Occhio al testo (7). Sandro Sinigaglia: Via le vesti onde la carne

di Diego Conticello

Strenuo antifascista (partecipò alla guerra di liberazione dell’Ossola nelle Brigate Matteotti), nonché allievo e fraterno amico di Gianfranco Contini – del quale mise in salvo la straordinaria biblioteca durante il periodo della seconda guerra mondiale – Sandro Sinigaglia (Oleggio Castello, 28 aprile 1921 – Arona, 12 settembre 1990) diresse per anni la fabbrica di orologeria di precisione del padre, insegnando poi materie letterarie in un liceo di Domodossola e, successivamente, lavorando per diverso tempo nell’editoria milanese.
La sua poesia si configura come una straordinaria impalcatura meditativa, strutturata per precise e analitiche corresponsioni foniche ma soprattutto lessicali (forse derivanti anche dalla pratica lavorativa), dove lo spazio dei significanti si dilata fino allo stremo e alle stremate possibilità consentite, condensando in sé una proterva congerie di sovrasensi che possono, di primo acchito, addirittura sconvolgere il lettore, rilasciando una percezione di spaesamento, come nel trovarsi dentro ad un labirinto linguistico dalle invalicabili entrate e dalle conseguenti infinite percorrenze.
Un senso di enigmatica circospezione accompagna sempre i versi, che paiono scaturire dagli indecifrabili antri di lingue sconosciute, per posarsi con raffinatezza e fascinazione nel marchingegno fragile ma precisissimo di uno schema lirico dalla sempre centrata armonia.

Via le vesti onde la carne:
brulla! sempre deficitaria
rispetto a quella ideale
ma di quanto più tremenda
oh carne fruata fruenda
carne da spaccio per cui
ci si sente insieme fusi
nella guelma nel bòrbore
umido della vita
alle origini fango fango
fango e di traverso
un dardo di luce
vi s’intride e frigge
del male alle origini
e del bene
e in sù rischizza.

Questa sorta di esercizio “cortigiano”, di intermezzo scherzoso, come del resto la stragrande parte della produzione di Sinigaglia, è costruito per fortissime accezioni anastrofiche, corroborate dalla costruzione a consonanze interne che contribuisce a donare allo schema di fondo un abbrivio di voluto “stordimento”, continuato attraverso l’utilizzo del poliptoto verbale allitterante (fruata fruenda) e della triplicazione con inarcatura, in una sorta di mimesi fonico-lessicale dell’evidente metafora cinetica del coito descritta nella seconda parte. Come non ricordare inoltre il parallelo della Veneris venefica agrestis di Lucio Piccolo, dove l’allegoria continuata assumeva tratti non dissimili derivanti, anche in quel caso, non solo dal mero dato esperienziale ma dalla mediazione del magistero dannunziano, di cui certamente anche Sinigaglia è memore: «[…] Nell’umidore del selvaggio suolo/ i piedi farsi radiche contorte/ ella sente e da lor sorgere un tronco/ che le gambe su su fino alle cosce/ include e della pelle scorza fa/ e dov’è il fiore di verginità/ un nodo inviolabile compone.».
Si attinge spesso anche alle forme arcaiche e inusitate – anche grafiche – delle preposizioni e delle locuzioni, alla maniera dei calchi leopardiani delle perifrasi latine o della lingua petrosa dantesca eppure moderna nelle forme (soprattutto barocche, ma anche ariostesche o tassiane); come modernissimo risulta anche il gioco creativo dei neologismi (“guelma”: quasi un misto di guano e melma) e delle varianti arcaiche (bòrbore), così come l’intero complesso della costruzione armonica di fondo.

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