Pasolini nella “Terra che non sa” – regia e coreografie di Sarah Lanza

di Marta Cutugno

“Ho viaggiato fino in fondo nella notte
Senza guardarci dentro
Senza sapere dove stavo andando
E alle mie spalle il giorno
Si stava consumando
Ed ho provato un poco di tristezza
Ma nemmeno tanto…”

Messina: dal 15 al 24 gennaio, alla Sala Laudamo, è andato in scena, in sei recite, “Terra che non Sa“, spettacolo di teatro-danza – produzione della Compagnia DAF-Teatro dell’Esatta Fantasia di Giuseppe Ministeri – inserito nella programmazione della rassegna “Laudamo in Città” 2015/2016. Attento ed elegante lavoro di Sarah Lanza, che ha curato regia e coreografie, “Terra che non sa” è seconda tappa della trilogia “Progetto Parola Pasolini” e si ricongiunge ottimamente alle intenzioni del primo titolo “Vento da Sud Est” diretto da Angelo Campolo (e qui recensito) lo scorso novembre. Oggi come allora, è occasione di riflessione con lo sguardo rivolto a “Teorema“, pasoliniano romanzo e pellicola cinematografica: diverso è il canale espressivo, medesimo è il sentiero.

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Al centro della scena incombe una grande clessidra dallo squadrato telaio coperto da una pellicola in plastica. Ai lati, pannelli neri proteggono le spalle ai protagonisti contrapposti in due schieramenti. Per primi appaiono i silenziosi ed ottimi narratori, Michele Falica e Antonio Vitarelli che fissano la clessidra e la azionano sfidando quel tempo che scorre veloce e tutto in una volta, con la sabbia in rapida discesa, poi nulla più ed è viaggio sensoriale. Nel fitto ed oscuro silenzio, suoni di gocce d’acqua nemica si accompagnano a lampi di luce in cui la realtà si mostra ed affoga. In sottofondo, ansimi, versi muti di affanno ed uno “shhhh” corale, soffocano ed incatenano.
Quasi nessuna parola in campo. Tutto è corpo come soggetto-oggetto che si scompone e ricompone, ed è musica nelle sapiente selezione della colonna sonora che, spesso, richiama i gusti personali di Pier Paolo Pasolini. Come in “Vento da Sud Est”, sul palcoscenico troviamo ancora la famiglia Banks: gli attori Luca D’Arrigo, Patrizia Ajello, Massimo Bonanno insieme alla ballerina Veronica Capodici, con eccellente espressività, interpretano ed incarnano il modello del nucleo borghese occidentale chiuso nel bigotto grigiore e nella fasulla frenesia quotidiana. Le originali coreografie che Sarah Lanza cuce egregiamente su loro celebrano il risveglio dal torpore del sonno notturno sulle note del Requiem di Mozart ripercorso in flagrante playback dal narratore Vitarelli. Lavano il viso, sistemano i capelli, fanno il segno di croce prima di colazione e si abbandonano ad apparenze di felicità condite da capricci.

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Alla loro sinistra i ballerini Alessio Bonifacio ed Ilaria Tartaglia rappresentano una coppia di africani e raccontano la difficile condizione del migrante, i dolorosi stenti, le paure, gli istinti e la poesia in un tempo che è lotta alla sopravvivenza: il gelo morale e l’indifferenza si compie nel tremore e perfetto movimento di Alessio Bonifacio, l’amore-odio per l’acqua che può salvare o uccidere si strugge nella sensuale danza di Ilaria Tartaglia. I loro due corpi sovrapposti si fondono, rotolano nell’amore e producono un seme che il narratore Falica offre ed innalza al cielo ed una nuova vita che è già in grembo. Da un lato, il vuoto e contraffatto delirio borghese che prende forma nello swing di Reinhardt, dall’altro la calma e straniera stasi d’amore verso la Terra che non Sa. I blocchi cromatici dei costumi – curati, insieme alle scene, da Giulia Drogo, con la collaborazione artistica di Simone Corso – catturano lo sguardo e focalizzano l’attenzione sui protagonisti: il nero per i due “testimoni”, il grigio tetro per la famiglia Banks ed il rosso per la famiglia africana.

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Lo spettacolo attinge trasversalmente dalle opere cinematografiche di Pasolini, da “La ricotta” ad “Accattone“, dal “Vangelo secondo Matteo” ad “Edipo Re” a “Mamma Roma” ricorrendo, per la colonna sonora, allo straniante Sublime Bach , al minimalismo musicale contemporaneo, alle sonorità ambient di Brian Eno per poi approdare, sul finale, al cantautorato italiano con De Gregori.
Parto, parto, partire, parto, partorire, parto per partorire“. Il viaggio simbolico prosegue con l’uomo zanzara che punge gli stranieri e, insieme a loro, tra una scacciata e l’altra, modella ritmi da body percussion. I genitori Banks aprono le braccia e diventano legnose croci protettive in cui imprigionano i loro figli mentre il vento da sud est torna a soffiare ed a scuotere tutto ciò che investe lasciando emergere frustrazioni, imposizioni, terrori. Con il vento, torna anche il forestiero che bussa forte ed incessantemente. I ragazzi Banks illuminano con torce quei corpi fino a raggiungerne visi e occhi, mondi opposti che si studiano e si mescolano. I narratori che, fino a quel momento, avevano mosso i fili da abilissimi burattinai, adesso, possono riposare a braccia conserte. Dietro la clessidra, i coniugi Banks dissolvono il tempo in meditazione fino a raggiungere il lato opposto del palcoscenico abbandonandosi alla posa dell’amoroso bacio assunta poco prima dagli africani. In questo nostro tempo “che non ha senso“, “L’infinito” di De Gregori accompagna il commovente finale e gli ultimi versi della canzone giungono a noi, per opportuna riflessione, più come un interrogativo: “Domani sarà tempo di cose nuove?

Domenick Giliberto fotografo

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