Il populismo giudiziario

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Un’analisi di Nicola Bozzo

 

Prima parte

La lezione della storia dimostra come in alcuni frangenti cruciali il Paese non sia stato salvato dalle sue maggioranze, ma dalle sue minoranze. Sono state le minoranze che hanno fatto il Risorgimento, trasformando un popolo di tribù in una nazione. Sono state le minoranze che hanno fatto la Resistenza e hanno concepito la costituzione. E sono le minoranze quelle a cui oggi resta affidata la difesa della Costituzione. La difesa della Costituzione resta l’ultima spiaggia. Sino a quando questa Costituzione resterà in vita, sapremo sempre da dove ricominciare dopo le macerie. Sino a quando questa Costituzione resterà in vita, sarà sempre possibile fare cancellare dalla Corte Costituzionale l’ennesima legge vergogna che uno schieramento politico approva, e l’altro schieramento tiene in vita. Salvare la Costituzione significa salvare la parte migliore della nostra storia. Non deve scoraggiare fare parte di una minoranza.

Gli storici e gli analisti del potere sanno bene che la storia non è fatta né dalle maggioranze disorganizzate, né dalle oligarchie paralitiche. La storia – insegnava un maestro di democrazia quale era Gaetano Salvemini – è fatta dalla dialettica e dallo scontro tra minoranze organizzate, consapevoli e attive, che vincendo le inerzie della maggioranza disorganizzata, la trascinano in una direzione o in un’altra, verso un nuovo o un vecchio ordine. Cito un passaggio cruciale di un saggio di Roberto Scarpinato, procuratore  generale della Corte d’ appello di Palermo.

 Ho letto un po’ in ritardo questo saggio-intervista del Procuratore  dal titolo “Il ritorno del Principe”. È una ricostruzione della storia d’Italia, appunto dal Principe di Machiavelli, come storia del potere corrotto, tutto e sempre. Rari i momenti “alti”, ad esempio la Costituzione, che definisce prodotto di un élite, di una minoranza illuminata… In questo quadro l’ organico rapporto stato-mafia non è altro che una delle tante variabili della “metafisica” corruzione del potere.

Dunque il processo penale, quello sulla cosiddetta trattativa, diveniva un momento “salvifico” in cui non si giudicavano fatti, persone e reati ma il potere (simbolicamente esemplare l’estensione dell’imputazione ai vertici dello stato e ai capimafia tra loro “associati” e l’altrettanta potenza simbolica del lambire il Quirinale…) a cui si deve recidere lo scettro del comando intriso di sangue e di male.

Ne consegue che un potere ontologicamente corrotto ha bisogno di una società collusiva. Il giudizio è dunque totale. Solo spiragli di minoranze possono salvarsi l’anima.

È chiaro che punito il potere, con il consenso attivo delle minoranze “pure”, solo il corpo dello stato immune dalla contaminazione può proporsi e prendere il comando dello stato finalmente emendato, cioè la magistratura.

Non a caso in quel passaggio storico, il pm della trattativa si candidò (dopo un’escalation di populismo mediatico-giudiziario senza precedenti) a premier: il dottor Antonio Ingroia.

Ma procedendo per “necessarie” sintesi, cosa si può intendere per populismo giudiziario, cioè l’applicazione alla giurisdizione di una categoria di interpretazione politica invero polisensa, complessa, dai contorni abbastanza sfumati. Prendendo a prestito la definizione di uno dei maggiori giuristi italiani, Giovanni Fiandaca, autore peraltro insieme allo storico Giuseppe Lupo di  un saggio durissimo sul processo della cosiddetta trattativa stato-mafia: ”Che cos’è – più specificamente – il populismo “giudiziario”? Come prima definizione, generica e approssimativa, direi che questo fenomeno ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale. Questa sorta di magistrato-tribuno, oltre a pretendere di entrare in rapporto diretto con i cittadini o con alcuni gruppi sociali particolari (e, comunque, di rappresentarne e tutelarne al meglio i corrispondenti interessi o valori), finisce inevitabilmente col far derivare (piuttosto che dal vincolo alla legge) dallo stesso consenso popolare la principale fonte di legittimazione del proprio operato”.

Sui populismi politici qualcosa si è detto in un recente approfondimento sulla post-democrazia. La premessa necessaria per parlare di populismo con un minimo di rigore analitico, e non usare il termine in modo onnivoro, con un’intonazione moralisticamente dispregiativa, è che il popolo viene considerato in una sua originarietà costitutiva compatto, un macro organismo portatore di istanze “vere”, ”autentiche”, con due svolgimenti. Il primo è che esso è dotato di una sua essenziale natura “polemica”: la autenticità del profondo sentire popolare è sempre in opposizione alla usurpazione di questa dotazione di valori e principi da parte di soggetti, poteri, che sono falsamente rappresentativi, che utilizzano l’espressione popolo come legittimazione di carta del loro potere, che segue una propria logica e un proprio fine totalmente antagonistico con gli interessi e l’identità del popolo. Storicamente la sfere della politica organizzata nella rappresentanza politica, o comunque le istituzioni variamente intese. sono il bersaglio della risorsa retorica del populismo sotto angolature diverse.

 L’analisi di Merkel individua due visioni di fondo: popolo come massa salvifica; popolo come massa incolta. Questi due aspetti non sono visti in contraddizione: per il populista il popolo incarna per definizione valori salvifici in senso per così dire metafisico, anche se come massa reale è incolto. Versioni più radicali danno rilievo a caratteri più specifici: popolo come stirpe etnica, unita da sangue e suolo, lingua, religione, cultura, valori. Aspetto ricorrente del populismo è una sorta di protezionismo affidato a un capo carismatico, interprete del sano sentimento del popolo. Concezioni populiste si presentano come alternativa radicale all’idea di popolo legata alla cittadinanza in uno Stato di democrazia liberale, caratterizzato dal pluralismo come fatto e come  valore.

Scrive sempre Fiandaca: “Ad esempio, un noto pubblico ministero antimafia dei nostri giorni come Nino Di Matteo, impegnato nel controverso processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, ha ringraziato davanti al palazzo di giustizia un gruppo di 500 manifestanti del movimento “Agende rosse” affermando: «Queste manifestazioni spontanee sono importanti anche più di certi silenzi […]. È importante il sostegno che in questi mesi abbiamo ricevuto da gente comune che evidentemente ha solo sete di verità […]. Qualcuno non ha capito proprio niente. Il magistrato politicizzato è un altro tipo di magistrato, non quello che sente il bisogno di venire tra la folla per ringraziare di fronte a queste manifestazioni»”. La contrapposizione tra “certi silenzi” dei palazzi istituzionali e il sostegno spontaneo della gente è più chiaramente esplicitata in quest’altra dichiarazione: « […] oggi ci sono tantissimi italiani che stanno dalla nostra parte, semmai stridono certi silenzi istituzionali se confrontati alla solidarietà dei cittadini, delle persone senza nome che mi scrivono»

Sempre secondo Fiandaca: “Orbene, dichiarazioni come queste ora riportate appaiono chiaramente sintomatiche di populismo per più ragioni. Innanzitutto, perché i movimenti antimafia sono soggetti “politici”, per quanto non partitici, ragion per cui il magistrato che di volta in volta ne diventa punto di riferimento anche simbolico diventa per ciò stesso (anche al di là delle sue intenzioni) un attore politico. Inoltre, perché nel loro contenuto riflettono la tendenza, da un lato, a rappresentare il potere giudiziario come il vero interprete dei bisogni e delle aspettative popolari e, dall’altro, a criminalizzare invece il restante mondo politico-istituzionale”.

 Il primo aspetto  lo trascuro, mi interessa il secondo: il populismo come compreso da Merker vive dentro una situazione congenitamente paradossale. Da un lato la sua componente “antiaristocratica” conduce alla esaltazione di una strutturazione per così dire del primato del basso sull’alto. Si segna sempre una crisi del principio d’autorità. Dall’altro, proprio l’inestricabile “unità” del sentimento popolare non può articolarsi, pena il suo sfaccettarsi in mille rivoli, dunque è necessario un interprete monocratico, un capo, un leader carismatico, che per sue caratteristiche personali di eccezionalità diventa l’unica forma di espressione del corpo populistico, in se’ indifferenziato e strutturalmente “afasico”. Dunque il populismo è geneticamente antidemocratico, perché non può ammettere né l’articolazione pluralistica dei “valori” popolari, né l’articolazione altrettanto plurale dei soggetti politici pubblici in generale.

Si tratta di vedere la tenuta di questo paradigma di lettura con riferimento alla giurisdizione, alla sua peculiarità rispetto alla politica e alle sue forme di espressione.

Due le precisazioni. La prima è che è valore acquisito l’ammirazione e il sostegno ai coraggiosi magistrati impegnati drammaticamente sul fronte di contrasto giudiziario all’immondità della mafia. Tuttavia questo non può costituire la premessa di una sorta di ricatto morale implicito, ossia ogni riflessione è collusiva col male. Tratto, questo, populistico per eccellenza.

La seconda è che la mafia, intesa come male assoluto, come ad esempio il terrorismo interno e internazionale, costituisce campo di grandissimo interesse perché allo stato puro propone il rapporto tra giustizia, ”popolo”,  politica, in un territorio ideale in cui la legge non ha di fronte un delitto, un reato, ma un sistema di cui è altissimo il disvalore sociale, radicale, dunque per vedere in questi casi come si articolano e interagiscono i veri elementi nel momento di massimo stress del sistema, ossia  di fronte a quello che qualcuno ha chiamato il diritto penale del nemico.

Nella prossima parte, poste queste premesse, si svilupperà ulteriormente l’approfondimento. Cogliere cioè l’estensione di quello che con geniale secchezza ha descritto Leonardo Sciascia, ossia: «Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia – che non si può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto. Alla somma delle proprie inquietudini, bisogna preventivare l’aggiunta di quelle che verranno dall’attenzione che l’opinione pubblica dedica a certi casi. E questo vale per ogni latitudine, per qualsiasi paese in cui i tribunali non siano trasformati in are». L. SCIASCIA, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Milano 1989 .

Nicola Bozzo

Prima parte

Immagine del libro di Leonardo Sciascia tratta da http://www.iberlibro.com/

 

2 pensieri su “Il populismo giudiziario

  1. Ci sarebbero tante puntualizzazioni e distinguo da fare.
    A cominciare dalla “difesa” della Costituzione vigente: ché, oggettivamente (e laicamente), non può prescindere dall’esame concreto, puntuale, delle modifiche apportate (fra l’altro, pensando alle frequenti doglianze di Pannella, c’è da rilevare l’abolizione del quorum per la validità del referendum abrogativo: è essa forse qualcosa che la stravolge o la migliora?).
    Fra l’altro, il nome di Salvemini mi fa tornare in mente le critiche all’assetto iperproporzionalista ed iperparlamentare della stessa che ebbero a fare uomini certo non tacciabili di mire autoritarie come Calamandrei, Valiani, Foa, Ernesto Rossi, don Sturzo e, appunto, Salvemini.

    1. Il nome di Salvemini era nella citazione del pensiero di Scarpinato,e’ lui che tratteggia una costituzione di minoranza,fatta da elite illuminate e subito “risucchiata” dal potere che lui identifica tout court con il male e la politica.Non mi sono soffermato sulla costituzione le sue riforma,perche’ non era il tema,Cmq nel prosssimo pezzo ,parlero’ del modo di intenedere la norma costituzionale che fa riferimento all’ amministrazione della giustizia “in nome del popolo”..ciao