l’ultima età

circondata da pini. Sic et simpliciter?

E perché si è – il mondo pinoso il mondo nevoso –

perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci,

perché si è fatto noi, roba per noi?

E questo valere in persona ed ex-persona

un solo possibile ed ex-possibile?

Hölderlin: “siamo un segno senza significato”:

ma dove le due serie entrano in contatto?

Ma è vero? E che sarà di noi?

E tu perché, perché tu?

E perché e che fanno i grandi oggetti

e tutte le cose-cause

e il radiante e il radioso?

Il nucleo stellare

là in fondo alla curva di ghiaccio,

versi inventive calligrammi ricchezze, sì,

ma che sarà della neve dei pini

di quello che non sta e sta là, in fondo?

Non c’è noi eppure la neve si affisa a noi

e quello che scotta

e l’immancabilmente evaso o morto

evasa o morta.

Buona neve, buone ombre, glissate glissate.

Ma c’è chi non si stanca di riavviticchiarsi

graffignare sgranocchiare solleticare,

di scoiattolizzare le scene che abbiamo pronte,

non si stanca di riassestarsi

– l’ho, sempre, molto, saputo –

al luogo al bello al bel modulo

a cieli arcaici aciduli come slambròt cimbrici

al seminato d’immagini

all’ingorgo di tenebrelle e stelle edelweiss

al tutto ch’è tutto bianco tutto nobile:

e la volpazza di gran coda e l’autobus

quello rosso sul campo nevato.

Biancaneve biancosole biancume del mio vecchio io.

Ma presto i bambucci-ucci

vanno al grande magazzino

– ai piedi della grande selva –

dove c’è pappa bonissima e a maraviglia

per voi bimbi bambi con diritto

e programma di pappa, per tutti

ferocemente tutti, voi (sniff sniff

gran gnam yum yum slurp slurp:

perché sempre si continui l'”umbra fuimus fumo e fumetto”):

ma qui

ahi colorini più o meno truffaldini

plasmon nipiol auxol lustrine e figurine

più o meno truffaldine:

meglio là, sottomano nevata sottofelce nevata…

O luna, ormai,

e perfino magnolia e perfino

cometa di neve in afflusso, la neve.

Ma che sarà di noi?

Che sarà della neve, del giardino,

che sarà del libero arbitrio e del destino

e di chi ha perso nella neve il cammino

(e la neve saliva saliva – e lei moriva)?

E che si dice là nella vita?

E che messaggi ha la fonte di messaggi?

Ed esiste la fonte, o non sono

che io-tu-questi-quaggiù

questi cloffete clocchete ch ch

più che incomunicante scomunicato tutti scomunicati?

Eppure negli alti livelli

sopra il coma e il semicoma e il limine

si brusisce e si ronza e si cicala-ciàcola

– ancora – per una minima e semiminima

biscroma semibiscroma nanobiscroma

cose e cosine

scienze lingue e profezie

cronaca bianca nera azzurra

di stimoli anime e dèi,

libido e cupìdo e la loro

prestidigitazione finissima;

è così, scoiattoli afrori e fiordineve in frescura

e “acqua che devia

si dispera si scioglie s’allontana”

oltre il grande magazzino ai piedi della selva

dove i bambucci piluccano zizzole…

E le falci e le mezzelune e i martelli

e le croci e i designs-disegni

e la nube filata di zucchero che alla psiche ne vie?

E la tradizione tramanda tramanda fa passamano?

E l’avanguardia ha trovato, ha trovato?

E dove il fru-fruire dei fruitori

nel truogolo nel buio bugliolo nel disincanto,

dove, invece, l’entusiasmo l’empireirsi l’incanto?

Che si dice lassù nella vita,

là da quelle parti là in parte;

che si cova si sbuccia si spampana

in quel poco in quel fioco

dentro la nocciolina dentro la mandorletta?

E i mille dentini che la minano?

E il pino. E i pini-ini-ini per profili

e profili mai scissi mai cuciti

ini-ini a fianco davanti

dietro l’eterno l’esterno l’interno (il paesaggio)

dietro davanti da tutti i lati,

i pini come stanno, stanno bene?

 

Detto alla neve: “Non mi abbandonerai mai, vero?”

 

E una pinzetta, ora, una graffetta.

 

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L’Elegia in petèl

da La Beltà, 1968

 

Dolce andare elegiando come va in elegia l’autunno,
raccogliersi per bene accogliere in oro radure,
computare il cumulo il sedimento delle catture
anche se da tanto prèdico e predico il mio digiuno.
E qui sto dalla parte del connesso anche se non godo
di alcun sodo o sistema:
il non svischiato, i quasi, dietro:
vengo buttato a ridosso di un formicolio
di dèi, di un brulichio di sacertà.
Là origini – Mai c’è stata origine.
Ma perché allora in finezza e albore tu situi
la non scrivibile e inevitata elegia in petèl?
“Mamma e nona te dà ate e cuco e pepi e memela.
Bono ti, ca, co nona. Béi bumba bona. È fet foa e upi”
Nessuno si è qui soffermato – Anzi moltissimi.
Ma ogni presenza è così sua di sé
e questo spazio così oltrato oltrato… (che)
«Nel quando ║ O saldamente costrutte Alpi
E il principe ║ Le »
appare anche lo spezzamento saltano le ossa arrotate:
ma non c’è il latte petèl, qui, non il patibolo,
mi ripeto, qui no; mai stata origine mai disiezione.
Non spezzo nulla se non spezzato ma súbito riattato,
spezzo pochissimo e do imputazione – incollocabili –
a mimesi ironia pietà;
qui terrore: ma ridotto alla sua più modica modalità.
Per quel tic-sì riattato, così verbo-Verbo,
faccio ponte e pontefice minimo su
me e altre minime faglie.
L’assenza degli dèi, sta scritto, ricamato, ci aiuterà
– non ci aiuterà –
tanto l’assenza non è assenza gli dèi non dèi
l’aiuto non è aiuto. E il silenzio sconoscente
pronto a tutto,
questo oltrato questo oltraggio, sempre, ugualmente
(poco riferibile) (restio ai riferimenti)
(anzi il restio, nella sua prontezza):
e il silenzio-spazio, provocatorio, eccolo in diffrazione,
si incupisce frulla di storie storielle, vignette
di cui si stipa quel malnato splendore, mai nato,
trovate pitturanti, paroline-acce a fette e bocconi, pupi,
barzellette freddissime fischi negli orecchi
(vitamina A dosi alte per trattarli
ma non se sono somatismi di base psichica),
e lei silenzio-spazio
e lei allarga le gambe e mostra tutto;
vedo il tesissimo e libertino splendore
e il fascino e il risolino e il fatto brutto
e correre la polizia e – nel vacuum nell’inane
ma raggiante – il desiderio di denaro fresco si fa più ardente
di dominio fresco di ideologia fresca;
anzi vedo a braccetto Hölderlin e Tallémant des Réaux
sovrimpressione sovrimpressiono
ma pure
ma alla svelta
ma tutto fa brodo
(cerchiamo, bambini, di essere buoni
nel buon calore, le tue brune tettine,
il pretestuarsi per ogni movimento
in ogni momento,
calore non mai tardo nel capire
come credono “certe persone”
anzi astuto come uno di voi
quando imbroglia grilli erbe genitori,
sappiate scrivere ma non leggere, non importa,
iscrivetevi a, per, pretestuarvi all’istante)
ma: non è vero che tutto fa brodo,
ma: e rinascono i ma: ma
Scardanelli faccia la pagina per Tallémant des Réaux,
Scardanelli sia compilato con passi dell’Histoire d’O.
Ta bon ciatu? Ada ciòl e úna e tée e mana papa.
Te bata cheto, te bata: e po mama e nana.

“Una volta ho interrogato la Musa”

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Così siamo

da IX Ecloghe, 1962

 

Dicevano, a Padova, “anch’io”
gli amici “l’ho conosciuto”.
E c’era il romorio d’un’acqua sporca
prossima, e d’una sporca fabbrica:
stupende nel silenzio.
Perché era notte. “Anch’io
l’ho conosciuto”.
Vitalmente ho pensato
a te che ora
non sei né soggetto né oggetto
né lingua usuale né gergo
né quiete né movimento
neppure il né che negava
e che per quanto s’affondino
gli occhi miei dentro la sua cruna
mai ti nega abbastanza

E così sia: ma io
credo con altrettanta
forza in tutto il mio nulla,
perciò non ti ho perduto
o, più ti perdo e più ti perdi,
più mi sei simile, più m’avvicini.

 


Francesca Della Toffola nasce a Montebelluna (TV) nel 1973 e lavora come fotografa e insegnante di fotografia creativa. Dopo essersi laureata a Venezia in lettere moderne, approfondendo in particolare gli studi sulla storia della fotografia e del cinema ed dopo un iniziale interesse verso la macrofotografia e i particolari, la sua ricerca si è concentrata sui materiali, la riflessione sulla black line e il racconto attraverso l’autoritratto.

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Andrea Zanzotto nasce nel 1921 a Pieve di Soligo, un piccolo paese in provincia di Treviso. Il padre è un pittore e decoratore; la famiglia della madre possiede una bottega di calzature. Zanzotto frequenta le scuole magistrali e poi consegue la maturità classica da privatista in un liceo di Treviso. Scrittore e lettore dotato fin dalla tenera età, si iscrive alla facoltà di Lettere di Padova. Si laurea nel 1942 e l’anno successivo viene chiamato alle armi. Dopo l’armistizio torna in Veneto e si unisce alla Resistenza. Nel 1963 ottiene un posto nella scuola media di Pieve di Soligo, dove insegnerà fino alla metà degli anni Settante. Il 1951 è l’anno del suo libro d’esordio, Dietro il paesaggio, che suscita fin da subito l’interesse della critica. La sua produzione in versi copre più di mezzo secolo: ricordiamo La Beltà(1968), Il galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983), Meteo (1996) e il recente Conglomerati (2009). Zanzotto è anche autore di prose e critico letterario. Dopo una lunga attività artistica e intellettuale, trascorsa perlopiù a Pieve di Soligo, Zanzotto muore nel 2011. È considerato uno dei massimi poeti italiani del secondo Novecento.

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