TAT − WE ARE BUT ONE a cura di Laura Liberale − 12) Valigie da pochi soldi e virus alieni

TAT (WE ARE BUT ONE)

—–Messaggio originale—–
Da: Laura Liberale
A: Claudia Boscolo

Oggetto: Valigie da pochi soldi e virus alieni

Senza titolo

“Che cos’è il corpo? (…) Mi è capitato spesso di pensare al DNA come alla vera forma di vita, forse un virus alieno, e agli esseri umani come ad arroganti ammassi di materia beffati per la perpetuazione del DNA (…) Possiamo noi creature fottere il programma del DNA? E potremmo forse riuscirci rifiutandoci di replicarci biologicamente? (…) Che cosa accade quando impediamo al corpo fisico di dispiegarsi secondo le informazioni di quella specie aliena che è il DNA? (…) Io uso il mio corpo come un laboratorio, per tentare di raccogliere dati utili.”[1]

“Il giorno in cui decidemmo che mi sarei fatto operare al volto e inserire delle protesi agli zigomi perché assomigliassero a quelli di Jaye, ci siamo messi di fronte allo specchio, in bagno, e abbiamo detto ad alta voce: ‘Questa è la faccia che hai naturalmente, grazie al DNA. Domani ne avrai un’altra, e nemmeno sai come sarà! Che strano. Nel giro di ventiquattr’ore questa faccia sarà sparita, e non sappiamo ancora come sarà l’altra’. Poi, con un’alzata di spalle, abbiamo pensato che non aveva importanza. Non ho avuto alcuna difficoltà a dire addio alla mia vecchia faccia. Grazie a questo processo si fa chiaro quanto il corpo umano sia soltanto una materia grezza, o, per dirla con le parole di Lady Jaye, una valigia da pochi soldi. Il corpo serve solo a trasportare il cervello, garantisce la mobilità e la possibilità di sperimentare attraverso i sensi, di viaggiare ed espandere la coscienza (…) Il corpo è soltanto un contenitore. Se vogliamo sopravvivere come specie, se vogliamo colonizzare con qualche speranza lo spazio e fare cose incredibili, dobbiamo rivalutare le modalità di funzionamento del corpo e comprendere che esso non è sacro (…) È tempo di abbandonare la preistorica accettazione del corpo umano così com’è, e progettare finalmente noi stessi.”[2]

Nel pastiche teorico di Orridge si ripete il tema del dualismo: DNA vs. “Materia prima biologica”, ovvero Codice vs. Testo di letturaMezzo di riproduzione (del codice). Ma anche Corpo vs. Sé coscienziale.
Il corpo, è detto, ha il valore che gli viene dalla mera strumentalità, dal suo servire a qualcosa: replicare il codice genetico eo scarrozzare il cervello e fornire un supporto percettivo.
Il corpo è un contenitore.
Il che implica che debba esserci anche un contenuto. Ma come intendere questo contenuto? “Mente”, come centro di raccolta e di elaborazione delle percezioni sensoriali? “Io”, come flusso di stati psichici unificati nell’esperienza dell’identità soggettiva? “Anima” come principio sostanziale? Orridge non sembra interessato a una definizione univoca: “L’Io della coscienza non è che un montaggio, un collage dimorante nell’ambiente corporeo”, e ciò che si monta è sempre suscettibile di smontaggio, che è appunto quel che Orridge s’impegna a fare da parecchio tempo, vale a dire la decostruzione dell’identità: noi non siamo, non dobbiamo necessariamente essere quel che i codici, i sistemi culturali, il potere ci programmano a essere. All’inizio tutto questo era convogliato con notevole violenza:

“Mentre la Gran Bretagna si faceva sempre più austera, fomentando disgusto di sé e ipocrisia, le mie azioni nei COUM aumentavano di ferocia. Trattavo brutalmente la mia carne. Nelle performance ero arrivato al punto in cui verbi come squarciare e bruciare erano intesi in senso letterale. Ero ormai privo di inibizioni. Mi sono masturbato su un cuscino di raso, vestito da scolaretta inglese, ho bevuto bottiglie di whisky, pinte di latte, siringhe di sangue, vomitato e leccato il vomito. Ho usato rose con le spine, ancora siringhe, lunghi chiodi arrugginiti, dildo, catene, ganci; mortificato carne e ossa in ogni modo possibile, usando ogni orifizio.”

In questo senso è da intendersi l’affermazione “Dobbiamo comprendere che il corpo non è sacro”: come rifiuto di una datità identitaria preconfezionata e intoccabile; come rivendicazione della libertà di scegliere e progettare configurazioni nuove, o più idonee, o più funzionali, o simbolicamente più efficaci, che si tratti di colonizzazione dello spazio o di normale vita sulla terra.
Se la propulsione alla metamorfosi non ha conosciuto tregua, è però anche vero che l’incontro con Jaye l’ha regolata su frequenze diverse.
“Quando abbiamo fatto l’amore per la prima volta io avevo 44 anni, lei 25 appena compiuti. Abbiamo aspettato un anno per essere sicuri di noi”. Profane valigie da pochi soldi sacralizzate dall’unione.
Il profeta del cambiamento costante, della liquefazione dell’identità, delle accelerazioni cacofoniche in spazi di devastazione all’improvviso scopre il tempo aureo dell’attesa, affinché il desiderio lieviti e panifichi in conoscenza.

 Nei dodici mesi successivi alla morte di Jaye, la prima cosa che feci fu di andare da un chirurgo plastico e dirgli: ‘Può darmi un’occhiata e fare ciò che è necessario per rendermi il più simile possibile a com’era Jaye al momento del trapasso?’. Così ci facemmo ridurre il seno, perché lei aveva perso parecchio peso (…) e operare al volto (…) Lady Jaye aveva un tatuaggio sul braccio sinistro, e all’anniversario di morte ce lo siamo fatti riprodurre. Ne abbiamo anche aggiunto un altro [il volto di Lady Jaye sul braccio destro]. Tutto questo per me significa che lei è stata assorbita nel mio corpo fisico.”[3]

Il corpo non può più essere terra di supplizio. Non da quando si è fatto tempio, sancta sanctorum contenente l’effigie amata. Le uniche ferite che può ancora scegliere di infliggersi sono quelle necessarie al sogno definitivo della somiglianza.
Somiglianza.
Viene in mente una poesia della Szymborska:

Chi di loro è duplicato e chi non c’è?
Chi sorride con un duplice sorriso?
La voce di chi risuona per due voci?
All’asserire di chi annuiscono cortesi?
Con il gesto di chi portano il cucchiaio alla bocca?
Chi ha tolto la pelle a chi?
Chi è vivo e chi è morto qui
impigliato nelle linee – di quale mano?
A forza di fissarsi nascono i gemelli.
La familiarità è la migliore delle madri
e non fa preferenze tra i suoi due pargoli,
a malapena ricorda chi è chi di quelli.

Due sposi anziani (la poesia s’intitola Nozze d’oro[4]) che, per la forza livellante della frequentazione quotidiana durata mezzo secolo, per la costanza dello specchiamento reciproco, finiscono irrimediabilmente per assomigliarsi (si incontrano nella somiglianza le differenze come tutti i colori nel bianco). Ci fu naturalmente anche per loro il tempo della diversità assaltata dal desiderio, il tempo giovane del depredarsi e donarsi, il tempo del fagocitarsi per diventare uno, ma esso è ormai finito.
Genesis e Jaye quel tempo sembrano non averlo mai visto iniziare a consumarsi, o semplicemente hanno saputo fare in modo che ciò non accadesse nei loro quattordici anni insieme. L’hanno vissuto non subendo la somiglianza ma agendola, “calibrandola”, “aggiornandola” allo scorrere dello stesso: si pensi a Genesis che, dopo la morte di Jaye, fa richiesta al chirurgo di quelle correzioni morfologiche che possano rispecchiare l’aspetto ultimo di lei; forse per “fissarla” una volta per tutte, è vero, ma nulla vieta di pensare che questi aggiustamenti sarebbero avvenuti comunque, progressivamente, da parte di entrambi, se Jaye fosse rimasta in vita, per fedeltà all’idea di una somiglianza “in divenire”.

 

Uno per il Desiderio
uno per la Gioia
uno per la Devozione
uno per la Cura
uno per il Coraggio
uno per la Visione
uno per la Metamorfosi.
I tuoi sette passi nuziali, Jaye.
Tu in abito maschile
io nella veste da sposa
dio-capro imbiancato e angelicato.
Noi, Sole e Luna, Regina e Re.
Noi Rebis.
Il mio zolfo e il tuo mercurio.
Io non ho mai voluto, Jaye, altro che consegnarmi a te
portare sulla pelle il segno della definitiva appartenenza
ripudiare la falsità degli specchi per vedermi solo nei tuoi occhi
impegnare la carne nel transito da me a te, da me a noi
approdare mano nella mano al primo risveglio da uguali
dilapidarmi in te e ricostruirmi in eccedenza
abbagliare gli dèi con la luce aurea dei miei denti
– noi, dall’antica ferita dimidiati e per le nuove ricostituiti
noi, i due volte colpevoli di eccesso –
riscrivere il mito, Jaye, inciderlo sul corpo.
Fino al giorno in cui il mito ti ha pretesa.
Io pongo il mio respiro in te, hai detto.
Io ricevo il tuo respiro in me, ho risposto.
Io pongo la mia parola in te, hai detto.
Io ricevo la tua parola in me, ho risposto.
Io pongo il mio occhio in te, hai detto.
Io ricevo il tuo occhio in me, ho risposto.
Io pongo il mio orecchio in te, hai detto.
Io ricevo il tuo orecchio in me, ho risposto.
Io pongo la mia mente in te, hai detto.
Io ricevo la tua mente in me, ho risposto.
Io pongo il mio piacere e il mio dolore in te, hai detto.
Io ricevo il tuo piacere e il tuo dolore in me, ho risposto.
Io pongo le mie azioni in te, hai detto.
Io ricevo le tue azioni in me, ho risposto.
Ci credevamo salvi perché interi
e oggi io non sono che il tuo kolossos
la pietra da cui tu, l’Oltrepassata, t’affacci per tornare.
Sono Orfeo, Jaye. Vengo dove tu sei soltanto per guardarti
soltanto per trasgredire una terza volta.

Laura Liberale

 

[1] http://www.acceler8or.com/2011/06/how-the-pandrogyne-confounds-hir-dna-interview-with-genesis-breyer-p-orridge-2003/

[2] http://suicidegirls.com/interviews/2512/Genesis-P-Orridge-The-Body-Politic/

[3] http://genesisporridgearchive.blogspot.com/2010_07_01_archive.html

[4] Da Discorso all’ufficio oggetti smarriti, a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, Milano 2004.

 

In copertina: Orfeo ed Euridice, di Antonio Canova

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