Le narrazioni (Sicilia) – IL BISOGNO DELL’ASSOLUTO E DI CINQUANTA LIRE, I Quaderni di Antonio Bruno/II parte

di Antonio Lanza 

«IL BISOGNO DELL’ASSOLUTO E DI CINQUANTA LIRE».
I QUADERNI DI ANTONIO BRUNO
Seconda parte

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«Piove. – I tedeschi ci battono. – Aspetto denaro».

Fermando il flusso delle informazioni con cui da dieci minuti lo sto investendo, con un’energia e una passione che nella vita riservo solo alle discussioni letterarie (e comunque no, non ci sta ascoltando, la cameriera: è lì in mezzo ai tavoli, uno sbadiglio di noia le rapisce adesso la bocca, col pensiero, chissà, al fidanzato disteso in spiaggia sotto questo sole di giugno, alla Playa), Luigi La Rosa mi dice che ho tra le mani una bellissima storia, che la devo raccontare in un romanzo. Ho sempre l’irragionevole bisogno di sentirmelo dire. Come volessi dagli altri, e meglio se scrittori, la conferma che sì, è proprio materia di un romanzo, la vita di Bruno, lui poeta, come già dicevo, incompiuto. Luigi ordina una bottiglietta d’acqua, la cameriera, sovrappensiero, gli si accosta e con aria professionale gli chiede se frizzante o naturale. Naturale, grazie. E per lei? Per me niente invece, grazie.
Anni fa, di questo mio progetto di scrittura, avevo parlato anche a Maria Attanasio («È il poeta che prima di uccidersi si è goduto la vita e ha dilapidato il patrimonio del padre, no? Ha fatto bene!») e si era mostrata entusiasta. Telefonicamente in un primo momento e poi di persona, mi aveva dato dei consigli, non solo per la stesura del romanzo, ma soprattutto per la lunga fase preparatoria delle ricerche da svolgere, lei essendone espertissima visti i suoi romanzi di ambientazione storica. E adesso neanche Luigi, che insegna in molti corsi di scrittura creativa, mi risparmia suggerimenti e consigli. Di partire dai luoghi, per esempio. Affiancando la narrazione con degli inserti fotografici che ritraggono oggetti, vie, alberghi, città frequentati da Bruno, secondo un procedimento adottato, tra gli altri, da Safran Foer o da Sebald.
Se dovessi individuare una foto che racconti quell’anno della vita di Bruno, il 1917, inserirei, perché emblematica, una cartolina postale recapitata presso il lussuoso Hotel de Rome di Firenze, che Marinetti spedisce dal fronte: «Carissimo Bruno, saluta tutti gli amici […]. Ti abbraccio con affetto. 23̊ Gruppo bombardieri, zona di guerra». Mentre i suoi sodali futuristi scoprivano l’azione igienizzante di uno shrapnel e Ungaretti da Cima Quattro gridava il suo accorato, disperato attaccamento alla vita, Bruno, inabile alla guerra perché – ricordiamolo – gobbo, si trova al sicuro in una Firenze tappezzata di manifesti di guerra, ma che lui vive inseguendo e raccontando amori più o meno contrastati, lontano centinaia di chilometri dai luoghi dove il vecchio mondo scompariva e una nuova letteratura, dall’orrore e lentamente, nasceva. Bruno non sembra interessarsi affatto all’andamento della guerra. Confessa addirittura di odiare la classe dei militari, e la notizia della disfatta di Caporetto si guadagna nei Quaderni appena un’annotazione tra parentesi: «(Piove. – I tedeschi ci battono. – Aspetto denaro)».

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«Un poeta di provincia. Schiarimento catanese in difesa della poesia»

Le successive note dei Quaderni registrano per l’inizio del nuovo anno la partenza da Firenze. Il 16 gennaio Bruno è di passaggio a Roma, il tempo di vedere qualche amico al Caffè Aragno, dove di certo gli accade di incontrare Papini, il quale, per quello che ci è dato congetturare, non esita ad accusarlo di plagio letterario. Lo sfogo di Bruno non si fa attendere: «Ormai tratta l’arte da giornalista. Vi cambia d’opinione a convenienza, come fosse politica. Patisce, da buon fiorentino, l’invidia».
A marzo è a Catania, città che reputa angusta e soffocante, così come il suo ambiente letterario, con cui entra in polemica già a maggio, pubblicando vari articoli sulle pagine del Giornale dell’Isola e il Corriere di Catania in aperto contrasto con il poeta Giuseppe Villaroel. A luglio si dichiara «disgustatissimo e stanco», «sfinito dalla Sicilia». Legge Illusioni perdute saltando molte pagine. Gli sembra di passare dalla prima alla seconda giovinezza, prova a cercare definizioni di sé che possano soddisfarlo e trova questa, che gli piace: «il cervello di un colosso, la sensibilità di una signorina isterica; il corpo di un ragazzo sognatore e malato». Il 1918 declina tra la speranza che la guerra finalmente finisca e che il desiderio del viaggio a Parigi si possa realizzare. Legge Sesso e carattere («Le mie note sul libro di Weininger per autobiografia») e l’epistolario di Leopardi, in particolare le lettere da Napoli. Ritiratosi a Biancavilla, scrive in pochi mesi un pamphlet contro la facile musa di Villaroel. Lo intitola Un poeta di provincia ed esce nel 1920 per le Edizioni Futuriste di Marinetti. «E, poiché si rappresentava in quei giorni, nel massimo teatro della città, un mio melodramma, munitosi di una carrettella e riempitala del Poeta di provincia, si pose dinanzi all’ingresso e cominciò a distribuire gratis copie del libro a chiunque entrasse», così lo stesso Villaroel in un articolo su Bruno poi raccolto nel volume Gente di ieri e di oggi.
Tra i vari invii, Bruno spedisce una copia del pamphlet anche al conterraneo Borgese, a Milano. Lo scrittore e critico originario di Polizzi Generosa, ringraziandolo dell’«affettuosa dedica», gli scrive: «Le sue pagine sono piene d’ingegno, ma io non sono mai stato un ammiratore del genere polemico sebbene spesso mi ci abbiano tirato per i capelli e non sempre io abbia saputo resistere alla tentazione. Probabilmente è stato così anche per Lei».

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Carteggio Antonio Bruno – Federico De Roberto

All’inizio del nuovo anno, il 1921, Bruno riprende a viaggiare. Attraverso una serie di lettere inviate a Federico De Roberto riusciamo a ricostruire le tappe del suo inesausto girovagare, risalendo in vari mesi, da gennaio a maggio, l’intera penisola: Siracusa, Taormina, Palermo, Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Milano e infine Parigi («alla gare de Lyon mi reputerò liberato da un enorme peso»). Sono lettere molto corpose, dove Bruno si abbandona al piacere del racconto, dell’aneddoto letterario, del pettegolezzo.
Sul treno che da Taormina lo porta a Siracusa, conosce una scrittrice svedese trentenne, Ulla Bjerne, autrice all’epoca come oggi sconosciuta in Italia, ma che agli inizi degli anni Venti aveva già pubblicato, tra romanzi e novelle, cinque libri. Vicina al movimento modernista svedese e finlandese, in relazione (talvolta amorosa) con i maggiori scrittori d’avanguardia scandinavi, era nata nel 1890 a Söderhamn. Le poche informazioni che su di lei sono stato in grado di reperire sul web in lingua inglese (e in particolar modo in un blog intitolato Capri seconds e gestito da Lars Fuhre, il cui bisnonno era fratello del padre di Ulla) parlano di una scrittrice bisessuale che vestiva come un uomo, fumava la pipa e conduceva una vita da bohémien (aveva conosciuto a Capri il futurista italiano Italo Tavolato), risiedendo in quel periodo a Parigi – città dove, confida Bruno a De Roberto, i due avevano progettato di incontrarsi nuovamente. In una mail di qualche anno fa chiesi a Lars Fuhre se Ulla avesse mai scritto di Antonio Bruno, ma ricevetti purtroppo risposta negativa.
A Siracusa, Bruno incontra nel suo gabinetto il direttore del Museo archeologico Paolo Orsi, gira per le rovine della città, raccoglie informazioni per un nuovo grande progetto che ha in mente, un romanzo di ambientazione medievale, un «episodio della lotta fra i Ventimiglia e i Chiaramonte», il cui solo pensiero gli suscita momenti di «ricco entusiasmo».
Da Roma, a marzo, scrive a De Roberto un’altra lettera la cui «lunghezza sta a significare il piacere che avrei di esserle ancora vicino». Gli racconta di avere incontrato a Napoli, presso l’Hotel Riviera, la scrittrice Sibilla Aleramo, che non vedeva da tre anni, dai tempi della sua tormentata passione per Dino Campana. La descrive mutata, «ha fatto pelle nuova in maniera da non riconoscersi», non più femme fatale, ma «una signora matura, ben messa e con arie trascurate e matronali». Sibilla gli regala due dei suoi libri, fa mostra di avere apprezzato Un poeta di provincia che aveva avuto in prestito a Firenze. Parlano insieme dei due massimi scrittori catanesi: «A Catania non si ha idea precisa dell’enorme stima che da Palermo in poi hanno di Verga e De Roberto». La missiva si conclude con i soliti saluti alla «Signora sua Madre, alla Signorina Nennella e alla signora sua Cognata».

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Ma le attenzioni sono concentrate soprattutto su Nennella, la nipote che De Roberto ama tantissimo e che vive in casa con lui. Con la lettera successiva, stavolta da Firenze, tra speranze e tentennamenti, Antonio Bruno si decide finalmente a chiederne la mano: «Io sogno con fervore […] di potere un giorno, col consenso e il piacere di tutti, coronare la tenerezza e l’affetto, dando alla seducente e pura creatura la prova maggiore di devozione che si può offrire a un essere infinitamente amato: il proprio nome e l’impegno di amarla sempre, tutta la vita».
Le precise parole utilizzate da De Roberto nella replica non ci sono note, ma sappiamo che essa fu improntata alla massima franchezza e sollecitudine: «Ricevo la sua lettera» scrive Bruno nella sua del 19 aprile 1921, sempre da Firenze, «Mi addolora assai. […] Mi rincresce di non aver intuito l’animo delle persone cui Ella accenna». Il progetto di matrimonio dunque naufraga, ma Bruno fa buon viso a cattivo gioco, dichiara di augurarsi che nei suoi rapporti «con il Maestro» tutto rimanga immutato, e gli scrive ancora altre due lettere, entrambe da Milano. Nella prima delle quali, brevissima, lo informa di essere ancora, dopo cinque giorni di soggiorno nella città lombarda, «pessimamente alloggiato a causa della fiera campionaria», di avere incontrato Borgese e Berretta. «Milano letteraria è una bolgia d’ignobili appetiti. […] Si burlano e si spaventano di me. […] Essi non vogliono fare altro che vendere l’ano» scrive in chiusura, contrapponendo questo atteggiamento servile alla «siciliana fierezza ed artistica dignità» di Verga e De Roberto.
La successiva e ultima lettera fa un «pallido resumé» del suo soggiorno milanese: l’«industrialismo» che preme su tutto, persino sul clima, gli industriali «intelligenti e moderni», Rubé di Borgese, appena uscito, che è l’avvenimento letterario del momento (così come, scrive Bruno, a Firenze Vita di Cristo di Papini), le visite al Castello sforzesco e a Marinetti («un amico che piace molto mentre la sua opera piace poco»), le concomitanti elezioni, le canzoni fasciste, il raffreddore «ribelle a ogni cura», il fascino che scopre essere indubbio nei confronti delle milanesi («le medesime piacciono poco a me. Mi sembrano un perditempo») e, infine, la notizia dell’imminente partenza, «con quasi una settimana di ritardo», per Parigi.
Luigi La Rosa beve un altro sorso d’acqua, ha quasi terminato la bottiglietta da mezzo litro che si è fatto portare poco fa. Bere tanto è un ottimo espediente, mi dice, per non sentire la fame, solo che ha una controindicazione, una sola. Si alza, mi sorride, entra al bar, guardo l’orologio al cellulare e scopro come il tempo, magicamente a questo tavolo, si sia dilatato: è appena mezzogiorno.
Eravamo rimasti al viaggio a Parigi, dice Luigi tornando a sedersi, dimmi di Bruno a Parigi, poi ti indico due tre libri che ti potrebbero tornare utili per la tua storia.

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Antonio Bruno nacque a Biancavilla (CT) il 20 novembre del 1891 e morì suicida in una camera dell’albergo Italia, a Catania, all’età di 41 anni. È autore di due libri di poesie, More di macchia (1913) e Fuochi di bengala (1917), di due saggi Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi (1913) e Un poeta di provincia (1920) e un romanzo epistolare 50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti (1928). Nel 1915 fondò e diresse a Catania il quindicinale Pickwick, uno dei migliori esempi di rivista di avanguardia, ben recensita da Lacerba e La Voce. Suoi scritti comparvero su Lacerba, La Diana, l’Italia futurista e Il Tevere. Tradusse Baudelaire. Postuma uscì la sua traduzione de Il Corvo di Poe.

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