Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 9) Constantin Veis

Constantin Veis

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“L’ozio è un’appendice della nobiltà” scriveva Democritus junior, meglio noto come Robert Burton, in quel rampicante d’erudizione depressiva che ha titolo “Anatomia della malinconia”. Eppure si danno ozi assai diversi, tanti quanti sono le cose che non vale la pena vengano fatte e quante le vite che occorrerebbero per disertarle. Enrique Vila-Matas, nel suo delizioso “Bartleby e compagnia” giunge molto vicino a cogliere il nucleo di questa dissenteria interiore, lo spreco ineffettuale che produce, nell’intimo dell’animo insolvente, la più magnificente delle opere immaginarie.
Talvolta però la contemplazione del capolavoro condannato alla perenne imminenza si fessura al confine membranoso che separa le immagini dalla materia di cui potrebbero essere composte; vengono così fuori schegge di universi immaginali, dardi che feriscono la quieta consumabilità dell’oggetto d’arte ridotto a merce. Come forma a priori della fruizione postmoderna la mercificabilità perturba le molecole dell’erratico meteorite artistico e lo riveste di parole e recensioni, modificandone la struttura a vantaggio della narrazione, mondo avulso o forse solo tangente al cosmo in cui l’arte e le sue spoglie mortali hanno sincrona scaturigine.

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Fu il caso dei fratelli greci (nati su suolo statunitense) Alex e Constantin Veis, che nel 1985 diedero neghittosamente vita a un long playing sotto la blanda descrizione di Fantastic Something. Qualcosa di fantastico, e ciò non valga esclusivamente come giudizio: “qualcosa” non è niente di specifico e “fantastico” è dove ciò-che-è e ciò-che-potrebbe-essere significano più o meno lo stesso, e di comune accordo mutano costantemente. Quell’lp, insieme a un paio di singoli e un ep postumo sono tutto ciò che hanno lasciato.
Ma Constantin, il meno nobile dei due, ha ceduto al richiamo della dicibilità ed è tornato sul luogo del delitto ben due volte, dando a nolo il suo principium individuationis alla più umile delle ambizioni: incidere due piccoli capolavori. Del primo vogliamo qui brevemente dire: “Memory-La” è il suo titolo, e di ricordo è pregno, e di fantasticheria, e di qualcosità.
Constantin è maestro di malinconia; da lì potrebbe istruirci da una cattedra ad honorem. Invece sembra che il suo animus scelga piuttosto come punto d’irradiazione il lettino d’un obitorio, sottoponendo alle nostre orecchie un corpo devastato dalla grazia, ricco di crepe da cui sgargiano le corolle variopinte dei fiori del bene. Membra esanimi che odorano di terra, pioggia, sorrisi dileguati nella nebbia del tempo, d’infanzia trascorsa dietro i vetri della vita quando fuori c’è il sole ma non l’amore.
Se qualcuno rammenta i Blueboy del compianto Keith Girdler assuma quella carezzevolezza di chitarra acustica come ph qui fisiologico, e sovrapponga indi la compostezza non casuale di archi suonati con consapevolezza classica e rugiadosa invasività. Un pianoforte timido e inassertivo ne irrobustisce il nerbo e ne squaderna le sobrie melodie per l’aere del crepuscolo.
Otto canzoni che, a differenza della band succitata, non si danno velocemente, e funzionano complessivamente meglio come cirrocumulo che come nuvola sparsa; più ampie e più vaste, meno acerbe e meno gioviali.
La voce, ariosa, come esalante da uno sfinimento esistenziale, volteggia angelicamente sulle composizioni, afferrandole col becco e conducendole a casa provenendo da un mito platonico. Come quello di Tom Sawyer, giusto?

Alessandro Calzavara


In copertina: memory-la (front cover, Constantin Veis).

Un pensiero su “Hidden Gems (a cura di Alessandro Calzavara) – 9) Constantin Veis

  1. Vi ho appena scoperti (Mark Tranmer di The Mongolfier Brothers mi ha segnalato il vostro articolo su Seventeen Stars) e voglio davvero complimentarmi.
    Un piccolo appunto però: la prima foto di questa pagina (per la quale devo nuovamente farvi i complimenti: Constantin Veis è davvero per pochi) è degli Aplaca Sports 🙂