BIRDMAN O (L’IMPREVEDIBILE VIRTU’ DELL’IGNORANZA) di Alejandro González Iñárritu

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel secondo anno di attività. La recensione di Francesco Torre a “Birdman” di Iñarritu (pubblicato il 13 febbraio 2015).


BIRDMAN O (L’IMPREVEDIBILE VIRTU’ DELL’IGNORANZA)

Regia di Alejandro Gonzáles Iñarritu. Con Michael Keaton (Riggan Thomson), Edward Norton (Mike Shiner), Emma Stone (Sam), Naomi Watts (Lesley), Zach Galifianakis (Jake).
Usa 2014, 119’.
Distribuzione: 20th Century Fox.


 

Chiassoso e roboante, l’ultimo film di Iñarritu è senza dubbio un esperimento tecnicamente e visivamente sorprendente. Non tanto perché sviluppato su una serie di piani-sequenza senza soluzione di continuità (in era digitale l’aveva già fatto Sokurov in Arca Russa, anche se il modus operandi del regista messicano rimanda maggiormente a Nodo alla gola di Hitchcock), ma per l’anelito di libertà stilistica e linguistica che – come già era successo in Biutiful – la messa in scena sprigiona al di là di ogni rigore formale, smascherando i meccanismi della finzione cinematografica e con fughe improvvise nei territori del fantastico.
Più convenzionale, invece, appare la struttura narrativa, nonostante giochi anch’essa con audacia la sua partita extrafilmica: il protagonista, Riggan Thomson, è una star di Hollywood la cui carriera (e in fondo anche la vita) è andata in caduta libera dopo il rifiuto a vestire per l’ennesima volta i panni del supereroe Birdman, ovvero esattamente ciò che è successo a Michael Keaton (che interpreta il ruolo) con Batman. Detto ciò, il percorso di autocoscienza verso il riscatto umano e artistico del personaggio, che passa dall’adattamento teatrale di un testo di Raymond Carver (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore) e il suo allestimento in un teatro di Broadway, le sfortunate anteprime e il debutto, sembra badare più a compiacere il senso comune che a perseguire un obiettivo drammaturgico (qualunque esso sia).
Ruffiano e citazionista (con riferimenti espliciti agli universi di Altman, Godard, Cassavetes), il film si nutre della propria cinefilia così come dei continui rimandi ai mondi paralleli (virtuali entrambi) dello show business e dei social network, per presentarsi al pubblico come una libera riflessione dal tono semiserio sulle possibilità dell’espressione artistica in un contesto consumistico e crossmediale. Interessante, in questo senso, più del risultato ottenuto la tecnica di svolgimento dell’indagine, che tramite un continuo scontro tra opposti (New York vs. Hollywood; Teatro vs. Cinema; Arte vs. Mercato; Morte vs. Vita) obbliga lo spettatore ad esercitare senso critico su temi solo apparentemente lontani, ma in realtà centrali nelle dinamiche socio-psicologiche della cultura occidentale contemporanea: autorappresentazione, dittatura dell’immagine, liquidità dell’identità personale. E se la scelta dei finali multipli e la rinuncia ad un percorso di catarsi possono denunciare una debolezza drammaturgica d’insieme, pure il vestito che Iñarritu ha cucito addosso ad ogni personaggio, sebbene utilizzando modelli archetipici riconoscibili, mostra indubbie qualità sartoriali che esaltano il tessuto emotivo della narrazione quanto le doti attoriali dei singoli. Segno che la separazione delle carriere dal sodale di un tempo, lo scrittore e sceneggiatore Guillermo Arriaga, ha marcato sì l’abbandono di una poetica autoriale di grande rigore drammaturgico e compositivo (Amores Perros, 21 Grammi, Babel), ma ha permesso lo sviluppo di una poetica confusa, capziosa e nel caso specifico corrotta quanto si vuole dal desiderio di compiacere anche i gusti del pubblico medio, ma sicuramente più autentica e linguisticamente intrepida.

La citazione: “Tu non sei un attore, sei una celebrità. Mettitelo bene in testa”.

Francesco Torre

Foto di copertina: Birdman – illustrazione di Peter Strain © (Fonte The New Yorker, 20 ottobre 2014).

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