Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 23) Dr. Z

Dr. Z

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Il cristianesimo, a un certo punto, purgò la sua immagine di Dio da tutti gli elementi che lo rendevano affine alla soverchiante potenza della natura. Il “sacro”, che conteneva in sé la terribile forza distruttiva del limite valicabile, finì per diventare simulacro pel dolciastro accondiscendere alle qualità più urbane dell’anima umana. Ma sintanto che l’Urbe poc’altro fu che un sistema di fognature del sangue versato, Dio non ebbe alcun bisogno di comprimari satanici, sapendosela sbrigare bene da solo. La concorrenza sopraggiunse quando, con un gesto di protervia antropocentrica, si provò (senza successo) a distillare la parte benigna del genoma da quella più socialmente disgregante, finendo per trasformare tutto nella barzelletta bicamerale dell’”All you need is love” e dell”I’ve got to live for Satan” (che però girava al contrario). Da un lato si formarono legioni di anime pie intente a sgozzare agnellini per bontà, e dall’altra a sgozzarli per crudeltà: a voi giudicare dove si annidi la maggiore coerenza.

La musica, come tutte le arti, s’è piegata storicamente a questo o a quello, producendo da un lato Fra’ Cionfoli (che ora sta con Berlusconi) e dall’altro i Black Sabbath: a voi giudicare come spendere gli spicci della vostra coscienza musicale. Ma in generale, per la sua capacità di muovere emozioni, la musica ha avuto una certa predilezione per i gironi infernali. Figuriamoci quella rock, che era già an sich und für sich un girone di dannati. Le anime pie sono ormai troppo inclini ad additare ogni manifestazione naturale sconveniente come opera del maligno, trascurando invece il (tremendo) lato d’ombra del loro coatto sublimare. Ogni tanto una guerra santa, un rogo di streghe, una strage di conquistadores e via. Non v’è fine alla cattiva coscienza. Per questo c’è sempre bisogno d’un minimo sindacale di consapevolezza filosofica e d’un sano menar le mani contro le imposture semplificanti.

“Three parts to my soul” del gallese Keith Keyes, in arte Dr. Z, è un disco capace di dare sfogo alle zone meno edificanti dell’anima della scimmia nuda. Il che non implica sfrattare sic et sempliciter gli ospiti sgraditi, bensì collocarli nella visione d’insieme della contraddizione morale (questa labile sovrastrutturina infantile) che giace alla base d’ogni bios.

Tre parti dunque: Spiritus (la parte buona, che raccoglie soldi per i poveri, dispensando lo Stato dalla giustizia sociale) a cui è dedicata la memorabile “Summer for the Rose”; Manes (che sta un po’ ar gabbio del purgatorio, ma aspira a mondarsi) che si perde d’animo nella sua discesa verso le viscere della terra in “Burn in Anger” e “Too well Satisfied”; e infine Umbra, che nella conclusiva, straziante “A Token of Despair” abbandona ogni speranza e acquisisce consapevolezza dell’irragionevole derelizione d’ogni forma di coscienza.

Ma lasciando ora perdere tutto ciò che assimila questa recensione a un trattato di esoterismo medievale va detto che il disco unico di Dr. Z (1971) è un maledetto capolavoro, o fuor d’enfasi, un capolavoro maledetto.

Innanzitutto, a prevalere strumentalmente è una desueta spinetta (aka clavicembalo) usata in chiave preponderantemente percussiva; essa è il centro di questo album, con la sua insistente protervia timbrica. Sebbene vi capiterà di trovare questo disco generalmente annoverato nei listoni prog (essendo un pezzo, e anche piuttosto pregiato – dato l’esiguo numero di copie stampate e la lussuosa copertina apribile in direzioni insolite – del mitico catalogo Vertigo) non abbiate a temere, voi schifiltosi araldi del rock iuxta propria principia: Keyes suonerà sì e no dieci accordi in tutti e sei i pezzi (più bonus tracks delle edizioni in cd). È il modo in cui li suona e non cosa suona, a fare la differenza: il nostro prof gallese picchia i tasti come se volesse edipicamente spaccare i denti a suo padre (cit.) e, ancor di più, vi raglia sopra melodie come potrebbe fare Andi SexGang in un attacco di epistassi. Notevole anche il contributo del batterista Bob Watkins, che spella le pelli come solo il Diavolo in persona; l’impatto tribalistico, orgiastico, cerimonialistico del disco è prevalentemente merito suo.

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Ma come sempre, la qualità migliore di un disco sono le sue canzoni. E ciò prescinde da qualsiasi coloritura di genere e suggestione d’appartenenza: “Three parts to my soul” abbisogna di veramente pochi ascolti per piantarsi saldamente, come pania per uccelli, alle pareti del vostro cervello. La title-track diventerà per voi una vera e propria ossessione. E vi farà sentire come alla fine di un film di mafia in cui, anche se non lo confessate, vi siete identificati ben più di una volta con il cattivo.

Ma se i cattivi fossero sempre questi, sarebbe un mondo enormemente più buono.

Alessandro Calzavara


In copertina: Three parts to my soul (front cover, Dr. Z, 1971).

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