Spazio inediti : Emiliano Michelini – Parti di Requiem

di Diego Conticello

I testi che qui proponiamo, corredati da una nota critica e da una sezione della prefazione, appartengono al volume di Emiliano Michelini, Parti di Requiem, di prossima pubblicazione per i tipi di Oedipus (ndr).

La poesia di Emiliano Michelini riverbera in toni e accenti demistificanti (e per questo ancora più puri) l’infanzia e l’adolescenza vissuta all’ombra delle grandi metropoli, laddove la percezione spaziale si dilata quasi all’infinito e l’esistenza sembra scivolare in una sorta di età urbana dell’oro, in cui l’alienazione non è vista per forza di cose come un dramma ma come un compagno abituale e insito nel “paesaggio” e la mitografia, pertanto, può “abbassarsi”, senza il pericolo di scadere, al livello dei toons, dei blockbuster e dei fast food (e su questo versante la poesia di Emiliano ricorda molto da vicino quella “protesica” e industriale di Basilio Reale).

L’operazione compiuta da Emiliano può essere senza dubbio accostata anche agli esperimenti logico-combinatorî di un Corrado Costa, di un Emilio Villa, di un Nanni Balestrini insomma quanto di meglio deriva per filiazione diretta dalle neo-avanguardie milanesi e non, in cui l’autore trova terreno fertile non di imitazione ma di riscrittura ragionata, insomma una più articolata revisione del cut and paste anche con i modelli altissimi della tradizione (Dante, Petrarca) in una sorta di cultismo eclettico post-contemporaneo e post-urbano che può certamente aspirare ad una sua collocazione allo stesso modo in cui l’hanno guadagnata a suo tempo le suddette correnti sperimentali. L’inceppamento del linguaggio da cui si evince l’inciampo esistenziale ne è certamente la cifra più pregnante, ma declinata con senso profondo d’amara ironia che ne sottolinea l’ormai demistificata accettazione in un album (e chi di noi non lo ricorda) a metà strada fra l’analogico (infanzia come ricordo) e il digitale (leggasi odierno come soverchieria).

Diego Conticello

In questa poesia, la materia, che di per sé potrebbe, e forse vuole, apparire logora e inerte (un realismo crudo, desolato, fatto di merci e di rifiuti, di vite sprecate, di corpi ed oggetti abbandonati a se stessi, alla loro nuda matericità; un gelido, a tratti quasi cinico, disincanto; una quasi intollerabile oppressione visiva, un’orgia di immagini irrelate e senza apparente significato, specchio della nostra civiltà dell’esteriore e dell’effimero), è vivificata, reinvestita di senso, e come riscattata, dall’improvviso, repentino manifestarsi di una luce di lirismo − sebbene si tratti sempre, volutamente, di un lirismo impuro, contrastato, intriso e sporcato di realtà, di straniamento e distacco, insidiato dalla minaccia, o dalla lusinga, della nullificazione. Può nascere, allora, da questo stridente, irrisolto contrasto di realtà degradata e alto, ma chiaroscurato, lirismo, di sublime d’en haut e sublime d’en bas, un testo splendido come (tramonto), dove (anche nel ritmo spezzettato e pulsante della parola e del verso) l’intermittenza incessante, il puntiforme palpitìo della nostra era digitale divengono eco e specchio della precarietà e dell’evanescenza che contrassegnano le nostre esistenze e il loro ricordo labilissimo e fortunoso.

La parte finale del libro sembra essere incalzata, via via, da una sorta di forza apocalittica che annienta la parola, che la riconduce al nudo dire privo di senso, al gorgo oscuro di un indistinto originario balbettio; da una spinta che sollecita e volge il discorso verso la fine, verso il bianco, il vuoto e il silenzio che inesorabilmente lo attendono.

(dalla prefazione di Matteo Veronesi)

***

(prototipi)

 

(luna)

 

Oltre la spera che più larga gira

(Dante Alighieri)

 

c’è un ragazzo

fuori c’è la notte

è un buco

di cuore aperto

pieno di ferite

musicali

 

con le dita impolverate

sullo scooter

il simbolo

sulla pelle

una parte del sedile

 

la tua distanza

dalle vetrine

 

quello che c’è dentro

mi manca

 

non noi

 

nei registri del comune

ti faccio schifo

o almeno

un normale vivere civile

 

la finestra del McDonald’s

con tutto il sangue dentro

 

sopra il flipper

 

a fare finta

che qualcuno

solo per 5 minuti

le pasticche

 

o a sfasciarti

che vuoi farci

a sedic’anni

che vuoi farci se

sarei voluto essere

 

tutta questa pioggia

che si incolla

ancòra

dentro un sogno di un nulla

più assoluto del tuo nulla

 

è un male generazionale

negli anni scavati

di niente

come se venisse cancellato

 

con la techno

nella notte

che colpiva

 

ogni parola ritirata

tra le labbra

 

“il nostro problema

sopra come un lenzuolo

guidare questo stato”

 

quando tutto è freddo

nella piazza del centro

 

questi suoni sordi

sul ventre

di cellulari scarichi

perché una volta

in errore

 

tutta la nera

mezzanotte

per scappare

 

un’altra coca-cola

dentro l’auto

la fine dell’amore

burocrazia

*

(una calda)

movimenti

1.

in questa mano piena di sole

dell’estate nell’ombra della luce

le dita rotte nella rete, le dolci pianure

tra le righe della prima dizione

allo strapiombo del pomeriggio

sul registro delle presenze.

2.

tra le righe della prima dizione

nella deglutizione delle galassie

metamorfosi dell’aria e dei gatti

che crollano sui tetti, era così

bello il millenovecentonovantacinque

dice lei mentre conta i battiti

3.

dei polsi che si radono perfettamente

bene, nei linfonodi l’estate fu calda

estremamente a causa dell’aumento

della corsa dei cavalli nel fuoco

del pomeriggio sui tetti delle case

chi parla si guarda, si perde nell’afa.

(nelle altrui case)

ricordo il calore

l’odore

l’alito sui vetri

dei mobili

la notte

il rumore dello sciacquone

mentre nessuna ritorna

gli alberi di natale

il servizio buono

le porte non si aprono

mentre scorre la vita

la voce dei componenti della famiglia

il frigorifero

aprire la porta

chiudere la porta

dietro

un nuovo modello di televisore

il sole

posa il cappotto

prima dell’ undici settembre

mentre riposano

i videoregistratori

(bestiario)

(duckface)

Io non so se per questa vita è meglio

Leggere molti saggi di Roland Barthes

O guardare film con AJ Applegate

Perdermi in pubbliche relazioni che

 

Mi permettan di aspirare a un ruolo

Nella società delle lettere di oggi

Pubblicare su Passigli o Nino Aragno

O parlare con una meteorina al TG4

 

Nella rubrica “Sipario” dove l’altra

Settimana hanno intervistato

quella gran figa di Giorgia Palmas

Che s’ è rifatta il seno di due taglie.

 

Come poeta mi sento perso, non

Partecipo a nessuna trasmissione dove

Magari posso far vedere quanto valgo, quanto

Posso valere, nessuno chiede poesia in tv

 

Io chiedo poco, solo qualche verso.

*

Mettevamo videotapes nel VCR

E da mani eccitate ci salivano

Come formiche brividi d’amore

 

Arrancando sul sudato braccio

Come emozioni indefinite ed oltre

Lo schermo; la nostra anima s’apriva

 

Di tutto… come un tempo all’oratorio

Come nei libri del mio catechismo

Una nuova religione; elegia

 

Delle furenti mani in quell’impero

Adolescenziale d’anime, plastica

Materia e metrica del nostro cuore

 

Mentre Luce Caponegro ingoiava

La vita, a piedi pari e fazzoletti

Per sempre, quel fossato, saltavamo.

*

Ogni nome aspetta nelle ferìte

e nelle mani all’inguine protese

Mentre la vamp si libra ad ali tese

nella corta notte delle sparìte

 

metà, dei fluidi, sotto le svestite

galassie fredde, con bontà di modi

brutali d’uno che urla… “Ingoia, godi!”

preso nella foga delle partite.

 

Qualcuno si scaglia in trepidazione

con mani lorde d’aranciata, e piedi

sul gelido e imbrattato pavimento

al traforo dell’astro esattamente.

 

E mentre con le dita tocco il cielo

mi cola in bocca una costellazione.

*

(lidl)

Quale grido delle scontate merci

Ci portò qui tra l’anime ulcerose

Di scatoloni usati come sporte

Mute borse di spazio e di ragione.

 

E come albero pazzo grido al cielo

“Amaretto di Saronno a quattro Euro!”

Oh che pace vive tra le cose e ogni

Badante dalla cassa manda un bacio.

 

Carote esattamente sigillate.

 

(fratture)

III

Ma ancòra quale devastato sogno

Riviveva nelle vene… nell’ora

In cui la gola strinse e si serrò

 

Davanti alla villetta di Simona

Ch’era figlia d’un vice brigadiere.

Spegnemmo i motorini e fu quel lampo

 

Che c’invase di consapevolezza,

Quali antiche colpe, quale ferita

Immensa fino a lì c’aveva colti.

 

Scappammo dalle scale verso il cielo

Sottoterra della piazza, nella notte

In mille pezzi e poi la luna urlò

 

Un canto puro in forma di giudizio

Di nomi ormai spariti…erano i nostri

Scritti nell’occidente delle sere.

 

(vita delle)

(02)

humiltate exaltar

e non risparmia neppure se stesso

in questo puzzle di disagi personali

preludio di ogni suo pensiero

o azione stava precipitando

nelle malate ossessioni tramite

lana,

luna,

muro,

pianta

dei piedi nella vasca, deliquio

delle notti scivolando insanguinato

nostra natura vinta

nell’alba bianca di una città di mare

mentre continua (cinema) un grande vuoto

occupato dalle venature dei fogli di carta

che si spaccavano nei colori dell’aria

infiammando un silenzio mai così azzurro

s’abbatté sulle nostre schiene bruciate

l’arco di fuoco nel cielo, e gli uccelli

illesi dopo l’ebollizione dell’ Adriatico.

(nata)

(i cieli)

scroscianti

lapidi alla bocca

ombrosi

cieli oltraggiati

scaraventate

braccia

ai bordi delle giostre

astronavi

formiche

preghiere

una per una

uguali all’aria

aperte tra i fiumi

nel ritmo muto

delle diagonali

porte e dediche

sui muri della sala parto

in cui nasciamo

nello strappo dagli adulti

una cometa della fine

castelli di Greyskull

(milano)

3.

Catarsi

di una pagina

pupilla

sottratta

sussurrata nei vetri,

i morti che

guardano i morti e

fa davvero troppo caldo

per essere

ottobre

precipitato

dalle dita dei bambini

ponti e ferro

nella prigione

dappertutto del sole

nel

collasso

al tavolo

(dècadi)

1.

quello che c’era stato prima

la storia attraverso le cose

lo potevo conoscere dalla

gli avvenimenti e tutto ciò

prima della tua nascita

negli anni cinquanta la guerra

tutt’intorno le rovine le rovine

in mezzo alle rovine

nello stesso tempo però

un tempo in bianco e nero

non esistevano colori

ad espandere le case

che avevano sterminato

come se il passato non fosse

alla fine di maggio

quest’ansia non molla la presa

solo come unica fonte

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