Note post elettorali

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Un’analisi di Nicola Bozzo

Dico subito e in premessa che stupisce la faziosità e superficialità dei commenti post-elettorali. Quasi nessuno fa notare un dato strutturale di astensionismo prossimo al 50%, cioè la fine di un patto di cittadinanza. Nemmeno il MoVimento 5 Stelle assolve alla funzione di “integrazione” del conflitto nel sistema. Riforme e legge elettorale accentuano questo carattere di separatezza tra politica (totalmente autoreferente) e società (dispersa, anonima, impoverita).

Non può reggersi per molto quello che è ormai realtà: governi di netta minoranza a tutti i livelli.

Agli esordi del pensiero politico italiano “moderno” incrociamo il confronto anche epistolare tra Machiavelli e Guicciardini. Come è noto, quest’ultimo muove dal concetto di “particulare” come tratto identificativo assieme della società e della politica, il particulare inteso come egoismo partigiano, come incapacità di cogliere  ciò che di necessariamente universale e generale deve costituire un corpo politico nazionale. La letteratura politica, storica, successiva ha assunto questo vizio originario del particolarismo come tratto d’indagine della natura della politica e dello stato italiano, come insomma una categoria di analisi particolarmente efficace per denunciare l’ assenza di una “virtù repubblicana” che saldi in una visione di assieme società e Stato.

Inoltre, Gramsci, studioso e ammiratore di Machiavelli, lesse il Risorgimento come “rivoluzione passiva”, come unificazione annessionistica dello Stato piemontese, senza quell’integrazione del popolo che è l’elemento indispensabile in fondo per la stessa tenuta di una compagine nazionale. Da qui la passione per Machiavelli, che Gramsci definiva un giacobino ante litteram per avere compreso come attraverso le milizie popolari, l’esercito non mercenario, si sarebbe prodotta quella integrazione tra masse e potere legittimo.

È dunque un affiorare del particolarismo italiano la ragione dell’ indifferenza così estesa alla competizione politica, l’apatia, la distanza?

Credo che sia assolutamente all’ incontrario. Il particolare è il tratto che definisce non la società ma la politica stessa, il suo precipitare in una dimensione oligarchica. Ne svelo alcuni indizi. Prima di ogni cosa si allarga la convinzione assolutamente saggia che la politica si è sostanzialmente emancipata dalla sfera delle decisioni di sistema. Ovviamente, per la natura residuale della politica, nel segno di quella tirannia dispotica dell’economico che segna il nostro tempo, ossia la mercatocrazia.

Passaggio successivo è che una politica impotente non diviene una politica mite o remissiva, ma assolutamente aggressiva e straripante. Quello che si perde nel campo delle “macro-decisioni” si compensa nel circuito delle micro-decisioni, cioè la sfera appunto del particolarismo, del lobbismo, degli interessi più forti e garantiti. Se forse un tempo, pur dentro un quadro di patologia anche giudiziario, la politica aveva un suo proprium e mediava le sue relazioni con l’economia, oggi le due sfere sembrano sovrapporsi in modalità di rete o con contiguità che impediscono di operare ogni forma di distinzione.

Eccoci dunque al paradosso semantico:  la politica, da polis, cioè da spazio comune, assume caratteristiche “private”, diventa in larga parte ceto, appunto il ceto della feudalità era ciò che la ragione illuminista vedeva come particulare, contro cui opporre la razionalità democratica del “tutto” nella forma, allora, della sovranità popolare.

In sostanza una politica post-ideologica, priva cioè di finalità esplicite che si contendono i l campo, diviene fatalmente post democratica, e dunque conseguentemente esangue, distante, astratta: è smarrito il per cosa votare, resta solo un per chi votare, la sola forma ammissibile del gioco post democratico, ossia  l’investitura personale.

Ogni ragionamento anche di “tenore costituzionale” dovrebbe muovere da qui, dalla rottura del patto democratico, ma invece non si fa altro che escogitare “soluzioni” che accentuano ancora di più questa distanza: ad esempio l’Italicum, la non elettività di istituzioni politiche costituzionali, città metropolitane, nuovo Senato, Provincie…

Quale il tema di fondo, dunque? Credo che possa articolarsi così: in questo passaggio che ci consegna una crisi economica-sociale, che diventa anche morale, antropologica, insomma “totale”, si comprende che le forme  della rappresentanza pienamente dispiegate introdurrebbero nello spazio politico-pubblico istanze e domande che si crede siano ingovernabili. Ovvero quella che si può chiamare la democrazia della crisi appare improponibile: occorre ridurre all’ essenziale il “contagio” democratico.

È l’Italicum la quintessenza dello spostamento non bilanciato del pendolo sul lato della governabilità, dove la rappresentatività viene mortificata.

Ecco la totale astrattezza della politica, che riduce “programmaticamente” lo spazio di relazione con la società, in fondo dichiarandosi come regno dunque del “particulare”. Il resto lo fanno i partiti plebiscitari dl leader che inibiscono allo stesso modo forme decenti di espressione di una volontà democratica confinata solo a un istante di euforia nella forma dell’acclamazione o del gazebo.

Questi mi paiono  tratti essenziali, certamente da approfondire in modo più analitico. Solo due brevi osservazioni a margine. La prima: solo chi non conosce né capisce Napoli può sostenere – nel prevedibile fallimento della sinistra italiana – che De Magistris sia un modello di successo e di “sinistra”. De Magistris è oggi l’espressione di quel populismo assoluto, ribelle e “plebeo”, che affiora sempre a Napoli, con cambiamento rapido e imprevedibile dei riferimenti. Napoli è la storia del lazzaroni, del re popolo, dei Borboni e delle giornate risorgimentali, è tutto e il suo contrario in un moto inarrestabile, è una storia a parte.

P. S. Sinistra italiana, invece di celebrare la sconfitta del renzismo, farebbe bene a guardare a se stessa: i flussi elettorali dimostrano che l’ emorragia di voti del Partito Democratico o va nell’astensione o verso i Cinquestelle. Dunque si conferma il fallimento della ragione sociale di questa alleanza di ceto politico, che riteneva di poter sfruttare una sorta di bene “posizionale” (l’avversità radicale al Pd), che ovviamente si manifesta votando Cinquestelle o astenendosi, cioè con manifestazioni non sospette di avversità al Pd. Partito in cui militava, con incarichi importanti di governo, o con benefici indotti dalla legge elettorale, l’attuale nomenklatura di Sinistra italiana. Forse eleggeranno qualche deputato con lo sbarramento.

 

Nicola Bozzo

 

Immagine tratta da www.ilmattino.it

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