I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): su “Chiaro di terra” di Antonio Pibiri

Il “luogo” di questo libro è luogo verso cui fare ritorno che è poi quello della madre, luogo della presenza del femminile; è il lungo, arduo viaggio esistenziale, ma anche psichico e culturale, per ritrovare la madre il filo conduttore della raccolta più recente di Antonio Pibiri. E non esiste garanzia che tale viaggio conduca alla meta o che possa avere un termine. La scrittura, difficile ed elegantissima, ci guida traverso un libro di poesia di rara densità.

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Esiste in francese un’espressione (poète lettré), non diffusissima, ma che mi piace impiegare qui anche per sottolineare i legami d Antonio Pibiri proprio con la cultura francese e che designa quei poeti di vasta e profonda cultura letteraria (ma non solo), i quali compongono i propri testi con totale consapevolezza storica e tecnica, trovando spesso proprio nella cultura il punto di partenza per i propri lavori; in Italia si è probabilmente ancora vittime del pregiudizio secondo il quale un eccesso di cultura possa “rovinare” la resa poetica, inficiare una supposta “naturalezza” o “immediatezza” espressiva – come se “naturalezza” e “immediatezza” non fossero invece il risultato di un lavoro lunghissimo e faticoso sulla scrittura o, talvolta, invece soltanto un luogo comune e, appunto, un pregiudizio fuorviante, a mio avviso Antonio Pibiri con questo suo Chiaro di terra (Forlì, L’Arcolaio, 2016 con una bella postfazione di Davide Zizza) realizza un percorso di scrittura in perfetto equilibrio tra ragioni culturali e ragioni espressive. Che Antonio sia un poète lettré lo dimostrano già le sue due raccolte precedenti e il libro di cui mi accingo a scrivere lo conferma in modo definitivo. Ma ci si soffermi un attimo a meglio riflettere: il dominio sulla scrittura, i molteplici riferimenti culturali servono a filtrare una materia ardua e magmatica che definirei come “il ritorno alla madre” o “la ricerca della madre”.
Si parta dalla citazione da Cesare Viviani apposta in apertura del libro: “C’è un affollamento alla Casa del Padre. Tutti ritornano alla Casa del Padre. Mai qualcuno che tornasse alla Casa della Madre!” che è, già di per sé, esplicita e si legga poi il primo testo:

C’erano vaste zone di vento, poi niente (Alessandro Ceni)

Si sapeva eppure salimmo
dal freddo che la luce
abbandona alle spalle
verso asprezze di roccia.
Lasciata la via maestra, gli zaini
col ceppo di forchette dietro la recinzione.
Salivano con noi inseme daini, stelle
di punte attraverso i camagli.

C’era un ovile consacrato lì in alto
e senza più ritorno pare
nasceva proprio da quella morte
un’inedita narrazione –
Sprofondanti i fari notturni,
le case perdute che eravamo.
Messi per sempre in salvo.
Le corse gridate nei boschi.

Fummo scelti
                           da un branco.

(pag. 9)

La mia lettura vede in questi versi una funzione incipitaria che mette in atto un radicale e definitivo allontanamento dalla propria condizione (umana, esistenziale, psicologica) precedente per cominciare (o per fondare) qualcosa di nuovo; la stessa citazione da Ceni, anch’essa illuminante e determinante, ci proietta in zone di vento e poi di niente, così come gli zaini lasciati inseme con la via (si noti) maestra, e quell’andare “verso asprezze di roccia” proiettano l’immagine del poeta e dei suoi compagni per così dire denudatisi di ogni oggetto che possa aiutarli nell’ascesa. Altro particolare non casuale è l’ovile “consacrato” e l’impossibilità del ritorno: si manifesta la necessità di una morte, di un non-ritorno per poter cominciare “un’inedita narrazione” – e potrebbe trattarsi del racconto di come inizi una nuova fase nell’esistenza di un individuo o di una comunità o di come, pure, si dia avvio a una nuova opera di scrittura. Sottolineo come sia colma di movimento la composizione incipitaria, quanto significativi risultino i concetti di allontanamento e salita.
E soffermiamoci sui due versi (o sono emistichi?) finali: “Fummo scelti / (ampio rientro nell’allineamento del testo) da un branco“. Qui mi azzarderei a proporre il concetto, per questo libro, di una “poetica del carattere corsivo” e mi spiego: molti testi di Chiaro di terra si concludono con una parola o un intero verso in corsivo, come se l’autore volesse richiamare l’attenzione del lettore o volesse enfatizzare proprio quella parola, proprio quel verso; ebbene, la lettura stessa ne viene modificata, perché il corsivo costringe a cambiare il tono della voce e quindi l’incedere del ritmo, ma, soprattutto, quella parola o quel verso risultano essere un cambiamento radicale del concetto o della situazione descritta e poi: il corsivo finale sembra spalancare un vasto silenzio di riflessione (che possiamo identificare anche con il bianco del foglio, fino a che non è tempo di cambiare pagina e iniziare a leggere un altro testo), oppure (essendo la fotografia e la pittura le due altre arti fortemente presenti nella poesia di Pibiri e, come vedremo, in questo libro) tale corsivo rassomiglia ai punti focali o ai punti di svolta che talvolta catturano e colpiscono lo sguardo allorché si contempla un’immagine.
E proprio il testo successivo è tutto stampato in carattere corsivo:

Eresie dei colori

Il quaderno nero era per l’odio in carriera.
Il quaderno color terra tabacco corda legno per il ritorno a casa.
Quello verde violetto il tropismo delle piante e appunti musicali.
Il bianco per pungiglioni d’angeli, un alveare bianco
da esplodere sulle mani del carnefice.
Il rosso, aperto alle carni in tavola, e più delicate a letto.
Il quaderno dai toni blu era per il blu
senza platee, se nella penombra della stanza
smezza la tua la mia voce.

(pag. 10)

Sembra di leggere, dentro versi così eleganti, un possibile elenco dei temi del libro (i diversi “quaderni” sarebbero allora il nucleo manoscritto o comunque ideale e tematico da cui Chiaro di terra deriva) e si osservi quanto cadenzati siano i versi, quanto pudico e splendido sia l’erotismo dell’emistichio “(carni) più delicate a letto” direttamente connesso con l’atto del cibarsi (“Il rosso, aperto alle carni in tavola“), quanto irresistibilmente faccia pensare al blu di Yves Klein quel “quaderno dai toni blu per il blu” (ma non escluderei un riferimento al “fiore blu” di Novalis, al blu di Giotto, al blu di Derek Jarman del film omonimo), quanto felice sia l’espressione “il quaderno color terra tabacco corda legno per il ritorno a casa” (Chiaro di terra racconta, lo ribadisco, di un tentativo di nostos), mentre il verso finale afferma lo svolgersi di un dialogo, l’emergere, accanto all’io e al noi, del “tu”, o meglio della “tua” voce che “smezza” la mia.
Voce, parola, scrittura sono, allora, elementi fondamentali del libro; sì, certo, com’è detto a pagina 11:

La parola non sostituisce l’assassinio.
Il simbolico lo argina.
Dice Caino – non so scrivere
parlo poco
e incontrerò mio fratello
in fondo al campo e le pietre
per tradirlo.
Giungi in tempo parola!
che richiami i figli per nome…
o del come fosse
finzione il temporale e gioco la ferita.
– Un trucco di rosse bacche
mi inciderà la fronte.

Nelle prime pagine di Chiaro di terra ci troviamo in una condizione di nuovo cominciamento, per cui non sorprende l’apparizione di Caino, colui che, assassinando il fratello, attua anche lo strappo definitivo dai genitori, l’ulteriore allontanamento dall’origine (la “fonte” di cui dice Hölderlin nel suo poema famoso, Andenken/ricordo); Antonio Pibiri costruisce un testo nel quale Caino, che incarna la violenza cieca e ignorante, si prepara all’assassinio proprio perché manca la parola che dirima la questione – “giungi in tempo parola!” – scrive il poeta perché nominare (chiamare i figli, ma anche le cose e i luoghi per nome) significa sottrarsi e sottrarre gli esseri umani alla violenza cieca, nata dall’incapacità di articolare il pensiero, quindi di capire e di dialogare.
E onestamente non so se si tratti di una categoria critica accettabile e corretta (molto probabilmente no), ma, seppur non esplicitata, mi sembra riaffiorare nella scrittura di Antonio il suo essere d’origine sarda, nel senso che sia alcune rapidissime notazioni paesaggistiche sia alcune scelte tematiche riportano alla storia di un’isola, totalmente mediterranea, che continua a confrontarsi con gli archetipi; non mi sorprenderei se dietro questa scrittura ci fosse un intenso studio dei libri di Sergio Atzeni, delle opere di Costantino Nivola, di Maria Lai, di Pinuccio Sciola e lo scrivo leggendo il testo che segue:

Due epiloghi su tela, diversamente

Dal sonno geologico
da mura senza albe ci svegliamo per
comprendere che anche la montagna
con il suo paesaggio conficcato
o sepolto di vocazioni stanziali
le vicende istoriate
non rimane.

Da pendici inizia la danza
vorticosa sale a staccare la cima.

Poi eccoci – qui per terra
dopo tanto giungere a noi,
dopo gli occhi riacuti.

Il flauto in asse alla luna
nella selva del Doganiere.

*

“Chi ha occhi non aspetti occhi!”
Cercali i caduti. Scavarli nei fossi,
due con l’ombra, due lacune.

– Punti luce, i cavi scoperti, i fuochi
inerti –

Non seguire in coda le torme
a rana o striscianti sul ventre
errare le porte. Si allargano

sul dettaglio – quanti –
a vanvera a tempera
i ciechi di Bruegel.

(pagg. 12- 13)

Un poète littré ricorre con naturalezza a citazioni e rimandi e sa usarli come strumenti conoscitivi e poietici, intrinseci e non estranei al corpo della sua scrittura: accade così che la Charmeuse de serpents del Doganiere Rousseau e i sei Blinden di Brueghel s’inseriscono a rafforzare e a confermare il moto del pensiero che Pibiri esprime, vale a dire l’appartenenza alla terra e il processo culturale che ci rende in grado di riconoscere tale derivazione dalla terra e appartenenza a essa e l’importanza fondante del vedere – siamo, se mi è consentita l’espressione, nel cuore del libro, in uno dei punti che più giustificano il titolo e che danno ragione dell’importanza che Pibiri attribuisce all’immagine in quanto atto di conoscenza ed è inutile indugiare ancora: questa scrittura è antisentimentale, rifugge il soggettivismo per cercare traverso precisi atti (il riflettere, il vedere, l’andare, l’interrogare) di penetrare la realtà.

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Diventa chiara la funzione da chiave di volta del componimento seguente, in cui “poema” sta per accadimento compositivo e verbale, “farsi” della parola all’interno del reale – e ricordo che “poème” in francese indica sia la composizione in versi breve e brevissima che un testo poetico molto più lungo:

Le vicissitudini del poema, polittico

è necessario creare parole nuove, suoni, parole vivide, oscure, terribili.
Herberto Helder

Se ne parlava
con voci riavute da convalescenze
– le aule senza crocefissi –
Accennato solo
nei Taccuini del naturalista
il poema
che rifiniti banchieri
additano follia –
In realtà dai letami di Giobbe
era la nostra sola arma
non
convenzionale
innamorata.

*

Il poema entra
nella sua forma finale
nella sua Imago: –
una scrittura privata,
prega a ignoti
o contro
la certezza della pena.

*

Smetti di scrivere.
Un padre non si accorge di te.
Per questo disfi il poema?
Nel sogno il padre
era per metà Dio
e per l’altra no,
si sfrega col pugno le lenti.
Entrambi l’Icona e l’altro
hanno il volto sfigurato
dal tuo sparo.
Ma in realtà tu puoi colpirlo
solo ad altezza d’uomo.

*

Uscire piuttosto

                              dalla parola
cicatrice e fregio
alla felicità del sembiante.
Teso ai punti più bui

il volume del volo –

Così moltiplicarsi d’ali il polso
chiede alla pelle più spazio.

Se anche
una parola in meno
                                       è d’avanzo.

*

Hermann era solito lasciare un segnalibro,
un post-it sotto l’ala ripiegata degli uccelli
migranti, prima del trasvolo.
A ricordargli una scrittura fatta
unicamente di pigmenti naturali
e penne d’oca domestica, cigno, airone.
La sola ancora praticabile.
Il resto del poema una finzione.

(pagg. 16-18)

Alla lapidaria citazione da Herberto Helder segue la prima parte del polittico altrettanto tagliente e inconciliabile con la realtà mercantile in cui veniamo costretti a vivere (“il poema / che rifiniti banchieri / additano follia” – e per “realtà mercantile” intendo anche quella dei sentimenti, dei rapporti interpersonali, delle scelte più intime che un essere umano fa o cerca di fare); Pibiri crede nella scrittura poetica quale “arma non convenzionale“, lasciandoci intendere che la sua è una tensione agonica e polemica; ma non manca la consapevolezza del fatto che la scrittura inizi come un fatto “privato” e si rivolga (vada incontro o anche “contro”) a sconosciuti lettori e l’epilogo non è un idillio, bensì una “pena” (che possiamo leggere come “condanna” o “dolore”), perché la poesia, oggi, non può più essere un atto pacificato e pacifico. Infatti, anche in una situazione tipicamente psicoanalitica (il conflitto con il padre, ma Pibiri amplia lo spettro anche a livello metafisico) la scrittura del “poema” è processo doloroso e violento che deve mettere il figlio-poeta nella condizione di “uccidere” il padre per affermare la propria compiuta maturazione – ben si comprende, in tal modo, la complessità dell’atto scrittorio che evade dalla pura creatività o volontà espressiva per configurarsi come modo di rapportarsi con il mondo e di stabilirvi un proprio posto, una propria identità. La parola è contemporaneamente prigione e occasione per spiccare il volo, il vocabolo stesso “penna” reca in sé una doppia valenza: essa è strumento per scrivere e piuma d’uccello come ci ricordano gli splendidi versi “una scrittura fatta / unicamente di pigmenti naturali / e penne d’oca domestica, cigno, airone. / La sola ancora praticabile. / Il resto del poema una finzione“.

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Riflettiamo ora sui luoghi; qui a seguire un luogo di “archeologia industriale” che bene esprime la condizione dell’uomo contemporaneo e un luogo in cui gli alberi sono stretti da recenti costruzioni:

Res derelicta, la terra sacra

Il vecchio cotonificio abbandonato nel regno.
Le radici del ficus e del vino lo sollevano al sole
rompono la linea retta lì sull’attenti
per il garbo di Dio.

Un dove interrogato in sogno, souvenir
che appartiene a nessun tempo.
Pietre in equilibrio la sua certezza.
Non uno sbavo di seme umano
dentro il perimetrale.

Di quei ruderi mio sovrano,
tutto il tempo sveglio ma con occhi
meravigliosamente chiusi.

*

Un aranceto piantato nell’incolto
stretto da pianterreni a invaso.
La notte puoi vedere i suoi frutti per terra:
splendono tra erbe, nel segreto crespo
di foglie, e cerchioni arsi in ruggine
(o era la grande ruota di Duchamp?).
Non di scorze al suolo l’impressione
ma tonde lanterne colme di sé, pleiadi,
lampadine da uno scampanìo di ghiere
e per sortilegio ancora in vita nel buio.
La bio-luminescenza che radia
una natura morta, nella stanza
sempre in ombra del padre.

(pag. 22).

Se è fin troppo facile pensare alla Terra desolata di Eliot, tengo a sottolineare una certa vicinanza, appunto, con la poesia di Ceni e di Viviani, ma non escluderei né Cagnone né quei poeti tedeschi e di area anglofona (Simic, per esempio, ma in Chiaro di terra è dato trovare anche, citati a chiare lettere, i nomi di Ingeborg Bachmann, di Wystan Hugh Auden e di Wallace Stevens) che sanno vedere proprio nella quotidianità urbana anche più vieta momenti di poesia, in certi “non-luoghi” viceversa luoghi di riflessione e di riscatto dell’umano, proponendo così un modo nuovo di fare poesia lirica, intendo dire una poesia che trova, raccoglie e cura la bellezza proprio lì dove i nostri pregiudizi non ce la farebbero scorgere e che, senza cadute sentimentali, ritrova un ritmo di canto (non di cantabilità, si badi bene) che luoghi come quelli scelti da Pibiri sembrerebbero escludere; e non passi sotto silenzio il riferimento a Duchamp (uno degli artisti dissacranti per eccellenza, ma anche uno di coloro che ha saputo vedere in una ruota rovesciata un segno e un gesto modernissimo d’arte) né tanto meno la chiusa, ineccepibile nella sua carica concettuale: “La bio-luminescenza che radia / una natura morta, nella stanza / sempre in ombra del padre” – la “stanza sempre in ombra del padre” sembra essere, allora, il mondo opaco e inospite, là dove i versi precedenti tematizzano la luce diffusa proprio dai frutti o dalle loro bucce scintillanti per terra, in quel terreno incolto e maltrattato, eppure generatore di vita, di nutrimento. Il ficus e la vigna della prima parte, gli aranci della seconda sono (con splendida invenzione ricalcata su di un termine della biologia) “bio-luminescenza“, per cui la “terra sacra” del titolo è quella pur viva in mezzo all’abbandono e all’incuria; l’assenza del seme umano (maschile, del padre) sembra suggerire una situazione di sterilità, là dove la terzina in chiusa della prima parte mi pare alluda alla creazione artistica, “sovrana” e “sveglia”, ma con “occhi / meravigliosamente chiusi” perché intenta, immagino e interpreto, ad ascoltare, a odorare, dal momento che il vedere va anche governato, talvolta dev’essere “accecato” o “sospeso” affinché tutti i sensi del corpo possano scandagliare il reale.
La suggestione che Pibiri riceve dalla fotografia e dalle arti figurative dà vita a testi che costituiscono (anche, ma non solo) una riflessione sul fare arte e quindi sullo scrivere in versi:

I nomi di Hokusai

Resta qui, o riavvia
per la discesa folle e sassosa
in strenua alleanza con le rapide, il luccio
all’inseguimento, da cerchi le carpe di Hokusai,
la zucca vuota sulla corrente.
Con i boschi mutili, fluitati a valle.

Le acque dolci scontrate da corpo
a corpo, poi a capo – vuoti, ricolmi –
per sfollare ambasciate.
Non è necessario sapere dell’amore,
dei suoi tanti nomi.

(pag. 24)

L’arte sottile dell’ékphrasis (qui appena accennata, tra l’altro) assume così il duplice compito di rendere omaggio a opere o ad artisti amati, e di mantenere la necessaria distanza dalla materia trattata per evitare il soggettivismo e il sentimentalismo; Hokusai, noto anche come “il vecchio pazzo per l’arte”, è in questa pagina di Pibiri l’incarnazione dell’amore (per l’arte, appunto, ma anche per la vita e per la terra) che il poeta sardo ha remore se non pudore a pronunciare, ma che è presente e potente con i “suoi tanti nomi” – Chiaro di terra è, quindi, anche un canzoniere d’amore (l’arma non convenzionale della parola è innamorata, aveva scritto poche pagine prima il poeta) , ancor più a ragione quanto più dell’amore si tace, ma lo si lascia trasparire in un itinerario attraverso gli abissi dell’inconscio, i paesaggi terrestri, le invenzioni dell’arte e a tal proposito leggiamo nella pagina successiva il testo che segue:

Fermi alla loro prima età.
Sassi di fiume. Arrotondàti di tenerezza.
Cesta d’uova nella corrente.
E sarebbe doloroso l’errore
agli angoli della tua percezione.
Pensa pure alla casa di bambole in turchesi
o sotto il vetro un’invenzione di Cornell
variamente assortita.

Vi si sporge sopra una strana umanità.
Nella calca inizia a sognare, perdere
senso, peso. Naso sull’acqua.
Frana – non frana.

Le invenzioni oniriche sono terreno fertile per la metafora e la similitudine (e i sassi cui s’associa la cesta d’uova conducono la memoria verso la pagina d’apertura di Cent’anni di solitudine dove i sassi somigliano alle “enormi uova preistoriche” attorno a Macondo), le “scatole” di Cornell vengono a essere un ottimo esempio di come l’arte sia capace di raccogliere e mettere in relazione entro un unico spazio (la scatola, il testo, la visione) realtà tra di loro, in apparenza, inconciliabili o lontanissime (e, di nuovo, suggerisco il nome di Simic che su Cornell ha scritto un libro di straordinaria suggestione).

La serie mancante

Un centinaio di lacrime per la sete
un piccolo mondo acquatico
diminuito dall’inchiostro.

Il filo del racconto chiude per sé
ogni vita in consegna.

Ma più avanti entrando in mare
– ora puoi anche non scrivere –
il pontile slaccia il suo impalco
rifonda lo spazio tra le dita
che qui ritorna.

(pag. 27)

È difficile e coraggioso un testo con notturno lunare, ma leggiamo come Antonio Pibiri intepreta il tema:

Per aria la luna / visione

che sola placa qualsiasi Todestrieb.

Il coro degli annegati fermi
a una rada, nel suo rapimento.
Le bestie al recinto.

Una raffica di tordi tra
crepuscolo e ciminiere
nell’aprirsi fa il cielo a pezzi
e ogni volta ricompone.

Non lo attesta Pitagora o la Scolastica.
E non serve a inverarlo un distico.

(pag. 28)

Il corsivo presente nel titolo (che è anche il primo verso della composizione) fa da fulcro visivo e concettuale (e non dimentichiamo il flauto in asse con la luna di cui abbiamo precedentemente letto) ed è capace di placare qualsiasi pulsione di morte (terra e luna sono, nella lingua italiana, di genere femminile e connesse con il femminile e con la madre), ma la presenza del “coro degli annegati” e poi delle “ciminiere” colloca il testo nella nostra piena contemporaneità, mentre il distico finale esprime, appunto, la distanza tra la poesia e la realtà, per cui quella di Antonio Pibiri è anche una scrittura che si pone il problema della dicibilità e della rappresentabilità del reale e senza ingenue attese, senza attardata fede nella “verità” della parola poetica – ma, mi sembra, con tutta la modestia di chi, pur praticando con consapevolezza piena e piena passione la scrittura poetica, riconosce e accetta la supremazia del reale, ma non, ho l’impressione, dichiarandosene sconfitto e arrendendovisi (ché non si tratta, qui, di un conflitto o di un antagonismo con il reale), bensì con atteggiamento dialogante e curioso; l’arte, per esempio la fotografia di Ansel Adams, l’arte sa però avere un’oscura concretezza, come quando proprio Adams fotografa i pioppi facendo dell’immagine qualcosa di vero in sé (cioè in quanto realizzazione d’arte), senza dimenticare la realtà della rosa sottratta a ogni intervento umano, esistente in sé e per sé, fino alla bella conclusione con la sedia avvicinata “per restare“, dal momento che non va dimenticato che Chiaro di terra è libro in continuo movimento e sostare o restare significa anche fermarsi a contemplare, a guardare:

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Nella veglia così incerta, credere nell’oscura
concretezza dei pioppeti in oro, a fondovalle,
gli aspens di Adams.
La rosa macchiata del suo sangue
puro, senza l’appalto dei giardinieri,
la rosa munifica nel sottrarci.

E la sedia che mi avvicini
per restare.

(pag. 29)

 

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E poche pagine più in là ancora un fotografo, un testo breve e perfetto che dice senza retoriche la situazione della gente di colore a Harlem:

Omaggio a Leonard Freed

Una pompa d’acqua fuori controllo per la pressione
picchia convulsamente sull’asfalto. La coda del drago.
Ma il sole esaspera, e i bambini di Harlem accorrono
seminudi, saltano divertiti tra le sferze gelate,
in festa per il refrigerio.
Gli adulti intorno li guardano
con in mano le pietre
del disdegno.

(pag. 31)

Si tratta di una poesia alla quale bastano pochi accenni (il nome del fotografo che ha documentato le lotte per i diritti civili negli Stati Uniti, il quartiere di Harlem, il giuoco dei bimbi con la pompa d’acqua, gli adulti in lotta per i propri diritti – Pibiri ricorre all’efficace metafora delle “pietre / del disdegno“) per prendere vita e imporsi anche con il suo slancio etico.

Si giunge poi a VISIONI DELL’ULTIMO, introdotte dalle parole di Oskar Kokoschka: “(…) io li dipinsi nella loro ansietà e nel loro panico“.
Se vogliamo rifarci alla metafora d’apertura dei quaderni, ebbene direi che Chiaro di terra è anche un quaderno nel quale sono schizzati essenziali, perfetti paesaggi, per esempio:

Si stacca in volo il gheppio
improvviso da cespugli

il lentischio sul mare.

Lo videro gli amanti?
Nessuno lo vide
metà
e metà
con Dio?

(pag. 35)

là dove, è bene sottolinearlo, questi paesaggi (o “visioni”) non rimangono mai fini a sé stessi, ma posseggono sempre un nesso con una fase del pensiero poetante o una situazione psicologica, come nel caso presente in cui (similmente ad altri luoghi del libro) c’è un accenno fuggevole a Dio, alla sua presenza (o, anche, assenza…)
E a conferma:

Principio
della gioia
i gabbiani i primi
colpiti al volo dalla luce.

Giù in basso nel regno
lacrime di freddo
roteano cose mai viste.

(pag. 37)

È un testo speculare, costituito da due parti in qualche modo contrapposte e notiamo che il sintagma “nel regno” richiama il primo verso (“Il vecchio cotonificio abbandonato nel regno“) di Res derelicta, la terra sacra, metafora forse di un mondo conflittuale e abitato dal dolore, dal freddo, dalla decadenza (il “regno” del padre o Padre di biblica memoria?)
A seguire leggasi uno splendido testo di alto valore ritmico:

Hai suonato i flauti
notte di vento
con la mia casa.

Imbracci premendo la lingua
contro il bordo dei vani, gli abbaini,
le microfessure tra porte e finestre,
le trombe tibetane sotto il pavimento.
L’elenco è incompleto.

Dai luce così a un quadrante irrisolto,
ascolto notturno – di frontiera alla
serie cronica di sempre le
stesse parole.

Quel vento lo stesso dio
dato per apparso
una volta
per tutti.

(pag. 39)

Il vento, presenza ineludibile in tutta la Sardegna, riporta sulla pagina l’interrogarsi da parte di Antonio Pibiri proprio intorno a dio (vento e dio maschili dal punto di vista grammaticale e anche rappresentativi del maschile nella natura e nella storia). L’ascolto notturno e sulla linea di frontiera dice bene dell’attitudine del poeta; la vasta gamma delle metafore riconducibili al suonare, ma la presenza fitta della metafora in tutto il lavoro ricordano una composizione e più in generale la poesia di Tomas Tranströmer (per esempio, del poeta svedese, penso qui a Una notte d’inverno: “La tempesta poggia la sua bocca alla casa / e soffia per emettere un suono. / Dormo inquieto, mi giro, leggo / il testo della tempesta assopita“), anch’essa così ricca d’immagini del mare, della natura, del rapporto uomo-enigma, mentre la mente del lettore è chiamata a intuire e a saldare i nessi tra immagine e concetto in un’attitudine collaborativa e di co-scrittura che dimostra quanto il poeta rispetti il proprio lettore e ne esiga una presenza attiva e vigile.
Un raffinato quasi anagramma dà il titolo a un’ennesima, notevole composizione, anch’essa disposta, come altre nel libro, a mo’ di dittico; il poeta sardo possiede finezza ed eleganza non comuni e anche qui lo dimostra:

Talismani, tonalismi

I

Nell’annientamento meriggio la fornace
indugia sui binari.
Non siamo pani d’argilla, non qui.
La parola attenuata. Non savi.

Serve allora lo stesso abbandono,
lo stesso tornare.

Al finestrino le case in fila, di colori marini,
le case acquerello. Si potrebbe scendere,
violare domicili?
Una ragazza chiara spinge all’ingresso la bicicletta.
La sua schiena nuda e ferita dalla campana del sole
come i giardini osceni dopo la pioggia
mi porta alla testa di un sogno.

II

Aver visto
per felice caso
– inizio del mondo –
le braccia nude di giovani donne
aprire in un gesto le persiane
sul chiostro in ombra
dalle turbe del violetto
un frutto pieno d’acqua.
Per questo si può ringraziare
e per poco altro.
Stanotte in sogno ho mangiato
l’uva più dolce della mia vita.

(pagg. 44 e 45)

Mi preme osservare che “ringraziare” (gratias agere) è atto religioso, indipendentemente dal fatto che si sia credenti o meno e che nella parola “religio” si riconosce il legame tra l’umano e ciò che è molto più grande di noi (che lo si chiami Dio, natura, universo o che altro…) E ancora: il femminile, una delle poche cose per le quali si può ringraziare, appare in questi testi portatore appunto di grazia, è esso stesso grazia in atto (e s’intenda “grazia” come bellezza e come realizzazione di bene, di felicità) e infine: aver conosciuto per la prima volta il femminile, la grazia della femminilità, ha significato per il poeta l’inizio del mondo.
Fare esperienza del mondo significa anche esperire la sofferenza, a volte psichica, atroce, esemplata qui nella figura di Amelia Rosselli, evidentemente persona e poeta cruciali per Antonio Pibiri che le tributa un omaggio non formale, né d’occasione, ma di dolorosa sincerità e di acuminatissima comprensione sia psicologica che intellettuale:

Omaggio ad Amelia Rosselli

La curvatura del nemico

Amelia Melina
stretta ai polsi di una foglia
all’albero atroce della follia
da marinai senza divisa.

Nelle corsie di lune-braille
coi damaschi sul pugnale
ti screpoli le dita tra le gambe.

E se poi tutto è velato di mondo
il tuo profilo spezzato a mansarda
fin dove affuocavi la curvatura
dall’oculare – azzurro – tondo.

(pag. 47)

Il riferimento ad Amelia Rosselli sottintende l’idea di un linguaggio anticonvenzionale, l’uso di una parola irrequieta e per nulla disposta ad adeguarsi ai luoghi comuni. E il dono della scrittura di Pibiri risiede anche nella sua capacità di strutturarsi in testi nei quali la lingua italiana riconquista la propria bellezza e nobiltà, evitando accuratamente la banalità della mimesi del parlato, articolandosi in toni spesso sussurrati, cadenzati da una scelta lessicale e ritmica di non comune finezza e di estrema attenzione ai valori fonici e concettuali:

(…)

Guarda fuori e osserva ancora il merlo indiano
come semplice riassetta il piumaggio
e curva ogni nota alla dolcezza.
Un’idea di politeismo.
Che il cielo senza saperlo
ha cambiato di nuovo la sua luce.

(pag. 52)

L’ultima sezione del libro s’intitola LE MANI PER TERRA (le mani che lavorano, che scrivono, che toccano, che accarezzano il corpo della terra-madre) e s’apre con le parole di Ida Travi “Si comincia a scrivere da figli, ascoltando la voce del padre, inseguendo quella della madre“.

Scriveva Borges che l’oblio è una forma del perdono.
Così dimenticai Dio per non esistere,
o preservarlo forse dalla banalità delle parole.
Ma avrei anche potuto sottrarre le cose ai nomi,
l’acqua ai laghi artifciali, e tutto ciò
che di selvatico in sporgenze
frangia e si specchia attorno.

(pag. 57)

In termini psicoanalitici potremmo rileggere il testo discettando sul senso di colpa e sul perdono, sulla figura di Dio in quanto padre (elemento maschile, dunque) e sulla necessità di dover “uccidere il padre” per smettere di esistere come figli, diventando adulti, sull’atto del nominare le cose che, in termini biblici, è prerogativa attribuita ad Adamo che è creatura (non creatore) – nell’intiero libro sono riconoscibili spunti in tal senso, ma, appunto, un’indagine di tipo psicoanalitico accostata a una di tipo culturale e a una terza di tipo puramente stilistico condurrà sempre alla conclusione che siamo davanti a un’opera molto complessa, valida per qualità di scrittura, estremamente problematica (il che, mi capita di ripeterlo spesso, è per me indice di qualità), non consolatoria, ma provocatoria perché costringe il lettore a porsi molte domande, a tornare e ritornare nella propria lettura, a intestardirsi a interpretare anche i passaggi più ardui non perché la difficoltà sia una “posa”, ma in quanto insita nel rapporto stesso tra scrittura e reale, tra scrittura e psiche.
Invito ora a leggere e ad apprezzare l’essenzialità dello stile nella composizione seguente che, movendo da un distico di Sinisgalli, sembra mettere in pratica certe scelte stilistiche di fotografi dell’essenziale e dell’inapparente, come Iodice e Ghirri (non citati da Pibiri, ma che mi vengono in mente leggendo) e che sanno rivelare la bellezza insita in istanti o in luoghi, appunto, inapparenti se non fosse per il gesto artistico che li coglie e rivela:

Sul cielo non oso
più leggere o scrivere
Leonardo Sinisgalli

Una screziatura color macero
di foglia sul muro di cucina.
Un rorschach rupestre.

L’angelo dell’umidificazione
ha imposto le mani:
sogno – effrazione –

In altre parole: il cielo è qui,
alpinista che dorme in parete,
mi goccia via con un dito.

(pag. 64)

Ma c’è una presenza che ispira tutto il libro, c’è un nome mai chiaramente detto, eppure pregnante per temi e per modo di concepire la scrittura poetica, quella di Paul Celan:

Cerchio e spirale

Non torna il conto dei colori
e uno sbalzo sforma i viottoli,
i selciati di domenica –

Si fa cupo il sangue, e i binari di neve
attraversano le case vuote di Cernowitz.
Gli antichi romani erano
professionisti della crocifissione –

Ma qualcuno riapra i rubìni alle flebo,
i verdi alle piantagioni, più vento ai mulini,
braccia d’acqua disegnate
dai maestri della trasparenza pittorica –

E in avanti fai in modo
che la parola non sia foglia
a coprire il tuo sesso.

(pag. 67)

È il nome della città natale di Celan a suggerire il nome del poeta, o meglio, a rivelarne la presenza e qui, in questo testo, Pibiri fa i conti con la Shoah e, direi, con tutti gli stermini della storia (è di matrice maschile la violenza come la guerra), ma egli aveva cominciato subito, con il testo ascensionale d’apertura, a rappresentare questa volontà di rifondare il proprio rapporto con il mondo e la storia. Paul Celan è poeta che in maniera radicale ha vissuto (e pagato con la sua stessa persona) l’indicibilità dello sterminio. Nessun poeta può sottrarsi alla consapevolezza di scrivere dopo Celan, traendone così le necessarie conseguenze. Non si dimentichi, tra l’altro, che proprio la figura femminile e materna è decisiva presenza nella poesia celaniana (altro tratto che Pibiri ha in comune con Celan) e che lo stesso uso che Celan fa delle immagini supera qualunque matrice surrealista e in Pibiri riconosciamo, per esempio, la presenza di due organi del corpo umano (l’occhio e lo stomaco) che fa pensare anche a un tipico stilema celaniano, quello in base al quale il poeta di Czernowitz isola un organo (la faringe, l’orecchio, il polmone) trasmettendo una sensazione di smembramento del corpo umano, ma servendosi pure di una visionarietà capace di sorpassare l’opacità della pelle e di mostrare quegli organi in attività vitale, come fosse dotato ognuno di una propria personalità e di una storia.

atemkristall
(Un’incisione di Gisèle Celan Lestrange per il ciclo “Cristallo di respiro” dedicato dal poeta alla propria madre).

E la riflessione sulla violenza, sulla legge, sulla guerra e sulla pietà per i morti si continua nel testo seguente, attraverso Antigone, contemporaneamente, vien fatto di pensare, sorella e madre fedele alle leggi della pietà nei confronti dei morti:

Cos’è Antigone, cosa non lo è
se rimangono nelle proprie case.
Docili alla ragion di stare
al gregoriano coprifuoco sulle nocche.
Fermi a tetri regesti,
ai serpenti d’acqua se bolle.
Le ore che svegliano i mattini –
S’intavola un ponticello, un raccordo
tra frane di cenere e bicchiere,
tra compassi, le doppie
punte dei suoi capelli.

(pag. 69)

Occorre stare ad ascoltare con attenzione, Chiaro di terra pretende cura di lettura perché siamo di fronte a una poesia mai urlata e mai affidata a facili effetti, ma che va colta in testi rasciugati e densi. È, ci avvisa il poeta, cercare l’equidistanza tra la vita e la morte, tra le molte parti che costituiscono il mondo:

Equidistanze

Tutta l’erba povera un solo fiore.

La pena che temo, se i morti
– i soli a saper stare al mondo –
non sentono a ridosso la mareggiata
che scava le sue chiese di preghiera
sul fondo, e rende mirabile la rovina:
saturno e marte, rosavento,
barometri.

Forse se ci facciamo più sottili
noi altri, più discreti,
sensali tra le parti,

un unico fiore – forse.

(pag. 72)

arbus

Infatti ancora il vedere (il saper vedere) determina la condotta esistenziale, confermando il fatto che in questo libro la poesia non è fine a sé stessa, non s’esaurisce dentro una pur legittima ricerca estetica, ma che la questione in giuoco è di carattere etico e conoscitivo:

Tra i ciechi di chiara fama
– le violazioni fotografiche della Arbus
per stradine private e parchi pubblici –
scopre l’occhio e ancora non vede.
Quando lo sentiremo ridere, allora sì,
quando dirà ecco, il segnale a distesa.
Allora sì: tutti i vicini di casa
e i re nudi fluiscono in strada
da pianti inclinati, gradino
dopo gradino. Sono fanciulli
rapiti in cielo, oh Ganimede!

(pag. 74)

L’occhio di Diane Arbus con le sue “violazioni” rappresenta qui l’occhio della poesia e dell’arte che, se ha anche un fine conoscitivo, non può non spingersi nell’intimità delle cose e delle persone, “violarle” per rivelarle, mentre i “pianti inclinati” viene a essere un gioco linguistico che vuole provocare nella mente del lettore quel cortocircuito tra espressioni usuali (qui i piani inclinati) e la capacità inventiva della scrittura, senza dimenticare che “Anche la scrittura, (è) arresa alla sua impermanenza / La penna un cannone spara neve” (pag. 75), versi che fanno venire in mente un noto luogo di René Char, l’inizio del poema La bibliothèque est en feu:Par la bouche de ce canon il neige“.

le madri sono troppo lontane”  Thierry Metz

(…)

Del viso di lei, con la crudeltà
del tempo e la dolcezza
sopra il suo enigma taciuto
non saprei più dire adesso
se fermo nel dolore, o nel segreto
di aver generato Dio.

(pag. 76)

In effetti la scrittura lotta continuamente contro il disfarsi della memoria, contro l’impermanenza del conoscere, è consapevole della propria peculiare condizione tra essere altro rispetto al mondo e, contemporaneamente, del proprio stare nel mondo (si cerchi d’interpretare il verso e la sua funzione “le chine di Michaux” nel testo che segue):

Nessuna memoria del vero.
Che cosa sono le mani delle tue mani?
Il sole ha coperto tutto
con il suo volume, falansterio.

Ma un taglio sul ventre
e l’evidenza riaffiora:
si mostra tra le mele a bagno, lenzuola
che gonfiano le case,

tra i filoni di porfido addolcito sul mare,
l’edera schierata dinanzi alla morte,
le chine di Michaux…

e dice:

– non confondermi però con i tuoi secoli di scrittura!

(pag. 77)

La mia interpretazione (non c’è bisogno di dirlo, fallace e magari inesatta) è, appunto, che la riflessione di Antonio Pibiri individua l’esistenza “cosale” (intendo dire stabilita a prescindere dall’essere umano e impostagli) delle rocce di porfido e della morte cui vengono accostate “le chine di Michaux“, un atto artistico, cioè, che vive nello stesso tempo della sua necessità a venire a esistere e della sua estrema fragilità rispetto alle “cose” quali sono una scogliera e la morte stessa, la quale è tema di riflessione anche come segue:

Il corpo senza argani

Durerà un solo giorno il giovane furioso e bello.
Ma anche la vecchiaia, di maleodore, l’istessa morte .
“Chi dirige il coro delle voci bianche?”
Lasciami essere il terzo giorno,
il movimento di fiume che solleva la gonna
per scendere i gradini, il nespolo
quando tutta la notte si lascia cadere
sulla tettoia a ondicelle
svegliando di soprassalto
la serrata dei palazzi.
Una diocesi illuminata e acefala
o il pretino di campagna raggiungere
di trafelo la prima luce sui frumenti
ogni volta come sommessa parusìa.
E in questo preciso mondo
un cielo a caso sulla scollatura.

(pag. 80)

Abbiamo appena letto, tramata a tratti di una sottile ironia d’ottima scuola surrealista, direi, che non toglie nulla alla serietà della questione, un inno di lode nei confronti dell’esistere e sempre in quel modo privo di enfasi, ma capace di sprigionarsi per propria forza di stile dal verso, dall’immagine, dalla costruzione del testo.
E veniamo ora a

Sale d’attesa

Prima di volgermi contro
vedo l’occhio di un giovane
sporgere e chiaro, dietro il dosso

di corpi, paiono uomini.

In disparte s’apre in azzurri

(i due grandi laghi sul viso di Hölderlin)
e brilla dietro la Contingenza,
i penitenti all’Ufficio del pane.

Un chiaro di terra che
improvviso ruota i suoi oceani
a un esilio lontano,
a un addio.

(pag. 82)

L’occhio, ancora, lo sguardo, il vedere: se c’è un’ascendenza surrealista (si pensi a Buñuel, ma non solo), essa viene superata e unificata nel nome, qui, di Hölderlin (ma, ribadisco, l’occhio è elemento cruciale anche nella poesia di Celan) e sigillata con quattro versi di magistrale bellezza che amplificano e proiettano ulteriormente in avanti l’attitudine al movimento del libro. La scrittura sembra essere, per Antonio Pibiri, uno stazionamento in sale d’attesa (o in recinti, su alture, in riva al mare) da cui contemplare il reale – ma, ovviamente, si sta in una sala d’attesa perché si aspetta un treno, o un bus, o un aereo, e la sala d’attesa stessa può essere la stazione intermedia di un viaggio in più tappe.
La casa è altra presenza costante nella scrittura pibiriana, già lo sappiamo, e si noti anche nel caso che segue l’originalità della rappresentazione e non si incappi nell’errore di considerare le immagini superficialmente “surrealiste” – non credo che Pibiri coltivi la scrittura automatica o ami abbandonarsi agli affioramenti incontrollati dell’inconscio, ma, al contrario, egli costruisce testi rigorosi nei quali immagini e scelte metaforiche hanno il compito di veicolare l’enigmaticità e talvolta l’orrore insiti nel reale, oltre al fatto che il poeta sardo ben conosce le teorie psicoanalitiche e il suo discendere nelle regioni oniriche e dell’irrazionale è sondare tali regioni con lo strumento della scrittura:

Ho dormito con la porta di casa aperta, il lume spento.
Nessuno è entrato. Nessuno uscito.
Col passare degli anni non c’è più bisogno di medici.
La notte i pesci-palla inverosimilmente blu
a fior d’acqua si gonfiano e smuovono il relitto
in secca, i piedi del letto.
Rimane poi il dubbio che servano protesi agli angeli
per insufficiente apertura alare. E quel coro terribile
dalla strada, quando canta solo le consonanti.

(pag. 83)

La chiusa di Chiaro di terra conferma le caratteristiche salienti della scrittura di Pibiri (asciuttezza del dettato, pochi oggetti, concretissimi, a stabilirsi come ponti tra il reale e la mente osservante e scrivente, rapidi riferimenti culturali a rinforzare ulteriormente l’esperito o il pensato, apertura verso nuove dimensioni del sentire e del pensare):

Epilogo

Fuori di qui, un secchio vuoto rintocca
dal cantiere dove saliranno case.

Dalle sue mani giunte e schiuse
piano prende volto il tuo volto
un Brancusi levigato a oro.

E non saprai più se donna o madre
se parola.

(pag. 85)

Credo non ci sia bisogno di enfatizzare più di tanto il fondamentale distico finale che, lo ricordo, chiude l’intiero libro, inverando l’esergo di partenza; “donna, madre, parola” sono i termini-concetti verso cui tendeva l’intero lavoro, un lungo, irto cammino verso la madre, da non intendersi però secondo stilemi banalmente psicoanalitici, ma in riferimento a una visione di gran lunga più complessa, perché anche antropologica, storica, culturale e linguistica: è un cammino di costruzione (non sfugga il suono del secchio dal cantiere, quindi da un luogo di costruzione e l’associazione più immediata mi sembra proprio quella della voce materna, che è suono e parola, che insegna la parola medesima – dunque avvia il figlio alla poesia, alla scrittura, all’ascolto-dialogo). Men che meno casuale è il riferimento a Brancusi, l’artista che ha impegnato tutta la propria ricerca artistica in direzione del femminile e della forma intesa come essenza costitutiva del reale – in tal senso mi sembra di scorgere una notevole vicinanza alla poetica di Antonio Pibiri, il quale cerca, componendo i suoi testi “a togliere”, di cogliere l’essenzialità nel reale; se la res è spesso occultata e opaca, resistente al tentativo di coglierne l’essenza, la scrittura del poeta sardo lavora come lo scalpello dell’artista romeno fa con la pietra, con il legno, con il metallo, elementi tutti che a loro volta invitano all’essenzialità, alla ricerca dell’origine, al tentativo di ritorno all’origine per capire il proprio essere-qui-e-adesso.

Un caloroso ringraziamento vada a Giampaolo De Pietro che mi ha fatto conoscere questo libro e messo in contatto personale con Antonio Pibiri. Ne valeva la pena.

Le foto che illustrano l’articolo sono rispettivamente di Saul Leiter (copertina di quest’articolo, ma anche autore della foto di copertina del libro di Antonio Pibiri), Ansel Adams, Leonard Freed, Diane Arbus e restano di proprietà dei loro autori.

 

Un pensiero su “I luoghi e le scritture (rubrica di Antonio Devicienti): su “Chiaro di terra” di Antonio Pibiri

  1. Votre article, cher Antonio, est tout simplement passionnant ; j’admire la profondeur de ses analyses et l’amplitude de ses horizons.
    Et maintenant je n’ai plus qu’une hâte : découvrir la poésie d’Antonio Pibiri.
    Merci à vous,

    Yves Bergeret