CONSONANZE E DISSONANZE / “L’impero in periferia”. Note sulle “Note di teoria, letteratura e politica” (2015) di Marco Gatto

Lo sguardo è là ma non vede una storia
di sé o di altri. Non sa più chi sia
l’ostinato che a notte annera carte
coi segni di una lingua non più sua
e replica il suo errore.
È niente? È qualche cosa?
Una risposta a queste domande è dovuta.

Franco Fortini, Molto chiare

1.

 

Che cos’è L’impero in periferia (Galaad, 2015) di Marco Gatto, oltre ad essere, naturalmente, un’antologia di Note di teoria, letteratura e politica, come recita il sottotitolo?
Un Paesaggio con serpente, forse, richiamando, così, il noto quadro di Poussin – Paesaggio con uomo ucciso da serpente (1648) – e, attraverso Poussin, l’opera di Franco Fortini, che Gatto elegge spesso, e a ragion veduta, a punto di riferimento intellettuale. Gatto, anzi, sceglie come esergo per la prima sezione di questo libro proprio un passaggio da L’ordine e il disordine:

E invece si parte sempre da una ipotesi teorica. Ipotesi teorica non significa, sia ben chiaro, sistema o dottrina politica. Sarà uno schema ideologico e la prassi si incaricherà di modificarlo; ma i tempi della modificazione non saranno quelli veloci dell’intelletto giudicante. Bisogna togliersi dalla testa che sapere sia potere. È davvero un abbaglio giovanile, fatto di idealismo e pragmatismo, quello di raggiungere finalmente un reale autentico, “pulito”, senza presupposti.

La prima sezione del libro di Gatto, infatti, s’intitola Teorie, ossia ideologie, aderendo coerentemente alla concezione fortiniana qui espressa: “[un’ipotesi teorica] sarà uno schema ideologico e la prassi si incaricherà di modificarlo”. Non si tratta, dunque, per lo studioso di andare a operare esclusivamente all’interno della teoria – legittimando a-criticamente la centralità discorsiva del “portato teorico”, così com’è stata sancita dal post-strutturalismo in poi – né di cercare una specifica rivalutazione “politica” della teoria da raggiungersi After Theory, come in Terry Eagleton[1]. Riconoscere lo schema ideologico alla base dell’elaborazione teorica, invece, non significa altro che rivendicare l’inevitabilità e, insieme, la dinamicità dialettica di quello che chiamiamo “teoria”.
A questo proposito, Gatto osservava già in Marxismo culturale che:

Occorre tuttavia segnalare, per non cedere a facili entusiasmi dialettici, che è il fattore nichilista, spettacolare, acritico e soprattutto apolitico a prevalere nel marxismo culturale. Il fatto che si renda possibile una diagnosi dell’esistente, lo si deve a una rielaborazione secondaria, che passa attraverso strumenti inevitabilmente teoretici. Nel valutare le teorie del recente marxismo, si corre il rischio perenne di un’eccessiva astrazione (che è cosa ben diversa da un marxismo dell’astrazione), corrispondente in buona misura al carattere depoliticizzato delle argomentazioni dei suoi esponenti. Proprio la privazione di un’istanza pratico-critica, che spesso si realizza pienamente in un’estetica svuotata di considerazioni basilari sul piano politico (la messa tra parentesi del problema di una presenza delle classi sociali nell’orizzonte globalizzato, ad esempio), ben descrive il carattere postmoderno dell’ultimo marxismo, nel senso di una radicalizzazione egemonica di elementi già attivi nel processo di modernizzazione, che ora ricoprono un ruolo di primo piano nel mantenimento ideologico di un mondo profondamente intrecciato alle logiche capitalistiche. La postmodernità, con la sua forza astrattiva dirompente, finisce per realizzare un obiettivo politico da anni ricercato: la relegazione del marxismo (e della sua modernità) a fenomeno disciplinare, a passività teoretica, metanarrazione culturale (da cui è elisa la vocazione critica). (2012, p. 28)

Se questo vale per il marxismo nell’orizzonte del postmoderno, e se si torna ora a Molto chiare, che invece è stata scelta come epigrafe in questa occasione, evitare «facili entusiasmi dialettici» significa non «replicare l’errore» dell’«ostinato che a notte annera carte / coi segni di una lingua non più sua» perché «lo sguardo è là, ma non vede una storia / di sé o di altri». Non sono più possibili, di nuovo, né l’enunciazione di una dialettica netta, cristallina, super-imposta ai testi e, in generale, a quei fenomeni politico-economici, storici e culturali, di cui si tenta di dar conto, né, per contro, un ripiegamento completamente narcisista e anti-dialettico come quello che risulta essere intrinseco alla teoresi postmoderna. Ed è leggendo Il romanzo massimalista (2015) di Stefano Ercolino che Gatto propone una soluzione alternativa, tesa a riabilitare la possibilità di un genere altrimenti negletto dal postmodernismo teorico come la filosofia della storia:

Basterebbe rileggere certe pagine davvero fondamentali di Raymond Williams – anche soltanto quelle basilari di Marxismo e letteratura, per non ricorrere alla fonte marxiana dei Grundrisse e ai passi dedicati alla dialettica tra presupposizioni storiche e loro realizzazione nelle forme precapitalistiche – per ribadire che ogni epoca si sostanzia nella perenne transitorietà dei suoi caratteri, e che elementi un tempo “dominanti” possono divenire, in virtù delle continue trasformazioni, “residuali”; altri, un tempo “subordinati”, hanno la possibilità di acquisire valori preponderanti  (per riprendere il lessico di Williams). Se così non fosse, il lavoro culturale sull’egemonia e sulle ideologie non avrebbe senso. E compito della teoria, del resto, dovrebbe essere proprio la negazione di un’ideologia, ad oggi egemone, che promuove l’eternizzazione astorica delle istanze culturali e delle categorie di comprensione. Ercolino cita giustamente, a tal proposito, un libro importante come After the Great Divide di Andreas Huyssen, in cui viene restituita un’immagine composita e dinamica della postmodernità: un libro scarsamente noto nel nostro Paese.
Non può essere casuale che
Il romanzo massimalista si chiuda con una riflessione sull’impegno e sul realismo. Anche in tal caso, certe ideologizzazioni fin troppo banali hanno contribuito a semplificare una dialettica storica molto più complessa: per molti, il trionfo indiscusso del disimpegno. È opportuno pensare, al contrario, in termini dialettici, e riconoscere che la complessità storica vede il relazionarsi di elementi dominanti e di elementi subalterni, di poteri fintamente coercitivi e di resistenze. (2015, p. 100)

Anche soltanto a seguito di un’esplorazione superficiale, dunque, sembra essere questa relazione tra componenti egemoniche e subalterne a legittimare il dinamismo della teoria, in uno sguardo che, assumendo l’imperativo della complessità dal postmoderno cum globale, non dimentica di cogliere – seguendo la lezione di Raymond Williams – quella che è “l’appropriazione dell’emergente”. Una critica che, per altri versi, è sempre stata interna, sin dall’inizio, alle molteplici tradizioni degli studi culturali e degli studi postcoloniali – campi dei quali la critica di Gatto al “marxismo culturale” non smantella del tutto le basi, pur rivelandone le costitutive anomalie – ove non si tratta soltanto di riconoscere i processi di reificazione alla base del mainstream postcoloniale[2], ma di vedervi “l’appropriazione dell’emergente” in un ottica che ssia situata sia dal punto di vista storico che da quello politico-economico. Evitando così, per fare un esempio, di incappare in un infortunio epistemologico come quello che apre Postcolonial Theory and the Specter of Capital (2013) di Vivek Chibber, testo pure caro alla critica marxista delle cosiddette “derive” postcoloniali o culturaliste:

Nelle ultime due decadi, gli studi postcoloniali hanno acquisito una notevole visibilità nei circuiti accademici. La loro origine risiede negli studi letterari e culturali, dove hanno preso piede come movimento teso a trascendere la marginalizzazione delle letterature non-occidentali rispetto al canone. In questo senso, è stata una campagna che ha goduto di un enorme, e rapido, successo. Già al volgere del millennio, la modulazione convenzionale della formazione letteraria moderna si era aperto – almeno nelle università statunitensi d’élite – per includere le opere di autori molto diversi tra loro come Ngugi wa Thiongo, Aimé Césaire, Salman Rushdie e Gabriel García Márquez. In quanto tale, è stato un esito notevole e salutare e, se l’influenza degli studi postcoloniali si fosse limitata a questo, avrebbe certamente meritato una reale attenzione. La sua portata, tuttavia, sarebbe stata limitata. Con ogni probabilità, sarebbe stata interpretata come una corrente che, pur essendo senza dubbio importante per l’arricchimento delle prospettive sul proprio campo disciplinare, sarebbe rimasta malgrado tutto parte della storia interna di un specialismo accademico – non più degno di attenzione di altre tendenze scientifiche. A isolarla – continuando ancora oggi in questa operazione – sono stati altri due fenomeni relativi alla sua traiettoria.[3]

Di questi due fenomeni – la migrazione dell’ottica postcoloniale verso altre discipline, al di fuori della critica letteraria, e il suo rapporto con una prassi politica – Chibber fornisce poi una critica che s’intende azzerante[4], con il risultato di ridurre, indirettamente, l’apporto postcoloniale a una lotta sul, contro e/o fuori dal canone, da considerarsi come irrelata rispetto alla totalità dei fenomeni sociali.
Gatto, invece, pur criticando attivamente molti versanti di quello che è il “marxismo culturale” – senza dubbio presenti anche nella critica postcoloniale – non sembra credere alla separazione arbitraria (e prevedibilmente forzata) tra teoria politica e teoria letteraria introdotta da Chibber. Piuttosto, lo studioso italiano mantiene una postura costante che è sia fortiniana, in una sorta di rinnovata “verifica dei poteri”, sia saidiana. Di Fortini qualcosa s’è detto; il riferimento, invece, a Edward Said – pure un grande mentore, a sua volta, di quegli stessi studi postcoloniali – non è tanto e solo per la difesa del “dilettantismo”, operata dal critico anglo-palestinese contro il professionalismo e la settorializzazione accademica e intellettuale, figlia tanto di un discorso ideologico affine al postmodernismo teorico quanto delle contingenze materiali attraversate, a livello transnazionale, dall’accademia. Di Said, Gatto apprezza anche un lato costantemente trascurato dalla vulgata postcoloniale, un côté che, anche da molte altre prospettive, potrebbe risultare ‘eretico’, poiché – cogliendo il significato di uno dei saggi meno noti di Said, Musical Elaborations (1991), che Gatto, a sua volta prolifico cultore e autore di musica, conosce molto bene – si può arrivare a osservare che

…la letteratura (e l’arte tutta) acquisisce mirabilmente una funzione pedagogica: invita a osservare come sia possibile, all’interno di un universo apparentemente chiuso (si direbbe: una totalità), la ricca coesistenza di diversità, prospettive, traiettorie gnoseologiche (altrimenti: una totalizzazione). È piuttosto l’utopia blochiana di un “multiverso” o, più semplicemente, il paradigma musicale di un’unità che sia rispettosa, attraverso le leggi dell’armonia, del canto di ogni singola voce (non è un caso l’interesse di Said per Bach e per il suo interprete più intellettualmente dotato, nonché volontario ed eccentrico esule, Glenn Gould) a esemplificare l’utopia di una pace possibile fra i popoli. (2015, p. 127)

Dunque, il dinamismo della teoria risiede, in ultima istanza, in un rapporto non del tutto serrato e asfittico tra totalità e totalizzazione: mentre la chiusura di quest’ultima porterebbe alla riproposizione di uno schema ideologico tout court, Gatto va a ricercare – nell’aperto, si direbbe quasi – le ragioni di una possibile critica marxista aggiornata. Gatto, insomma, si trova davanti a un nuovo paesaggio con serpente, accompagnando il lettore in un percorso che evita, infine, l’insidia mortale, proponendo una potente riflessione sulla posizione dell’intellettuale e poi dandone ampio sviluppo teorico-critico.

2.

Definire la propria posizione di intellettuale in rapporto alla possibilità di una critica marxista aggiornata può sembrare una sfida improba, di fronte a qualcosa di cui da tempo si è decretata (ideologicamente) la fine, attraverso la cosiddetta “fine delle ideologie” e, al contempo, di cui non si può tacere.
Si parli, ad esempio, con cognizione di causa (e di classe) e senza timori (se non quelli relativi alla costruzione stessa di un qualsiasi posizionamento intellettuale) della critica marxista proposta e fatta nell’oggi e, nello specifico, di quella avanzata da una generazione come quella di Marco Gatto, nato nel 1983, che non gode di alcuna rete di protezione, riconoscibile e trasversale, nell’esercizio delle funzioni che comunque continuano a esserle in qualche modo riservate dalla macchina universitaria.
In un simile contesto, Gatto è esplicitamente consapevole dell’insufficienza di quello che è, per tornare alla definizione di Maurice Merleau-Ponty, il “marxismo occidentale” (cit. in Gatto, 2015, p. 38). Insufficienza, forse inadeguatezza, non tanto e non solo per la mancanza di un dialogo con quello che potrebbe essere definito sbrigativamente il “marxismo orientale” – ovvero l’altro lato (massimamente plurale, tuttavia, e per nulla “orientale”!) della medaglia – ma anche perché il “marxismo occidentale”, nella produzione intellettuale più recente, si riduce spesso al patetico snocciolarsi di un pantheon pseudo-religioso. Portando in palmo di mano Franco Fortini, Raymond Williams, Edward Said (ai quali sono da aggiungere, almeno, Fredric Jameson e, per altri versi, Antonio Gramsci, cui l’autore dedicherà il prossimo Nonostante Gramsci. Marxismo e critica letteraria, annunciato per i tipi di Quodlibet), Gatto non sembra operare in modo diverso. Questo, però, solo superficialmente: si è già dato prova del modo in cui Gatto ri-attraversa alcuni di questi autori, senza santificarli, anzi scovando nuovi punti d’interesse, mentre lo stesso non si può dire di altre forme, appartenenti anche a generazioni precedenti, di critica marxista.
Se questo accade, lo si deve, in primo luogo, al recupero della critica letteraria come storia delle forme, dalla quale discendono pratiche specifiche. In questo senso, non si tratta soltanto di biasimare il fatto che

…nei trentenni d’oggi, si vede sorgere la figura fintamente libertaria del critico freelance, che si muove tra blog e festival della letteratura, che scrive sui supplementi culturali delle testate giornalistiche  (sia di sinistra che di destra, a dire il vero) come i suoi “padri”, ma che, a differenza di coloro che vivevano in una società in cui il Noi aveva senso, sembra tutto teso a celebrare il grande Io del critico censore, un po’ goffamente, un po’ stupidamente, cercando quasi sempre la polemica, il battibecco, la chiacchiera salottiera  (quando non viene tentato dalla letteratura stessa). (p. 93)

Si tratta, soprattutto, di evitare le forme di intervento che, consapevolmente o meno, risultano più accondiscendenti con queste pratiche – forme che, contro l’intuizione superficiale, si ritrovano con maggior frequenza laddove l’intervento, in origine accademico, tende a farsi forzatamente divulgativo, unendo l’afflato engagé a una decisiva semplificazione sia sul piano formale che su quello dell’argomentazione. La scrittura diventa allora sintomatica, rinunciando al dispiegamento della forza critica (spesso annichilente rispetto all’oggetto di cui si parla, ma al tempo stesso imprescindibile per l’articolazione di un qualsiasi discorso), o pamphlétaire, scambiando la declinazione all’interno del politico con forme di moralismo talvolta mancanti di sostanza analitica. Da qui, il passo verso il “nichilismo” – ripetutamente criticato da Gatto come presente all’interno delle posizioni più diverse, pur essendo sempre rintracciabile entro i rigidi confini del postmodernismo teorico – sembra davvero breve.
Gatto sceglie una forma diversa, riunendo in uno stesso volume (la cui lunghezza sfiora le 400 pagine) articoli, saggi e interventi già apparsi tra il 2007 e il 2015, molti dei quali già pubblicati negli stessi “contenitori” scelti anche dai suoi colleghi trentenni “freelance”. A differenza di altre tendenze contemporanee riguardanti la forma-saggio, però, L’impero in periferia, è pervaso da un’abile volontà architetturale e al tempo stesso polifonica, richiedendo al lettore di seguire quella stessa via della totalità/totalizzazione, mai richiusa ideologicamente su se stessa, che Gatto indica come legittima matrice per la teoria critica. In essa, ritornano costantemente alcuni dei temi già citati, come il ritorno alla filosofia della storia, o al dispiegamento della dialettica, in una sorta di circolarità aperta, che rafforza il posizionamento intellettuale dell’autore, permettendone al tempo stesso lo sviluppo. Qualcosa di simile accade, su un versante dichiaratamente non-marxista e legato a un ripensamento della storia letteraria italiana, in un altro tomo poderoso come Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia (Quodlibet, 2014) di Matteo Marchesini.
Se qui può essere legittimo chiedersi le ragioni strutturali su cui si fondano forme così diverse della saggistica contemporanea – dove la critica prodotta dal ceto accademico tende a diluirsi nel personal essay o nel pamphlet, mentre chi opera, più o meno precariamente, dentro e fuori dall’accademia, affronta a tutto campo le questioni che considera dirimenti – sembra comunque opportuno segnalare, nel caso di Gatto, alcune delle tensioni che inevitabilmente si generano anche all’interno della forma da lui agita.
Vi è, ad esempio, una certa ricorrenza del giudizio apodittico, legata all’originale brevità dei singoli saggi e alla loro frammentarietà: tendenza che risulta forse ineliminabile, ma induce egualmente il lettore a chiedersi se non si potesse aggiungere, in sede di composizione del libro, qualche argomentazione a sostegno delle osservazioni più puntute, come quella, ad esempio, dedicata “all’appeal che certi teorici-sciamani – quasi sempre cripto-cattolici insofferenti alla dottrina, eppure ligi al dovere ultimo di credere in metafisico e irraggiungibile Grande-Altro – emanano discettando su qualunque inezia, mescolando ectoplasmi pseudo-marxisti alle apparizioni più varie del postmodern way of thought: Slavoj Žižek ne è un esempio pressoché paradigmatico” (p. 88).
Più ancora, avrebbe meritato una discussione articolata il titolo stesso della raccolta, con quella definizione di “impero in periferia” che nell’intero volume fa capolino molto raramente (per esempio a pag. 218: “L’impero è in periferia, la periferia”), ma che necessita di essere svincolata dai riferimenti teorici immediati di questa associazione: Impero di Michael Hardt e Toni Negri, o anche la discussione sulle “modernità periferiche” o “semi-periferiche” che vede tuttora impegnate alcune anime della critica postcoloniale.
Gatto sembra piuttosto indirizzarsi verso una postura fortiniana di denuncia (e talora di auto-denuncia, soprattutto in alcuni testi poetici) della complicità dell’intellettuale con l’esistente, asserendo, allo stesso tempo, la possibilità di leggere la “condizione periferica” in modo diverso (data anche la sua centralità), come avviene nelle ultime due sezioni: Diario calabro e Dal margine estremo. Rivolgendo ora l’attenzione verso queste due parti del volume, si proverà a cogliere alcuni altri spunti teorico-critici che l’autore ha sapientemente disseminato nella sua opera architetturale e al tempo stesso polifonica.

3.

Diario calabro si presenta come l’attraversamento, da parte dell’autore, di alcune questioni teoriche e politiche che segnano profondamente la sua esperienza di vita e lavoro nella regione. La connotazione diaristica, però, rimane del tutto aneddotica, di fronte alla ricerca di “un meridionalismo a favore dell’universale” – titolo del primo saggio – o alla disamina della modernità peculiare della storia della regione, che Gatto assume quale “allegoria perfetta” della paradossale, ma “reale unità tra Sud e Nord, nel nostro Paese [che] si deve alla forza persuasiva dell’attuale fase consumistico-spettacolare del modo di produzione capitalista” (p. 211).
In questo senso, Gatto si discosta da una lettura della questione meridionale come quella di Franco Cassano – autore de Il pensiero meridiano (1996) o anche del più recente Tre modi di vedere il Sud (2009) – non tanto perché “l’osservazione quotidiana dei fatti conferma che, almeno in Calabria, la questione meridionale coincide con la questione criminale” (p. 212) – osservazione che Gatto s’incarica peraltro di articolare in modo molto diverso dal ‘savianismo’ criticato nel saggio “Saviano, Dal Lago e l’impegno in letteratura” (pp. 161-171) – quanto perché

…i motivi per cui è possibile descrivere oggi la regione come l’avanguardia di un’Italia post-moderna e compiutamente americanizzata sono gli stessi che, svuotati dalla loro apparenza giornalistica e televisiva, indicano l’esistenza di un laboratorio sociale fatto di contraddizioni, di evidenze materiali e di situazioni politiche che, proprio perché spinte all’eccesso, proprio perché accettate nella loro spudorata sincerità superficiale, risultano capaci di aprire nuove possibilità di conflitto e di comprensione. (p. 227)

Si tratta, in altri termini, di tornare a parlare, in chiave marxista, dell’economia politica che struttura la definizione mistificante della Calabria come “luogo dell’orrore nazionale” (p. 227), dove l’accento ideologico è solitamente posto sull’“orrore” e non sulla dimensione nazionale. Viceversa, “la Calabria può essere considerata allegoria dell’intera condizione nazionale”, oppure, “senza porci limiti, si potrebbe persino dire che la sua involuzione sociale e politica, il degrado che essa rappresenta, frutto di una modernità mancata e abortita, la eleggono a cartina di tornasole dell’intero Occidente e delle conseguenze paradossali che la civiltà capitalistica si trascina dietro” (p. 228).
Ne deriva che il reiterato motivetto della regione come buco nero della rappresentazione letteraria e cinematografica – in cui è incappato anche chi scrive, qui – trova ragion d’essere nella “fine […] di un modello umanistico di conoscenza” (p. 238) riscontrabile anche altrove e che in Calabria e sulla Calabria trova terreno fertile soprattutto per ragioni di classe: “[l’]assenza di un soggetto di classe capace di garantire, nel momento nevralgico della ricostruzione, una pur larvale razionalità al possibile riscatto collettivo, e di regolare le istanze di modernizzazione, arginando i rischi – ben presto realizzatisi – di una mutazione frenetica e incontrollata” (p. 230), combinata alla “diaspora culturale” delle classi intellettuali locali.
Questo, naturalmente, non esclude che si possa tracciare una storia culturale della Calabria delle ultime decadi, ri-articolando un discorso che troppo spesso si ferma al novero dei Corrado Alvaro e dei Saverio Strati – compito rispetto al quale Gatto, con piglio, qui, decisamente postcoloniale, non si esime – e consolidando la propria prospettiva sulla centralità dell’allegorismo attraverso le parole di Romano Luperini ne La scrittura e l’interpretazione: “L’allegoria scava nella distanza fra ieri e oggi, e vi scopre il nulla. Il vuoto non può essere riempito. Se il valore del passato nega l’insignificanza del presente, quest’ultima a sua volta nega quel valore. Il lettore può solo aggirarsi in questo vuoto, nello spazio deserto costituito da questi rimandi contrapposti. Ormai l’allegoria tende a porre in causa il proprio significato, dunque se stessa. In un certo senso, si autodecostruisce” (cit. in Gatto 2015, p. 271).
Auto-decostruzione del momento allegorico che si ritrova anche nell’ultima sezione, Dal margine estremo, dedicata a un personale “contro-canone” della poesia italiana contemporanea – Fabio Pusterla, Silvia Bre e Maria Attanasio – illuminata dal faro, ancora una volta, di Fortini (e con un’incursione abbastanza inusuale, a partire da questo territorio, ma giustificatissima, nella poesia di Jolanda Insana).
Senza entrare nel merito delle singole analisi monografiche e della loro riunione in una sezione che è, appunto, dal sapore vagamente, ma non del tutto ‘canonizzante’, sembra opportuno notare come queste scelte critiche, connotate da un gusto ben definito per il classicismo che è in sé anti-classico (richiamando, così, le antinomie della modernità che un critico di tradizione marxista non può che tornare, compulsivamente o meno, a sottolineare) provengano da quello che per Gatto è un margine estremo. Periferia, dunque, e impero nella periferia, come definizione assai persuasiva per un panorama come quello della poesia italiana contemporanea che spesso si vanta della propria “anomalia” (intellettuale, editoriale, di mercato, etc.) – trasformandola non di rado in ragione necessaria del proprio potenziale ‘avanguardistico’ o ‘di ricerca’ – ma che dello scenario complessivo è certamente complice e spia.
È, infine, con Fortini e la questione dello “stile tardo” – già sottolineato da uno studioso fortiniano come Luca Lenzini nell’omonimo libro per Quodlibet del 2008 – che si chiude il cerchio del libro. Da musicologo e cultore dell’opera di Said, Gatto non può che associare lo “stile tardo” alle discussioni che se ne fanno nelle opere di Theodor W. Adorno (Beethhoven. Philosophie der Musik, 1993) e di Edward Said (On Late Style. Music and Literature Against the Grain, 2006). Beethoven, per Adorno, Richard Strauss, per Said: sono due modelli diversi di lateness, tra i quali Gatto sembra prediligere il secondo. Per Adorno, infatti, “lo stile tardo, la spaccatura in monodia e polifonia, è l’automovimento”[5], dove per “automovimento” è da intendersi il momento in cui il non-identico si riappropria di una verità che verrebbe altrimenti persa nella sintesi” (2015, p. 359). Gatto rigetta subito la torsione impressa alla dialettica adorniana dall’irruzione del “non-identico” e torna a concepire l’opera di Beethoven nei termini della dialettica tra totalità e frammento, da leggersi against the grain (“contro-corrente”, come suggerisce Gatto a pag. 360, ma anche “in filigrana” o forse “in contrappunto”) come propone invece Said. Per lo studioso anglo-palestinese, infatti,

…praticare lo stile tardo coincide col rifiuto delle logiche coercitive del potere; oppure, ancor più didascalicamente: “Lo stile tardo è a un tempo fuori e dentro il presente”[6], esterno e interno alla sua epoca.
Così accade, secondo Said, a un compositore come Richard Strauss (al quale Adorno, tuttavia, rivolge aspre critiche: musicista megalomane e privo di diretta espressione di contenuti…), il cui rifiuto di praticare una musica pienamente “modernista” si sposa col suo anacronismo ottocentesco, figlio del post-romanticismo di Brahms, ma anche con l’intrinseco bisogno di offrire una risposta tonale al secolo dell’atonalità, di ristabilire un qualche ordine nel momento in cui ogni confine sembra essere saltato e più vivo è l’horror vacui; e così accade persino a Jean Genet, i cui ultimi lavori (come il postumo e autobiografico
Le captif amoureux) risultano scandalosi, privi di connessione con i precedenti, irregolari fino allo spasimo, perché si confrontano con la questione algerina e con il crollo dell’idea di un’identità stabile, aprendo la ferita filosofica del mancato accesso a una totalità compiuta, che […] è la cifra più alta dello stile tardo; […] e infine accade all’intellettuale cui forse Said ha dedicato le più belle riflessioni in campo musicologico, ovvero il pianista Glenn Gould, la cui assoluta individualità, il cui talvolta esasperato anticonformismo (il musicofilo penserà subito all’incisione volutamente scandalosa delle sonata per pianoforte di Mozart), assolvono alla doppia funzione di critica e di alternativa utopica al reale della società dei consumi (al marketing dei concerti e alla spettacolarizzazione delle esecuzioni musicali, nel suo caso). (pp. 361-362)

Critica e utopia, dunque, che sono trasposte nel campo della poesia, dove Gatto si interroga e interroga il lettore:
E che ne è, dunque, della poesia, l’arte che, fatalmente “tarda” perché vecchia, stantia e fuori dal presente, sembra pagarne le conseguenze peggiori? Si può ancora affermare, con Franco Fortini, che la sua diversità rispetto al presente possa rappresentare un valore aggiunto di resistenza? O essa è invece incapace di assolvere alla dialettica fra critica e utopia che sembra caratterizzare lo stile tardo? (2015, p. 363)
Una prima risposta è rintracciata nello “stile tardo” di Fortini, associabile alla sua ultima opera poetica, Composita solvantur (1994), oggetto dell’ultimo saggio di Gatto, dove

….l’appello a una realizzazione di quella verità che è stata contesa nella lotta politica si pone in netta contraddizione con le forti negazioni insite nello stesso testo […] e che, non  a caso, risultano pregne di quella tradizione poetica che l’utopia supererà dopo averla debitamente attraversata (citazioni dal quarto libro dell’Eneide: è Didone in procinto di morire a parlare, secondo un nuovo livello simbolico che include l’attesa della morte): “Nessun vendicatore sorgerà, / l’ossa non parleranno e / non fiorirà il deserto” (CS: 62). La poesia stessa è un centro che irradia contraddizioni, è essa stessa una contraddizione figurale. Come ha scritto Thomas E. Peterson, Fortini è, fino alla fine, “poeta della speranza”[7], e non appartato spettatore. Ci distanzia ulteriormente da questa poesia il fatto che gran parte dei poeti contemporanei abbia scelto la seconda opzione, implicitamente accettando la propria sempre più acuta esclusione sociale. (pp. 379-380).

È sulle note di questa “speranza”, tarda ma ancora capace di illuminare il presente, che si gioca anche il compito di chi, come Marco Gatto, intende assumersi il compito della critica ideologica “a un tempo fuori e dentro” quel presente che ha riportato il serpente nel paesaggio e l’impero in periferia.

 

[1] A proposito di Eagleton – cogliendo la trasversale necessità di nominare “il politico” per scongiurarne il parallelo depotenziamento, dovuto all’assunzione di un pensiero postmoderno che è intimamente de-totalizzante e anti-dialettico – Gatto si esprime in maniera perentoria, con una chiosa che rimandando al precedente libro, Marxismo culturale (base imprescindibile per la lettura del presente volume): «È un vizio del marxismo letterario e culturale più recente, quello di concepire la prassi politica come un semplice rendez-vous testuale» (2015, p. 49).

[2] Cfr. G. Huggan, The Postcolonial Exotic. Marketing The Margins, Londra/New York, Routledge, 2015.

[3] Cfr. V. Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital, New York, Verso, 2013, p. 1, traduzione dell’autore.

[4] Per una critica dell’appiattimento operato da Chibber della teoria postcoloniale su alcune posizioni teoriche e politiche dei Subaltern Studies, cfr. Sandro Mezzadra, “Review essay: Vivek Chibber, Postcolonial Theory and the Specter of Capital”, in Interventions. International Journal of Postcolonial Studies , 16 (2014): 916-925.

[5] Th. W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, Torino, Einaudi, 2001, p. 188.

[6] E. Said, On Late Style. Music and Literature Against the Grain, New York, Vintage Books, 2006, p. 24.

[7] Thomas E. Peterson, The Ethical Muse of Franco Fortini, Gainesville, University Press of Florida, 1997, p. 171.

Un pensiero su “CONSONANZE E DISSONANZE / “L’impero in periferia”. Note sulle “Note di teoria, letteratura e politica” (2015) di Marco Gatto

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