CONSONANZE E DISSONANZE / “Lettere della fine” (Vydia, 2015) di Nadia Agustoni

di Lorenzo Mari

Se tanti sono pronti con i loro distinguo – da esprimersi rigorosamente con la baldanza della pagina web – quando, per fare un esempio, Erri de Luca viene assolto sul punto della parola, perché il fatto non sussiste, ma allora neppure la TAV: non si può dire che sussista o che sia un problema, ma allora de Luca vende migliaia di copie di libri scritti in una lingua che non regge, e poi non piace né può piacere, ma allora giù a sproloquiare, dimenticando chi si alza la mattina, quando è ancora buio, per poter studiare, dedicando così al Libro le ore più sicure, scoperte in un allenamento da operaio, altra categoria che non sussiste né può piacere, ora che di certo è una classe, se poi è una classe, che più non studia – per diventare se stessa – cosa dire della parola che giunge, fortissima, da un’altra poeta operaia, in ascetica contemplazione al centro della cappella Suardi a Trescore Balneario (centro del centro del suo libro)… cosa dire?

Prima di tutto, qualche informazione elementare, come ad esempio il fatto che l’oratorio è di Lorenzo Lotto, ed è stato dipinto nel 1524 sull’orlo della calata dei barbari, dei lanzichenecchi. Comprende vite di sante. A guardarlo e farne parola poetica – alta e chiara – è Nadia Agustoni, di cui si diceva: poeta operaia. È una delle sue tante Lettere della fine.

agusto

Tuttavia, a parlare, attraverso la coscienza oltre frontiera della parola femminile – Adrienne Rich e Grace Paley, evocate dove uno forse meno se l’aspetta – è, adesso, una bambina migrante.

Non c’è follia, sostituzione di parola, opera, volto, in questo passaggio. Non si può imputare ad Agustoni l’esibizione di una condizione, perché, come lei stessa scrive, fabbrica non c’è parole. Non c’è il cristo polverizzato di Di Ruscio, forma del “tutto incarnato”; non c’è la “disincarnazione” della parola facile, da slogan di propaganda; non c’è la parola forte che non si è voluta fare indottrinamento, come ha detto – in piena contraddizione, quanto a visione marxista della società – il poeta Ferruccio Brugnaro parlando del figlio, ora sindaco di Venezia.

Fabbrica non c’è parole. Espressione, già compatta, di questo e di altro.

Presunzione di parola, del resto, non c’era neppure nel confronto tra Venerdì e Crusoe, nel libro precedente.

(L’asserzione? Sì, quella resta potente…)

Ed ecco che ora la forza sintattica, apprezzata nel Mondo nelle cose, sfuma, si fa orchestrazione più agile, e più lieve.  Capitano le rotture, gli sbreghi, e qui sono, con ogni probabilità, più laceranti.

Qui si contano le fini, ma anche i modi per ripartire, costruendo (o anche dipingendo, prima dell’arrivo dei lanzichenecchi, oppure ancora parlando…). Se i testi di Agustoni a Renata Morresi, autrice di una densa, intensa prefazione, paiono “mobilissimi mandala” a me paiono frammenti, ma: finalmente consapevoli di essere frammenti e quindi conchiusi e al tempo stesso capaci di giocare fra loro.

Non sono – come capita altrove – frasi smozzicate, piccole cronachelle, lampi di genio dove spesso del vero genio non c’è (…e lasciamolo al romanticismo che fu). Sono, piuttosto, il posto dove la fine si scopre, in ultima istanza, penultima: Agustoni è una delle poche voci, oggi, a poter citare impunemente Giuliano Mesa.

Ne nasce un invito, di petto, a leggerne l’ultimo libro: un invito che forse non può farsi ancora recensione, ma di certo si presenta, attraverso i lacerti testuali che seguono, come ineludibile.

 

La gioia era andare negli alberi
se vedi vicino chi vuoi bene –
le cose sentono i nomi, anche il tremore
dei vetri, il pomeriggio ascoltano
se parlasse il mondo.

 

[…]

l’abito una bozza di blu sul prato ma nella testa lei
                                  [sente strapparsi la morte e corre.

 

[…]

l’uomo che diventa una vite
i giardini coltivati e corda tiene
lo stupro l’aria muore le mosche –
oh! iddio che non salvi. 

il mercato nei cesti di rosso
strada di mammelle e vento
il cotone in cui sale spavento
non sai se è guardare.

 

[…]

l’ossicino che era un uccello
nella pioggia ascolti il piovere lontano
nei pini l’alfabeto di tua madre metà tuo –
il suo parlare quando cresce
nei fiori di casa.

 

gli anni sono cose viste i tavoli diventano obitorio gli altri parlano da parte a parte i figli bruciano i figli sono menzogne marjan barbara laleh guardano

 

angeli grassi sul soffitto e babele parla di nuovo l’uomo è lupo quando offre ci vuole luce a morire
                       [il male del colore

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