“Cimiteri ridestati dalla scrittura” – I “corti” in Superalbo di Sandro Veronesi

di Diego Conticello

Arduo, se non impossibile, descrivere un ‘descrittivista’. Molto più compromettente leggerlo. Questo l’immediato pensiero sulla scrittura “visiva” in Superalbo di Sandro Veronesi, libro che ha già almeno un lustro alle spalle ma collezione invidiabile di “cortometraggi ad inchiostro”, dall’incisiva – mai banale – pellicola scrittoria.
Il quotidiano di una società malinconica, arrancante, talvolta inutile è scrutato con gli occhi attenti di un angolo opposto, quel reverse angle di ‘socceriano’ stampo, che fa godere le magie da prospettive non viste. Tant’è che i reportage vitali di Veronesi si fanno sentinelle di tutto ciò che è stato “sfiorato” ma non toccato; di magagne e misteri tanto inaspettati in quanto altra faccia di medaglie invece lampantissime. E l’autore pratese ne parla con una vena da immarcescibile Peter “Panni”, come se possedesse solo quella forma mentis da “puro” iniziato ludico, ma non per questo meno disincantato. Allora assumono un senso morale anche racconti dall’apparente involucro d’insignificanza: si liricizzano quelle famigliole che si fanno dieci ore di pullman nell’intento di acquistare panoplie; il contadinello rivoluzionario che compone ottave dal sentore ariostesco; strugge i cuori il libello che subisce “reincartazione”, il cane che – altrimenti – rischia una “termodistruzione”, invece tanto agognata da avi dannatamente istrionici, ottocenteschi. Ma il calamaio si fa sensuale, intimo nei rapporti con i “miti”, soprattutto scrittorî: dalla ricerca ossessiva delle tombe di Moravia e Lowry, alle note drogate o imbevute d’alcool di Dean e Ian McEvan. La satira e la rabbia divengono imponenti, insofferenti nei “corti” smascheranti quei ‘medio-ecclesiasti’ ostruitori di libertà, dediti alle totali concessioni di perdono (pagine di ribellione acuta vicine a chi vi relaziona!).
Ricordo invece al già “Premio Strega” qualche anno fa, che di cimiteri canini non ne esistono solo ad Acilia: uno si trova giusto nel comune “paladino” di Tano Grasso (cito la prefazione del Suo Occhio per occhio), nella villa del sublime poeta Lucio Piccolo, epigono barocco e voce solitaria – per me sovrastante! – del novecento italiano. I Piccolo nel loro ancestrale anfiteatro edenico hanno creato un angolo, un unicum extravagante, fatto di sottili lapidi recanti nomi ‘fedeli’ fra i più disparati. Alì, Mohamed, Fatìh creduti un tempo antichi guerrieri bèrberi, reincarnatisi, per metempsicosi, nelle anime di irsuti bastardini; o ancora Crab, immenso “cane nero” alla Mc Evan, gioia e accompagnatore per tutta Europa del principe di Lampedusa, loro cugino (il quale lo aveva così chiamato per omaggiare l’opera teatrale dell’amato Shakespeare: “I due gentiluomini di Verona”), ora reso immortale con il nome di Bendicò ne “Il Gattopardo”. Quest’ultimo appellativo è strale mortifero per sfottere celatamente il melodramma, che Tomasi detestava, scempiando l’espressione: “Ben di cuor”, tratta da un arcinoto recitativo verdiano.
Scusate se mi sono lasciato fuorviare, ma le storie chiamano altre storie; dell’assioma è consapevole Veronesi che, tra una virgola e l’altra, incita alla lettura: esercizio purtroppo oggi manifestamente in disuso!

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