di Diego Conticello
Pregevole nel complesso questa operazione editoriale portata avanti con tenacia e resilienza da Orazio Caruso e curata egregiamente da Grazia Calanna per i tipi di Algra Editore. I quattro autori presenti: Chiara Carastro, Antonio Lanza, Michele Leonardi e Pietro Russo nonostante la giovanissima età si contraddistinguono, ciascuno a suo modo, per compostezza formale e ritmica sebbene ancora non in tutti, come vedremo in seguito, è ben visibile uno scavo memoriale e soprattutto una maturità e una cifra distintiva realmente pregnanti.
Chiara Carastro
La poesia di Chiara Carastro ci appare ancora massimamente acerba, tuttavia in questa brevissima silloge non è possibile, se non per accenni o lampi, averne la completa evidenza per tracciarne un quadro complessivo.
L’impianto generale di similitudini e metafore appare ancora sin troppo elementare: «Le città di plastica sono ombrelli che mangiano/ pioggia. (pioggivori)»; oppure: «Imballami il cuore, ma non lo riempi», ed ancora: «perché mi hai vista stelo mentre mi sentivo paglia/ mi hai intrecciata e mi porti al collo»; «(vorrei prenderti il cuore, ma nell’impossibilità/ condividimi)». Lo stesso vale per i giochi di parole, costruiti ancora in maniera eccessivamente lineare, quasi immediata, senza che al filtro intellettivo venga permesso di limare quello sensoriale/percettivo: «faccio un gioco con le mani,/ che intreccio l’oro, loro, e, l’età.».
Tuttavia, come dicevo, talvolta le accensioni risultano azzeccate e un minimo più strutturate: «Il mondo è un turno di ruota, solo più breve/ e panoramico a caso»; oppure: «è così che cresci a vent’anni/ come un pozzo che teme la superficie.».
Presi questi ultimi passi come punto raggiunto non possiamo che augurarle quanto anni fa Lucio Piccolo consigliava all’amico e poeta Basilio Reale: «E se avessimo l’autorità e il potere vorremmo suggerirgli di sempre più discendere nel suo io, sempre più sceverare quella che è pura espressione, contrappeso di una invisibile carica spirituale, da quanto è impronta della moda corrente, futile gioco di temporanee tendenze.» (e si noti che vale oggi esattamente come cinquant’anni fa).
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Life Eye
(titolo in inglese per mancanza di fantasia)
alla stazione dei ricordi,
a far la fila a dire suo,
talmente alto da non vederne il riso
come a dire – ho già vinto.
troppo, io, fiore.
lo incontrai che fermava passanti come me
ed io non vedevo nessuno.
– Mi scusi sa che ore sono?
Non vorrei far tardi.
C’è ancora troppa gente che deve partire –
ma è sicuro di non aver preso un po’ troppo sole?
– E tu sei sicura di non aver preso
i compiti a casa un po’ troppo sul serio?
Il mondo è un turno di ruota, solo più breve
e panoramico a caso.
Se hai paura, non vedi che il suolo
e ovunque tu vada ha solo un colore.
Se invece sai credere e non guardi in basso indietro
il punto più alto del cielo
sei tu.
E a quelli che ti dicono che la vita è solo attesa,
lasciali vendere parole.
Attendere è vita, se vivi con chi con te
vuole aspettare.
la giostra se si incanta riparte
e ripartirà anche questo paese,
che ci vince tutti, giuda per sempre,
aspetta chi il panorama (vede)
spettacolo
rende.
paura di vivere
in foto abbiamo tutti paura di morire
il social gara a chi ride di più.
le regole stanno al gioco:
guardare e non sentire:
una risata è semplice.
da simulare.
dissimulare
la paura di essere finiti
anche a 20 anni.
diagnosi.
la malattia venerea del secolo
che fa trasfusioni di sangue e premura.
ma allora, ascolta, allora aspetta
connetti le tue dita alle mie,
contiamo assieme, a quattro mani
è più semplice.
allora, scatta, allora grida
recluta voci, recluta dita
per contare un minuto.
un minuto al minuto
in cui rompiamo le righe
righiamo gli schermi
se mi prendo scherno di te?
(vorrei prenderti il cuore, ma nell’impossibilità
condividimi)
Antonio Lanza
Poesia d’impianto sorvegliatissimo (come sottolinea bene Grazia Calanna nell’acuta prefazione al volumetto) quella di Antonio Lanza, che certamente spicca fra gli autori proposti per equilibrio formale e costruzione fonico-ritmica. E poesia soprattutto ‘civile’ che scandaglia le aberrazioni di questa presunta civiltà post-contemporanea (post-umana?) evidenziandone le storture e i meccanismi di fondo che soggiacciono a questo moderno e perverso gioco capitalista che l’autore, peraltro, vive quotidianamente nell’odiosa accezione dello “sfruttamento lavorativo”.
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Allarmi
Un diffuso stato di allarme, inudibile
perché chiuso nel buio dei polsi,
nei turni trascorsi
in solitaria: le lamentele,
le minacce dei titolari perché
gli incassi sono al di sotto
delle aspettative, la probabile
riduzione del personale; e poi –
anch’essi silenziosi
come leoni che vanno in disparte
a morire – negozi che abbassano
la sera le saracinesche per non
riaprirle più al mattino, e: ‘chiuso
per cambio stagione’, ‘chiuso
per rinnovo locali’, ‘chiuso
per inventario’ mentono per mesi (per decoro)
gli A4 attaccati in vetrina –
mentre
all’interno hanno svuotato gli scaffali,
la merce imballata – a monito degli increduli –
è pronta ad essere rispedita ai fornitori.
Manichini I
Manichini dall’aria pensosa, dalla
corporatura prestante, congelati
in pose svagate – manichini uomini
e manichini donne – chiusi dentro
larghe vetrate a far mostra di sé,
di borse, top, giacche, occhiali,
clutch, pashmine, scarpe, congelati
in pose innaturali – in piedi su piani
di rialzo, il loro sguardo ti scavalca,
si appunta ad altro, a qualcosa
di lontano, dietro le tue spalle,
imprendibile; e manichini longilinei
in pose spavalde, o provocatorie,
le mani a sfiorare i fianchi; manichini
dal collo più lungo della norma
o senza i tratti fisiognomici del volto,
il volto abraso, senza un segno
che da altri lo distingua, uniformi
teste metafisiche –
manichini bambini in pose di piccoli
modelli, assediati già da capriccio
e vizio, dal dovere di essere bambini;
manichini ancheggianti, con le frangette
sugli occhi; capelluti o calvi –
manichini dissezionati, dal pube
all’ombelico,
esposti in vetrina per mostrare
una mutandina maschile.
Michele Leonardi
Già pubblicato più di un anno fa su Carteggi Letterari, Michele Leonardi si distingue per una poesia molto figurativa, scenografica e musicale, frutto di una forma mentis cinematografica (lui regista già premiato per due cortometraggi).
Poesia costruita per apnee ritmiche, intrecciate per mezzo di enumerazioni ordinate e martellanti, consonanze articolate e rime interne incastonate con perenne senso sinfonico-armonico di fondo e con consolidata propensione all’ironia e al sottile gioco di parole.
Qualche caduta ancora di troppo, specie su lemmi antiquati e sull’ordine inverso sostantivo-aggettivo, che poco si confanno all’andamento moderno e musicale dell’intreccio ma con ottimi margini di crescita.
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Volevo venirti dentro
da quella sera in cui vendevi dischi
al banchetto del teatro, e mi tenevi già
sotto scocca. Poi, quando ti ho avuta,
volevo venirti in bocca, giungerti
nello stomaco, attraversarti la gola:
dissetarti, come si disseta nel diluvio
l’edera, arrampicatasi sul muro. Prima
di lasciarti volevo venirti in culo, ma
non me l’hai concesso. Penso spesso
a come mi saltavi addosso: quando
mi masturbo ti sogno sempre sorridente. La
priorità, oggi che sei perduta,
è che vorrei venirti tanto in mente.
La sola menzogna è l’uno, cui
tendiamo, già in embrione: le ginocchia
consunte, la comunione
d’intenti, le nozioni insistenti, i manuali
del savoir-faire, per
rinsaldarle. Tutte balle: la moltitudine
è parte dell’ago, passa dalla
cruna: nel cane che abbaia alla luna,
tre teste di Argo latrano assieme.
Si è per sé stessi la falce ed il seme.
Pietro Russo
Versi dell’attesa e dell’inciampo verbale-sintattico questi di Pietro Russo, ma già “scafati” all’ombra del magistero di Sereni, Petrarca e Dante. Una poesia che si fonda sulla sottolineatura dell’errore, del fallimento a stemma non solo individuale ma di ogni vicenda umana e, pertanto, collettiva. L’unica all’interno di questo quartetto di autori a possedere una profondità memoriale data non solo da una prospettiva storica più meditata ma anche da un evidente e macerato dolore esistenziale.
***
Aspetta. Il corpo però
non esita mai. Sangue che chiama
l’idiozia degli occhi. Guarda
la piena dei volti, cosa mi dici?
Cosa dice il corpo che non smette, cede
alla paura dei venti entrati come anni, cosa
dicono i sintomi, questa sera, non lo sappiamo.
Però aspetta, se vuoi. Non tardare.
Anche tu, lo so, lo vedi; l’urgenza
che preme alle pareti, il primo germe e il suo farsi
da parte, quell’assoluto
scorticato fino a diventare carne
viva di ogni mancante. Questo
accerchiamento militare: ma il cuore è un altro
luogo, è più distante, ora. E tu sei tempo
puro autismo del tempo, falcata mozza, balcone
cieco. E tu sei sempre quello
che non si compie.
Diego Conticello