Come tentai di raccontare i Canti del caos durante una lezione di scrittura creativa − di Laura Liberale

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. Laura Liberale racconta i “Canti del caos” di Antonio Moresco (pubblicato il 31 ottobre 2015).


Lettore irredento, se tu sei uno di quelli che aspettano ancora il capolavoro, ho qui per te uno scrittore altrettanto idiota che si è messo in testa di scrivere un capolavoro.

È un editore a parlare a me, lettore, nella prefazione.

Tempo fa, ho avuto a che fare con un tizio, uno scrittore che lavorava tutto solo da molti anni (…) ma non potevo pubblicare il suo libro, gliel’ho spiegato in tutti i possibili modi che nessuno vuole più libri vasti, assoluti, lunghi viaggi, non fanno mercato, storcono tutti quanti la bocca, solo ricalco letterario, strafalcioni, aforismi, da leggere con il telecomando in una mano, la cuffia del walkman sulle orecchie.

L’editore si rivolge poi a questo suo scrittore:

Pensa come sarebbe facile adesso per te imparare finalmente il mestiere, ora che hai navigato su vaste strutture e onde lunghe, progettare cosette di cento-duecento cartelle, farti prima un bello schemino, una scaletta, sempre più facile di volta in volta, sempre più riuscito, sempre più tornito, tanti bei compitini tutti in fila fino al giorno della tua morte, uno ogni anno, due anni, sfruttare gli ultimi istanti che restano a te, alla letteratura, per ricavarne almeno qualcosa, mentre vaste e multimediali imprese economico-culturali trascinano ancora una caricatura di questo genere sempre più marginale, gli ultimi riti, gli ultimi dividendi, in progetti riciclati e ormai oltrepassati.

Lo incita:

Diamo voce a tutto ciò che finora non ha mai avuto voce. Ficchiamoci dentro l’illusione del movimento e quella dell’immobilità, scolliamo i piani, i tempi, gli spazi, facciamoli ruotare e incendiare, mettiamo in movimento le ruote che sono ferme da quasi un millennio, da quasi mezzo millennio, perlomeno…

Lo scrittore scrive allora un primo pezzo, intitolato “Il risveglio”: un raccontino di quattro pagine che sembrerebbe quasi di genere horror: il risveglio, appunto, in una tomba. E dice:

Da molti anni mi sto preparando a un’opera nuova, la lascio crescere a poco a poco, da sola, di giorno e di notte. Quanti sogni, quanti pensieri, il tutto ormai fuori tempo, da un’altra parte, in un altro spazio, in un’altra dimensione, per nessuno, per niente, e finalmente sono sul punto di cominciare.

Bene. C’è un editore, che parla in prima persona, rivolgendosi direttamente a me, definendomi “lettore irredento”, e uno scrittore, che è l’incarnazione narrativa dell’autore reale.
L’autore fittizio, quello dentro l’oggetto-libro, diciamo l’autore di secondo livello, l’autore-personaggio, comincia a scrivere, andando incontro alle richieste del personaggio-editore. E comincia spaventandoci un po’, inquietandoci con una storiella di, pare, seppellimento prematuro.
Siamo partiti, pensa il lettore. Ora la storia si snoderà, la diegèsi, la narrazione prenderà una forma. Si parte da qui. Un seppellimento prematuro.
No.
La narrazione ritorna al livello precedente, quello del dialogo fra i due, autore ed editore.
L’editore dice:

Ma non si può più fare questa roba! Oggi vanno di moda il comico, il demenziale, le supposte per bocca, le gocce anali, un po’ surreali! Il lettore a questo punto si è già addormentato da un pezzo, ha già cambiato canale, è già corso in un’agenzia turistica a prenotare un’escursione tra i cercopitechi bianchi della Groenlandia, un viaggio di nozze in Centroamerica a dorso di armadillo. E poi questa storia del sepolto vivo… Ma non ne aveva già parlato quell’americano ubriaco? E poi non c’è dialogo! Se non c’è dialogo non ti legge nessuno!

L’autore risponde:

Ma come fa a esserci dialogo in una situazione così?

L’editore dice:

Non importa. Devi trovare tu il modo di mettercelo. Sta tutta lì la bravura dello scrittore!

Ah, bene! Pensa allora il lettore, l’espediente del romanzo che va facendosi! Ecco perché l’autore dice: Da molti anni mi sto preparando a un’opera nuova, la lascio crescere a poco a poco, da sola, di giorno e di notte. Finalmente sono sul punto di cominciare.
È questo quindi. Probabilmente una serie di racconti, di stralci narrativi, contenuti in quella cornice che è il dialogo e l’interazione fra i due personaggi.
Niente di che, niente di nuovo. Simpatico però! C’è ironia.
L’autore continuerà a scrivere i suoi pezzetti, in prima persona, probabilmente, e il teatrino fra i due continuerà.
Però, però… arduo farlo durare per 1070 pagine, no?
Dai, non diciamo fesserie. I giochi sono aperti. Continuiamo la lettura…
Come pensavo! Secondo raccontino, prosecuzione del primo: “Le voci”. Il seppellito sente delle voci, in superficie, parlano sopra, accanto alla sua tomba.
Però… A partire dalle primissime pagine, c’è già tutta una polemica, degli spunti, un metalinguaggio.

Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto, tutto è già stato fatto. Non si dà più possibilità d’invenzione, se mai c’è stata. Orami si può solo sorvegliare il progetto, assemblare, combinare, contaminare, qualche reperto visivo qua e là, qualche polluzione, si entra, si pilucca, si assaggi un po’ qui e un po’ là, si consuma. Non si dà più la possibilità di creazione, ormai lo si è capito da un pezzo, solo flussi tra flussi, nessi che trasportano nessi, studio della luce migliore, collocazione, fruizione. Più nessuno spazio per questo gettarsi a capofitto nel nulla, per tutto questo estremismo, questa infanzia.

Voilà: ritorno della cornice. L’editore dice:

No, no, niente da fare, così non va bene! E poi ci vorrebbe un po’ più di vita! Dovresti metterci dentro un po’ di fica!
Come, in questo contesto?
Ma certo, non c’è problema! Te l’ho detto e ridetto, oggi va il sesso pret-à-porter, viaggi, telefonini, shopping, aerei, schiuma da bagno, bibite energetiche, telecomando… Il lettore si annoia se non scopano!
Ma com’è possibile, in una situazione così?
Che cosa importa! Cosa ci sta a fare, allora, lo scrittore?
Ma com’è possibile, tecnicamente?
Non è difficile trovare il modo! Perché c’è ancora un’idea arretrata del mondo di sotto. Che cosa credi? Non sono mica tutti come te! La gente si attraversa, si incontra! Pensa un po’ quando piove, per esempio, e il terreno si infradicia e le fosse smottano l’una sull’altra, l’una dentro l’altra, chissà come se la spassano tutti quanti, là sotto! Ci saranno anche là segnali, consensi, performance! Devi riuscire a immaginare le tecniche di corteggiamento, gli approcci, le possibili pose, gli afrori… Ma lo sai che i peli continuano a crescere anche dopo che uno è morto, per molto? Chissà che vulve fioriscono sopra quegli ossi pubici! Aderenza totale, senza più depistanti mucose, senza più problemi di tenuta dell’erezione, con l’età. Chissà come ci danno dentro con quell’osso snodato che c’è all’interno del membro, dentro quegli sfinteri d’osso, in quelle rose d’osso!

Fantastico! Altro che horror e inquietudine! La denuncia dell’oltranzismo sessuale in letteratura? Comicità, arguzia.
Continuiamo.
Ecco, ora i due si spostano, la cornice si anima. Camminano per strada, vanno da qualcuno, qualcuno che dovrebbe stimolare la creatività dell’autore. Che strano, lungo la strada trovano una donna che non smette di urlare e che urlando, dice l’editore, racconta delle cose.

 In questi giorni, per esempio, parla spesso di neonati.
Di neonati? Ah, si? E che cosa dice? Sentiamo!

 Li gettano negli scarichi delle immondizie, nei contenitori per la raccolta del vetro, nei fossi, nelle rogge. Li buttano nei cessi, ci rovesciano sopra secchiate di acido, di varechina. Li fanno volare nelle discariche, li fanno mangiare dai cani, dai sorci… calano a frotte sulle loro carni ancora bagnate, si gettano tutti assieme nelle loro pancine aperte, corrono via col muso tutto imbrattato, i fili delle budella ancora fumanti tra i loro lunghi denti.

Ed ecco comparire un altro personaggio. La Musa, la donna che sblocca il blocco degli scrittori.

 Me li manda quell’editore, quando sono bloccati su qualche libro, oppure devono rifare qualche genere tornato di moda, o se la prendono un po’ troppo comoda. Bisogna arrivargli in casa come per sbaglio, girargli intorno facendo finta di niente, fargli vedere con una scusa o con l’altra le mutande, prenderglielo in mano…

Poi compaiono, sempre nella cornice dialogica di Editore (che viene chiamato Gatto) e autore (che viene chiamato Matto), ulteriori personaggi:
il primo è l’Interfaccia, una donna.
Ma cosa? Vagine che si depilano, l’una davanti, l’altra dentro lo schermo televisivo, facendo scaturire una riflessione sulle immagini riflesse?
E il secondo personaggio? Un donatore di seme che frequenta la Musa per prepararsi all’atto donativo?
E il terzo? Siamo solo a pagina 40, e già compare un sacerdote, illuminato dalla visione televisiva della vulva della Musa:

Oh, sì, mi dicevo, lo stigma! Forse è così che avviene un’apparizione, ti lascia forse allo stesso modo svuotato, disgustato, anche quando Gesù si sarà aperto la piaga con le dita, in piena luce, in pieno giorno.

E quindi io, lettore irredento, dopo aver evocato en passant, spettri di scatole cinesi, mise en abyme, Decameron e Le mille e una notte, a questo punto comincio a sospettare di trovarmi dinanzi a un gran calderone in bollitura, e di essere ben lontano da una qualche mappatura del mio oggetto-libro.
E ritorno, d’istinto, alle pagine 13 e 14:

Diamo voce a tutto ciò che finora non ha mai avuto voce. Ficchiamoci dentro l’illusione del movimento e quella dell’immobilità, scolliamo i piani, i tempi, gli spazi, facciamoli ruotare e incendiare, mettiamo in movimento le ruote.

Non era tanto per dire, dunque!
E se poi sono pure un lettore particolarmente sensibile, filosoficamente orientato, magari orientalisticamente orientato, drizzo le orecchie.
Illusione del movimento e dell’immobilità.
Scollamento di spazio/tempo.
Mettere in moto la ruota.
Se sono un lettore che ne sa qualcosa di India, per esempio, drizzo sì le orecchie!
Ma non è ancora il momento per i piani più sottili.
No. Qui torniamo al materico, al materico editoriale:

Libri da leggere con la lente di ingrandimento. Stampati su pagine più sottili, trasparenti, per occupare meno posto nei magazzini. Si sta leggendo una pagina e si vede cosa c’è scritto in quella dopo, due pagine dopo, non si capisce mai se il protagonista sta scopando oppure se si sta lavando la testa con uno shampoo all’olio di granchio vitaminizzato. Mentre altri dello stesso numero strategico di pagine, dello stesso target e persino dello stesso continente, vengono stampati in volumi più grandi, a caratteri enormi, bisogna usare la lente di rimpicciolimento per riuscire a leggerli, bisogna ruotare su se stessi per scorgere i confini di ciascuna lettera. I libri devono essere stampati in caratteri molto leggibili, ma non esageratamente grandi, che sembra brodo allungato, bisogna girare continuamente le pagine, si forma un vortice d’aria attorno, le pagine come le pale di un ventilatore, ti fa male il braccio, anche gli occhi, le parole si vedono troppo, è come se non si vedessero affatto. Ma neppure troppo sbiadito, come se le pagine fossero finite in lavatrice durante il programma del lavaggio più lungo, quello di mutande e calzini portati per mesi, per anni, per millenni.

E ora due nuovi personaggi: Ditalina e Pompina.
Nomen omen.
Ditalina, per esempio:

Si dilata sempre di più, si sente anche passando da fuori quel rumore d’acqua e di schiuma, sembra che stia facendo il bucato, quando la sua mano si muove a poco a poco più forte, si distende.

E vado avanti, nel prevedibile avanti che conclude questo racconto.
Che sta succedendo? Ho come una sensazione di lieve vertigine, io, lettore irredento. I piani diegetici si stanno sovrapponendo, mescolando; i personaggi escono dai racconti che li hanno suscitati e saltano di livello, passano nella cornice, zampettano, senza una logica.
Sherazade, penso, ma più complicato, più strambo.
O forse no. Forse sono io ad essere limitato, a non starci dentro, come quando pensi al pensiero che pensa un pensiero che pensa un pensiero.
Certo, lo dice pure lui. Lui chi? No, scusate, lei, la Musa. Lo dice pure lei:

Cosa vogliono quelli? Il cortocircuito, la facile concatenazione di causa-effetto? Produzione-consumo? La caramella, il biscotto, la scopata? Tre o quattro colpi e via, si stampi! Imparino anche loro a respirare un respiro diverso, se ne sono capaci! Noi andiamo con altro passo e con altro tempo, per altre strade!

Ecco perché, quindi, la vertigine: iperventilazione, alterazione del respiro.
Ora si spiega. Non allarmiamoci.
E arrivo al diario del donatore di seme, che, scopro, è anche un softwarista.
Ha una sorella e un padre che si scannano quotidianamente.
Chi è che racconta questa storia? Quale voce narrante? Non lo so, forse mi è sfuggito. Credo che la storia si stia raccontando da sé.
Il software al quale il donatore di seme softwarista sta lavorando è di un videogame che ha per tema, appunto, la guerra tra le generazioni.
La parte su questa guerra familiare ha una potenza e una ferocia che mi pietrificano:

Non parlano per giorni e giorni. A tavola, a ora di cena, Grazia sposta continuamente la sedia per allontanarsi da lui, mangia quasi fuori dal tavolo per l’orrore di doverlo anche solo sfiorare con un gomito, con una mano, mentre l’allunga per prendere il sale, un grissino. Sporca tutt’intorno di cibo, schizza il sugo, appoggia la forchetta sulla tovaglia, ci va sopra col gomito, con un braccio, dopo un po’. Pericle si morde le labbra, impallidisce. Certe volte urla, trema, l’affronta, balbetta, si fa male, Grazia corre a mangiare da sola nella sua stanza, si chiude dentro a chiave. Pericle si alza, cade per terra. L’accompagno nella sua stanza, tenendolo per un braccio, lo faccio coricare sul letto, gli slaccio le scarpe, gliele tolgo, gli sbottono anche il colletto della camicia, gli allento la cravatta, gli tolgo qualche lungo capello rosso che ancora stringe nel pugno, strappato mentre mulinava le mani alla cieca, non vedeva. Gli chiudo le ante. “Cerca di riposarti, adesso” gli dico. “Ma perché è finita così?” si domanda. “Che cos’è successo?” “Non ci pensare, papà” lo tranquillizzo prima di uscire, “non serve a niente, non c’è niente da fare. Adesso chiudi gli occhi, riposa.”
Ah… liberarsi dalla prigione della riproduzione sessuata, da quest’inferno dei cicli, delle generazioni! Mi dico mentre tutt’intorno è solo silenzio, mentre i miei gameti immersi in azoto liquido, dopo aver subito il processo di vitrificazione con la formazione di cristalli di ghiaccio amorfo, con il loro programma, il loro software perfettamente crioconservato a -80°C, sono in inerte attesa di venire scongelati e inseriti nel collo uterino di una sconosciuta… Esser come quei misteriosi pesciolini del fango che nascono dalla pioggia… Ho letto poco fa sul giornale che gli individui adulti, con la periodica scomparsa dell’acqua, muoiono tutti, e che sull’ampia distesa del fondo torrentizio non rimane che fango tra i loro cadaveri essiccati. In qualche caso addirittura terra perfettamente asciutta. Eppure proprio lì, in quel posto inimmaginabile, in quella terra ormai priva d’acqua, sta seminata e in attesa la nuova generazione. L’acqua scrosciante delle nuove piogge farà schiudere le uova dove i piccoli sono già pronti e in attesa. Le prime pozzanghere saranno tutti asili infantili per gli argentei pesciolini, che cresceranno per pochi mesi senza sovrapposizione di generazioni, senza alcuna convivenza con i genitori, né con i loro figli.

Sto ancora tremando per la bellezza di questo passo, che… nuovo cambio di rotta.
Arriva un ispettore, perché la segretaria dell’editore, la Meringa, è sparita. Sì, nel frattempo si era unita al coro pure lei. E la trama (trama?) per un po’ sembra delinearsi come un plot noir. Ma c’è sempre e ancora tempo per un po’ di spirito sull’editoria e i suoi figuri.

Succede sempre così, non appena scoprono che sono un editore. Mi fermano per la strada, mi rifilano un manoscritto mentre sono fermo a un incrocio col finestrino dell’auto abbassato, buttandolo dentro da una macchina ferma di fianco, allo stesso incrocio. Sono già seduto sopra la tazza, in un cesso pubblico, quando l’inserviente bussa alla porta. “Dottore, ha dimenticato la carta!” dice gentilmente da fuori. Saltello a piedi uniti e coi calzoni abbassati fino alla porta, metto fuori la mano, prendo il segmento di carta ripiegata tre o quattro volte. Lo apro: c’è sopra l’epopea romanzata di un venditore porta a porta di fon per le orecchie, vergata in caratteri cuneiformi, l’equivalente a stampa di più di tremila pagine in corpo note, scritta in soli tre giorni e in stato di trance da un commercialista cleptomane, dopo aver subito l’amputazione di un papilloma al glande. Qualche signora in scarpe da ginnastica di astrakan mi rifila la storia di una cartomante ninfomane affetta da piorrea. “È solo un saggio di quello che so fare” mi confida, “se ci vuole mettere il naso…”.

Che cos’è questo oggetto-libro, che, proseguendo nella lettura, mi propina un investitore notturno, nel senso di un uomo che investe i pedoni e tutto ciò che si muove, di notte; dei terroristi di tipo nuovo, interattivi; dei copy e degli art che impostano la campagna pubblicitaria per dei nuovi assorbenti igienici – spassosissima, peraltro; una ragazza che non c’è assorbente che tenga e che perde litri e litri di sangue, lasciando strie porpora dietro di sé (e qui il mio vissuto entra in pericolosa risonanza); un traslocatore instancabile che, appena traslocato, è già pronto a ritraslocare, per trasferirsi altrove, in un moto perpetuo? Forse dovrei prendere alla lettera il seguente passo:

Questo libro bisogna sentirlo venire dal basso, da lontano, come i pellerossa che appoggiavano l’orecchio a terra per sentire il lontano rumore dei cavalli lanciati al galoppo sulla prateria che impercettibilmente vibrava.

Sono solo a pagina 160.
E posso collocarlo in un qualche genere?
Leggo: Che cazzo ne so! Il genere che vorranno! Quello che, di volta in volta andrà bene a loro!
Ma no, non ha senso farlo.
Si sa che il nostro è il tempo dell’ibridismo letterario, della trasgressione delle definizioni di “genere”, delle contaminazioni, dei contagi. È il tempo della frantumazione, della destrutturazione, della distorsione, e noi, ancora a volerci richiamare ad Aristotele? Sì, certo, ma siamo pur sempre in Italia, il paese della merda e del galateo. Qui i codici culturali sono macigni di marmo carrarese.
E questo libro? È un moderno Decameron? Aspira forse a essere un’OPERA, un ROMANZO-MONDO? Un ANTIROMANZO? La parodia della letteratura “alta” c’è; l’autoironia pure; la mescolanza di lingua e stilemi pure; l’eros… ah be’! Ce n’è a iosa: pornografia, pedofilia, bulimia sessuale, patologia. C’è pure il topos del viaggio d’oltremare, del rapimento e delle peripezie per giungere al lieto fine. E non manca la parodia delle pratiche religiose, certo.
Una cosa mi è chiara, a me, lettore irredento, a questo punto: la prospettiva. Qualunque cosa sia questo libro, la sua visione parte dal basso, dal sottosuolo, da quelle esequie premature iniziali… E allora penso: se parte dal basso, questa cosa bizzarra che sto leggendo, che mi prende a schiaffi come da un po’ non faceva alcun libro, è destinata a spingersi in verticale, no? Basso/alto, alto/basso. Non è un libro orizzontale. E neanche da leggersi in orizzontale. Questo è un libro, lo sento, che marcia furioso, che gorgoglia, che fermenta, che s’affossa e poi ascende rapidissimo, è un libro da sindrome di Tourette, da tic motori e fonatori, come il vecchio dalla paresi masturbatoria che è un altro dei suoi personaggi.
E la lingua? Questa strana, potentissima, irrefrenabile lingua che viene usata nel libro, che sembra, essa pure, scaturire dall’imo, dal basso, fertilizzata da tutta la materia che lievita, marcisce e si trasforma là sotto, una materia che si replica inesausta, così come si replica, si reitera questa lingua, che ripete i suoi aggettivi fino alla nausea, perché da là sotto si effondono zaffate, mica rose di santità, perdìo!
Torre di controllo: c’è vita qua sotto!
Sentite questo sacerdote tossico:

Comincio a preparare la dose. La sciolgo con l’acqua distillata che tengo nella sua piccola vescica di plastica, vicino a un mezzo limone, la scaldo sul cucchiaio con la fiammella di un accendino, di quelli che vendono per le strade i marocchini, cercando di non lambire la pisside piena traboccante di particole consacrate, aspiro con la siringa, mi stringo il laccio emostatico, tirandomi un po’ su i paramenti sul braccio. Sparo in vena, lascio cadere rapidamente la siringa insanguinata, prima che arrivi la botta che mi lascia instupidito e incapace di ogni più piccola azione. Certe volte, quando sono così sull’altare, e non riesco a muovere un passo, e sento tutt’intorno quelle voci ancora più emozionate, perché scambiano quanto mi sta succedendo per l’intensità della mia adorazione, e sento scoppiare in fondo a me stesso la mia evidenza turrita, mentre vado per stati limbici, precedenti la caduta, la colpa, eppure in una fusione pentecostale, consustanziale, passano nelle gelatine della mia mente immagini di mondi increati, prelustrali. “Oh, Signore” prego con le lacrime agli occhi, “fa di me una forma increata, una cosa non esistente. Ma non come una cosa che sia esistita e che poi abbia cessato la sua esistenza, anche se non dovessi essere più niente, ricordare più niente, fa’ di me cosa inesistente da sempre, per sempre, che possa stare tutto dentro l’abbraccio del mio non essere, tutto dentro il tuo abbraccio, dove niente può esistere perché possa esistere, come in uno spazio buio e cieco e profondo e senza messinscena di stelle.”

E un ginecologo spastico? Una donna avvolta nella carta stagnola? Un suonatore di prepuzio? Un papa di nome Elvis II? Delle donne esplose? Di quale conflagrazione si sta parlando?

Siamo così aperte che non siamo neanche più aperte, siamo esplose. Quando apriamo le bocche scoppiate, e tiriamo fuori le nostre lingue squarciate, sbudellate, quando apriamo la fica siliconata e scoppiata, in giro durante la notte, nelle strade, nei set, come se ci avessero sparato dentro una manciata di cervello appena strappato, ancora trasognato… Ecco… si sentono già da tutte le parti le piaghe delle nostre aperture aprirsi a ventaglio, pullulare. Le nostre strade sono crateri, bisogna aprirsi un varco al loro interno come in un magma insanguinato che non sa, non ricorda, si apre e si richiude continuamente su se stesso, non fa in tempo a cicatrizzarsi, a saldarsi che di nuovo vengono squarciate, di nuovo inaugurate.

Qui non c’è moralismo, e nemmeno autocompiacimento. Questa è possessione. I personaggi si appropriano della mano che scrive, del battito cardiaco dello scrivente, del suo corpo tutto. Lo vampirizzano, è evidente.
Le mie corde romantiche vibrano, sconcertate.
E questo domatore di prostitute che non si rassegnano al loro destino di merce? Quanto fa male per la sua verità?

Quante ne vedo passare! Sempre le stesse facce assetate, gli stessi occhi sbarrati, gli stessi corpi da mettere con le spalle a terra, da spezzare. Mi bastano pochi giorni, me le faccio portare qui nella piccola casa in affitto dove vivo, dove non faccio entrare nessun altro, materassi gettati per terra, lordati, schizzi di sangue e di muco contro il muro, quando le devo colpire e vanno a sbattere contro le pareti col volto, con i corpi, o devo scoparle per farmi meglio capire, con un rostro che mi applico, odore di carne bruciata quando devo bucare le loro carni con le braci delle sigarette, col fuoco. Di escrementi, quando le devo lasciare nella loro merda, nude, legate, per qualche giorno, nei casi più ostinati. Si guardano attorno atterrite, girano gli occhi sulle pareti, le loro grandi bocche a ventosa sono spalancate per lo stupore. I globi dei loro occhi sono tutti sbocciati, bianchi. Le colpisco immediatamente, senza parlare, perché capiscano che sono sprofondate in un luogo di orrore dove nessuno le potrà rintracciare. Le faccio tacere colpendole più volte, con forza, sulla bocca, sento scoppiare sotto le nocche quelle loro labbra così esagerate. Le vedo boccheggiare di fronte a me come pesci.

Ora, mi chiedo, ma un libro così può starci in libreria?

Non saprete bene dove piazzarlo, se appena entrati a destra, come una torre, oppure nell’angolo più nascosto, o nel blocco centrale, con la prima copia in alto scellophanata, perché il cliente che gironzola svogliato qua e là possa buttarci un’occhiata e fare quei gesti che fanno sempre i clienti delle librerie più aggiornate (…) e intanto guardarsi attorno emettendo nello stesso tempo aria dalle narici e deglutendo, e contemporaneamente stuzzicandosi una narice oppure il lobo di un orecchio affetto da dermatite, oppure controllando macchinalmente che l’assorbente sia al posto giusto sotto i collant, se si tratta di una cliente. Non vi dovrete meravigliare se cominceranno ad arrivare in negozio clienti che non avete mai visto prima. Entreranno con gli occhi sbarrati, gireranno per i banchi affamati, incontrollati, qualcuna lascerà una scia di sangue e di sporco, sul pavimento. Tanti altri passeranno a cercarlo quel libro. Persone mai viste e che mai più rivedrete, che al massimo vi capiterà forse di incontrare, per caso, di notte, mentre andrete con l’ultima corsa della metropolitana.

E cosa cerca l’Autore di un libro simile?

Mi espanderò in questi spazi pieni di comicità, disperazione, delicatezza e disprezzo. Entrerò nelle latrine di questo tempio scoppiato, con la mia solitudine, con la mia fiamma. E tenderò e scardinerò queste strutture in fuga totale verso non si sa dove. Dammi, o Musa, le forze cieche, indistinte, per andare avanti in questa poltiglia increata, spalanca di fronte a me i tuoi specchi, accoglimi nel tuo sbrego oceanico cieco, nella tua polpa molle piena di bagliori!

Sono a pagina 429 e sottolineo, io, lettore irredento, sfregio le righe, disegno asterischi di gradimento, quelli che metto sempre sulle pagine preferite. Ho il batticuore. Mi si sta raccontando di una cosa semplice, comunissima, banale. Due persone che s’incontrano per caso. Si fermano a parlare un attimo, poi si salutano e se ne vanno, ognuna per la sua strada. Ci capita, no, di vedere questa scena? Ma cos’è che non vediamo? Cos’è che solo qualcuno di noi riesce a vedere?

Ecco, voi venite avanti camminando sullo stesso marciapiede, sprofondati nei vostri pensieri, le incrociate proprio nell’istante in cui una delle due, dopo l’ultima stretta di mano, si stacca, si gira su se stessa per prendere una direzione diversa o salire in macchina. È solo una frazione di secondo, però è sconvolgente perché in questo frammento di tempo, tra quando la persona stava ancora ridendo con l’altra e quando riprende la sua espressione normale, nel momento in cui la maschera del sorriso e della tensione nervosa cade di colpo dal suo volto e non se ne è ancora sostituita un’altra, si stampa per una frazione d’istante sulla sua faccia un ghigno spaventoso di vergogna e di orrore. Il cambiamento è così improvviso che fa paura vederlo! La maschera si polverizza, tutta la messinscena crolla di colpo, crolla anche la tensione nervosa necessaria a sostenere il dolore di tutta questa finzione. I muscoli si rilassano di colpo, le labbra, fino a un secondo prima tirate forzatamente in un sorriso, cominciano a cadere, a richiudersi, lasciando scoperta per un istante la chiostra dei denti, della protesi, gli occhi restano per un istante sbarrati, si stampa sulla maschera del suo volto un’espressione di vergogna, di ribrezzo, di odio. La stessa espressione che probabilmente si imprime per un istante sul volto di una persona che ne ha appena sbudellata un’altra, con un coltello girato e rigirato come un mulinello nella sua pancia, di nascosto, di notte.

Ecco, io, lettore irredento, leggo questo e provo orripilazione, i peli delle braccia si drizzano, il cuoio capelluto freme, lo stomaco si contrae. Sono attirato e provo repulsione a un tempo.
Io, per esempio, lettore che ha dimestichezza con l’India, penso inevitabilmente a rāga e dveṣa, attrazione e avversione, due dei cinque vizi originali che affliggono gli esseri umani.
Sono attratto dalla bellezza artistica di questo brano. Sono attratto dalla sua verità. Ma sono respinto dal dolore che mi provoca. Sono respinto dalla sua verità.
È questo che chiedo alla letteratura, io lettore orientalista irredento.
Non posso non amare l’autore di un brano del genere.
Anche se poi altrove mi annoierà, m’irriterà, mi esaspererà.
Io mi sento come uno dei suoi personaggi: l’uomo che pesta le merde, e in quanto tale si può elevare a vette precluse ad altri, accumulando merda sotto le suole delle scarpe, merda sedimentata, mineralizzata, solidificata. Ecco l’abisso della verticalità! La metafora incarnata. La creaturalità umana. E la compassione, la pietà, l’empatia.
Passerò un po’ sbadigliando tra le pagine dove mi si racconta come si scopa in quattro, ma mi congelerò al magnifico Canto della bambina.

Perché sono qui? Perché mi hanno portato qui? Perché sono viva? Vado a bere un bicchier d’acqua nel gabinetto, mi lavo i calzini, le mutandine che si sono sporcate, in un secchiaio di plastica, mi rifaccio il letto, ripiego bene il lenzuolo. Mi spoglio, mi metto la camicia da notte. Certe volte mi immagino che tutta la strada sotto di me diventa soffice, bianca, e che io chiudo gli occhi e mi sporgo un po’ in avanti sul davanzale con la mia camicia da notte e la mia mantellina, sempre un po’ più avanti, dolcemente, così, a occhi chiusi, fino a che senza accorgersi il mio corpo si rovescia con una capriola lenta nell’aria, una capriola di quelle che non avevo mai fatto in vita mia, forse prima, forse prima che nascessi, forse quando ancora non c’ero, e finisco laggiù tra due grandi braccia di bambagia che mi cullano, mi cullano, mentre una bocca dolce mi parla da infinitamente vicino e intanto mi comincia a baciare sulle guance gelate e io non riesco neanche più a distinguere le parole dai baci, e stiamo per molto tempo così e io riesco solo a dire a me stessa e a bisbigliare: “Per sempre, per sempre.” Oppure che tutto il cielo comincia a poco a poco a rischiararsi. Mi affaccerò in piena notte a questa finestra, vedrò il cielo diventare bianco, sempre più bianco, e anche tutte le case, la strada, ogni cosa si accenderà di fronte ai miei occhi, diventerà bianca, sempre più bianca, abbagliante, e io sentirò tutta la mia piccola faccia e le guance e la bocca fasciate dalla carezza delle lacrime che vengono giù senza freno, venute chissà da dove dall’interno della mia piccola persona dimentica, da qualche piccolo scrigno pieno di luce che neanch’io sapevo che esistesse dentro di me, e io ci starò dentro a occhi chiusi come nel velo di un altro corpo più luminoso e più caldo e più trasparente e più grande e non penserò più a niente, non respirerò più, mi scioglierò e scomparirò tutta dentro quell’abbraccio e non tremerò più, non piangerò più, rimarrò per sempre in piena luce, in silenzio, là dentro, intatta.

E capirò, io lettore irredento che piange.
Capirò perché all’inizio, a pagina 13, assieme a Divina Commedia, Iliade, Moby Dick, I fratelli Karamazov, Don Chisciotte e Decameron, è finita pure La piccola fiammiferaia.
E piangerò come piangevo da bambina, con la voce femminile che usciva dal nastro dell’audiocassetta:

La bambina allora accese rapidamente i fiammiferi di un’altra scatoletta, uno dopo l’altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi diffusero una luce più intensa di quella del giorno:
“Vieni!” disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell’anno nuovo, i primi passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina.  

E tanto mi basterà per poter strisciare fra le altre 400 pagine del libro, o per sorvolarle.
Chi ha il coraggio di offrirsi così scorticato, merita che il suo lettore faccia altrettanto. Merita quantomeno di non essere liquidato in categorie concettuali, lui che di liquido ci propone solo il magma incandescente delle sue parole e della sua estasi-possessione.
E se non riusciamo a parlare di questo libro, che aspira addirittura a raccontare un’anticreazione, il Prima che contiene il Tutto, se questo Tutto diverrà, a raccontare la contrazione di spazio e tempo, che aspira a convincerci che la letteratura sia una fessura, una cruna attraverso la quale una nuova voce increata può ancora parlare alla propria specie arrivando fino alle sue strutture più profonde e più esplosive e segrete, nella generale e portentosa chiusura di spazi della vita biologica, sociale e mentale dell’uomo, se non sta al suo posto, se si carica nel suo inarrestabile andare di ogni possibilità e potenzialità, di ogni tensione e invenzione e precognizione e presenza e pensiero, se si apre a fondo, si lacera, si spalanca, si squarcia e va a esplorare, a occupare e a forzare in questo incontenibile e scaraventato movimento anticipato e increato la dimensione infinitamente più vasta in cui è contenuta e serbata, se non riusciamo a dire di questo libro che aspira perfino a far parlare Dio, e a farci condannare da Lui: Siete ancora delle povere bestie inermi, cattive, terrorizzate. La specie più terrorizzata, crudele, ottusa, infelice, maligna, un Dio che, disgustato e inorridito dalla nostra presenza su di esso, intende vendere il pianeta, un Dio che non sa chi è, perché Dio può solo essere chi non sa chi è, chi sarà, che non contiene il limite di sapere chi è, del fuori di sé, se non riusciamo a dire di questo libro, ecco che possiamo lasciarci affogare, e affogando aprire i polmoni a un’aria diversa, incendiata, e provare a sentirci come l’inconcepito che nascerà prima di essere concepito e che sta morendo senza essere mai nato.
Un’ultima cosa: perché poi sarei un lettore irredento?
Naturalmente questo me lo spiega lui, l’Autore del libro: irredento nel senso che non è stato redento da nulla, nemmeno dalla letteratura. Io rifiuto l’idea di una letteratura che serva solo a farmi passare in modo analgesico il tempo che mi divide dalla morte. A me interessa una letteratura che porti un surplus di vita, magari anche di dramma, di disperazione, di distruzione, di tutte quelle cose che esprimono la vita alla sua massima potenza. Ecco perché cerco un lettore che non sia appagato, che si senta ancora affamato e assetato.
Parola di Antonio Moresco, autore dei “Canti del Caos”, 1070 pagine scritte furiosamente a mano.

Laura Liberale

 

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