Addio a Pia Pera.

PIA PERA WRITER E TRADUTTRICE RUSSA © LEONARDO CENDAMO / GRAZIA NERI

In occasione della scomparsa della scrittrice, avvenuta ieri, proponiamo la recensione al suo ultimo libro pubblicata su Azione da Laura Di Corcia

 

È spontaneo, ma con una visione registica che dall’alto manovra le piccole riflessioni sulla vita e sulla morte, il nuovo libro-diario di Pia Pera, giardiniera e scrittrice raffinatissima, che nel suo “Al giardino non l’ho mai detto” (Ponte alla Grazie, 216 pagine, 15 euro), parte da un verso di Emily Dickinson (I haven’t told my garden yet) per narrare del decorso della sua malattia – la SLA – e del suo nuovo rapporto col giardino, che diventa la spietata cartina di tornasole dell’ora paragonato col prima. La stanchezza, le forze che non arrivano, le gambe che non ce la fanno: come si fa a tornare nella terra e a piantare, potare, proteggere i fiori e l’equilibrio precario di alcune piantine? La prima domanda che si pone, con la Dickinson, è: chi si prenderà cura del giardino, quando non ci sarò più? Ma Pia Pera è troppo acuta, troppo onesta per non accorgersi della palta di ipocrisia che soffoca la apparentemente generosa e sincera domanda posta dalla poetessa. “Adesso dubito di quella mia prima lettura – scrive subito, nella prefazione, riferendosi alle riflessioni attorno alla poesia della Dickinson – che, lungi dal sembrarmi sintomo di smussato egoismo, umiltà, pensiero alle piante di cui non potremo più prenderci cura, al cagnolino che non nutriremo, mi pare solo un modo ulteriore di darsi importanza, supporsi indispensabili”. In effetti, ammette più avanti, in pagine dense di riflessioni sul senso della morte e della malattia, il processo di cura non è stato unidirezionale; non è stata soltanto lei ad accudire il giardino, ma viceversa. Se il giardino è quel luogo in cui i pensieri volano liberi, svincolati dal severo censore interiore, allora il suo rapporto con la terra è stato dettato soprattutto dal bisogno di affrancarsi rispetto all’imperativo paterno, quello della cultura, quello secondo il quale una bambina di dieci anni non deve leggere dei semplici gialli, ma Edgar Allan Poe. “È venuta Francesca a scegliersi i libri russi. Che sollievo, vedere partire tutti quei pesantissimi tomi- formalismo russo, versificazione, semiotica.. Riconosco nella ventitreenne Francesca l’avidità di libri di quando ero giovane. Si renderà conto che le sto passando un fardello?”. La cultura come una zavorra, quindi, il bisogno di alleggerirsi dalle secche del raziocinio proprio ora che, come le sue piante, anche lei ha bisogno di cure, anche lei è costretta a mollare la presa. Per quanto, come il diario dimostra, il tempo della malattia non è solo quello dell’abbandono, ma anche quello del rovello, quello in cui si mette in discussione tutto, schizofrenicamente, compreso il percorso che ci ha condotti al presente, tacciato a livello inconscio di essere in qualche modo colpevole della situazione: Pia Pera si rende conto che il puntare il dito verso la sua erudizione, il suo – perché no – snobismo, è in fondo il sintomo di una visione parziale delle cose. E qui arriva Leopardi: anche i suoi discorsi contro la natura – lo Zibaldone ne è zeppo – sono parziali, in un certo qual senso cocciuti, e non riescono ad aprirsi ad una prospettiva più ampia. Ma cosa vuol dire accettare la propria morte e come si può farlo stando nelle cose, quindi immergendosi nella natura? Forse la sfida che si e ci lancia Pia Pera è di quelle che servono a far alzare la posta in gioco, pur senza colpire nessun obiettivo: non possiamo smaterializzarci essendo ancora materia, e non potremo mai liberarci dal nostro ego, così come non potremo mai smettere di vivere in maniera sdoppiata, da protagonisti della nostra vita ma anche da osservatori esterni della stessa. In modo solo apparentemente spontaneistico, questo diario torna a battere sulle stesse questioni: vita, morte, eutanasia, guarigione, malattia, con grandi protagonisti del pensiero che diventano quasi personaggi, come Leopardi, Dostoevskij, Florenskij e Jarman (autore esso stesso di un libro incentrato sul rapporto fra il giardiniere e la morte). Come affronta non tanto la morte, ma il morire un giardiniere? Interrogandosi sulla bellezza del giardino, passando dal contatto diretto con le cose all’astrazione, al vizio dell’osservare. Sentendosi allo stesso tempo più vicino alle piante di quanto le fosse prima, ma anche anni luce distante dall’armonia delle cose. Potremmo dire che questo libro è incentrato sulle tematiche dell’inclusione e dell’esclusione, e anche qui coglieremmo solo in parte il segno. Ma da queste pagine, commoventi sì, ma anche lucide, traspira sempre intelligenza: quella vera, autentica, quella che forse sì, è una zavorra, ma è scattante, veloce, e si nutre di contraddizioni.

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