Un amaro scacco regressivo: Basilio Reale – Travasare il miele

di Diego Conticello

V. 1 Un amaro scacco regressivo: Travasare il miele

La silloge Travasare il miele consta di due sezioni, entrambe di quindici testi: la prima, Isola isole, con poesie scritte dal 1990 al 1995; la seconda, che dà il titolo all’intera plaquette, composta in poco più di dieci giorni (22 luglio – 3 agosto 1991). Grazie a questo volumetto Reale riceve, a distanza di poco tempo, il premio “Cattafi” e il “Mignosi” ed è finalista al “Viareggio”.
Rispetto alle poesie de L’esistenza amorosa, si nota subito un ulteriore ascesa del tono lirico, ricavato da un generale «nitore formale»: viene – in certe prove – da pensare al Montale della “divina Indifferenza”, come nei versi «[…] nella divina assenza delle cose/ dove il giorno respira la sua ansia», oppure ad un Leopardi lunare; «[…] Nessuna luce – né tu pensosa/ luna – mentre mi accosto/ stretto in un groviglio/ di figlio a madre, a madri.» del componimento eponimo. La madre è l’isola, la Sicilia archetipo della memoria, presenza debordante amata e osteggiata. La stesura di queste poesie, avvenuta presumibilmente nei soggiorni estivi del Reale nella natìa Capo d’Orlando, ammette descrizioni più ravvicinate dei luoghi in questione, pertanto domina, come sottolinea Domenica Perrone, «una sintassi verbale particolarmente intensa»:
Sciamano nella sera i miei pensieri
mentre fuggi e non so come fermarti,
tra le onde che ti cercano, ti stanano.
Da vicino t’incalzano, ti mordono.

Il trovarsi dentro l’isola, crea un più forte sentimento di odio e sofferenza nei confronti di una realtà immobile e stantìa: «Terra di tutti i frutti/ terra di tutti i lutti.// Di zolfo e sale/ di intrighi e male.// Terra di terrore , Isola. ».
L’isola è luogo di profonda regressione, di paradisiaca e crudele perdizione, al poeta-figlio dunque non resta che parlarne in termini ossessivi: «Isola, isole: un convoglio/ di topi all’orizzonte/ nell’occhio della notte. »; questi echi vittoriniani rimandano a Sirene siciliane, dove Basilio Reale ci dice che
non basta difendersi, sottrarsi dilatando la distanza. Ci deve proprio essere un «piffero» che suona in ognuno di noi e smuove in noi «topi e topi» che non sono «precisamente ricordi».
«Non erano che topi», precisava Vittorini, per bocca di Silvestro, «scuri, informi, trecentosessantacinque e trecentosessantacinque, topi scuri dei miei anni, ma solo dei miei anni in Sicilia […]».

Questo ritorno luciferino sarà ancora più eloquente nella seconda sezione, ma intanto il poeta può solo «sperare in una convivenza lucida con il vuoto» lasciato dalla rinnovata distanza dall’isola-madre:
Ma dimmi, che ne è stato di me
laggiù; che ne è laggiù di me?
Non so più niente della mia
esistenza: vivo se vivo in te,
dunque ti chiedo.

Tuttavia c’è occasione per rasserenanti puntate su altre “isole”: hortus conclusus non è solo la propria terra, ma ogni luogo che possa regalare al poeta momenti di svago e intimità, dove egli possa vagare solitario, con addosso solo la memoria di quell’isola che nei suoi pensieri sta al principio di tutte le altre: la Sicilia.

Questo avviene in una suggestiva ‘dipintura’ di Bergamo Alta, «un borgo vivo che non ha regalato nulla al turismo mercificato»:
Prese la scala per salire al cielo,
giunse alla Città Alta.
Poi che fu desto dalla meraviglia
un vento lieve subito lo spinse
dalla Porta Dipinta in via Solata,
memoria di un’altra isola,
solo possesso che con sé recava.

Non è possibile pertanto avallare l’ipotesi fatta da Mario Pezzella, il quale parla di «Porta Dipinta» e «via Solata» come luoghi simbolici di un incessante panmitologismo nella fantasia realiana. L’isola diventa adesso terra-donna a cui dispensare “richiami” pacati, ma la sua immagine non sarà così soffusa e diafana nella seconda sezione (solo in quella sede si registrerà una sottile volontà mitopoietica): qui invece Reale sembra avere superato il conflitto con le proprie origini, e le evoca lievemente, come si trattasse di un figlio che ascolta la nenia di una madre protettiva per poi ricantarla:
Il mare di giugno è tuo specchio.
E di onda in onda già all’alba
mi raggiunge la tua immagine.
Da un’onda all’altra, da un’isola
a un’altra isola, come
un richiamo da lontane stanze.

Infatti la seconda sezione, l’eponima dell’intera raccolta, prende le mosse da un’altalenante dicotomia che sarà il leit motiv di gran parte delle composizioni a venire.
Il contrasto che si dipana è quello fra un’ipotetica donna-ninfa, la cui caratteristica principale sembra essere la “volatilità” e la “fuggevolezza” e il poeta, satiro-Orfeo pervaso da un erotismo non sempre corrisposto:
L’avevano intravisto il caprone
per quelle contrade – ne faceva
fede l’impronta del piede.
Per il terrore al sole la Ninfa
s’era dissolta
prima che l’afferrasse
ancora una volta.

Nelle sequenze di riavvicinamento la donna sembra prendere sembianze più umane e diviene ‘linfa’ per il desiderio sopito di un uomo più anziano:
Alle spalle di una giovane
un uomo anziano
ogni giorno rifioriva.
L’avvenenza di lei era pane per i suoi denti,
e non ci volle tanto
che riebbe dalla sorte
le smanie di un torello.

Al momento della prova tangibile dell’amore da parte poeta, la donna trasfigura nuovamente in immagine mitica: «Libera dall’impaccio del corpo/ Aura si lasciò andare/ all’impeto di Maestrale.». L’assillo fondamentale del poeta non è tuttavia quello amoroso (né tantomeno quello del facile favolismo mitico), ma il ristabilire un contatto sincero e profondo con la terra d’origine, riattaccarsi serenamente al seno della madre, senza più subirne le regressioni; tuttavia se la terra rinnega il poeta-figlio, attraverso ambigui segnali atmosferici, il nostro Orfeo vede ‘nero’ anche l’amore:

La luce cambiò di nuovo
sulle Isole:
a mezzogiorno erano scomparse
sotto un velo di cenere.
Privato di quelle presenze
anche le Muse
gli apparvero terribili.

e, di conseguenza, le stesse prospettive poetiche si fanno d’un tratto mortifere: «Lavorava con le mani/ per restare più vicino alla terra,/ ma al momento di travasare/ il miele, scoprì che era nero. »; cos’è il miele se non la poesia, una sostanza dorata che il poeta ricava con sapiente arte – moderno alchimista – dal pietrame del linguaggio quotidiano, ma stavolta il miracolo non si compie, perché al poeta manca l’ausilio della terra-madre. L’amore perso diviene dunque “simulacro” e «si confonde con l’amore per la morte, con il ritorno alla natura madre più indifferenziata», ma proprio perché indifferenziata ancora più terribile:
Avanzava nel sentiero
contro il sole imponente.
Era il simulacro di lei
staccatasi dal banchetto
con Ade.
Incredulo
della propria credulità,
si attaccò ai germogli di un gelso
per non precipitare
in quell’abisso.

Al poeta non rimane che attaccarsi ad un gelso, ovvero a quella cruda realtà che gli eviti di precipitare nell’abisso della morte, del dolore per la perdita di tutto quel suo mondo d’affetti.
Resta una viscerale melanconia, conseguenza di questo triplo lutto terra-madre-amore, un amaro scacco regressivo che annienta la voglia di vivere:
Per tre anni non uscì
di casa, vennero gli amici
ma non li riconobbe,
finché trovò la misura
che gli diede la giusta distanza.

Il nostro poeta cerca di elaborare le perdite con la solitudine forzata, ma presto si rende conto che è il ricordo la sola cosa a poterlo confortare, la “giusta misura”, è paradossalmente l’assenza del perduto ad alleggerire il fardello dei clamorosi abbandoni:
La sua assenza
riempiva tutto il vuoto
che aveva lasciato:
improvvisamente
non ebbe più problemi
a coabitare con lei.

Lo scacco del dolore viene esorcizzato nella “coabitazione” con la solitudine: l’attempata immagine del poeta (qui sottintesa), un tempo rampante ‘animale’ d’industria, trova così un nuovo approdo esistenzialistico, distante dai clamori del mondo frenetico ma abbandonato nostalgicamente alla memoria d’amore e di ‘insularità’.

 

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