Epica dello spreco – Laura Di Corcia

Una nuvola aritmica e metafisica

Un esordio frontale questo di Laura Di Corcia, evidente sin dal titolo che unisce l’eroismo all’inutilità, il canto alla coazione, in una ricerca decisamente gnoseologica in cui i testi si dipanano come un’indagine filosofica, affollata di interrogativi, di metafore che anelerebbero a diventar simbolo, ma continuano ad arrovellarsi nei limiti del logos classificatorio. Alle prese con il confine tra un’identità incerta e la certezza del dolore (Il confine fra chi sono e chi non sono/è una palude larghissima,/una radura di acque di zolfo.), la voce tenta febbrilmente di fondare una verità su cui ritrovare l’advaita infantile (disintegrato dalla scuola della bicicletta:che cosa si prova a scoprire/che l’asfalto brucia la pelle?), di testo in testo costruendo gradini di una scala euristica che si rivelano comunque traballanti (Mi terrorizza questa piccolezza/quanto di macrocosmo/si può racchiudere in un atomo.).
E’ nella crudezza del mondo, con la pugnalata del cielo, il muro che altro non è che muro, le ranelle che sintomatizzano ed esibiscono la schizofrenia, anfibia, del divenire, che la necessità di un senso-radice si disperde, la verità o meglio l’aletheia si opacizza. I frammenti implosi dell’io, gli stessi rapporti amorosi, analizzati nella parte centrale del libro, si rivelano una inettitudine al quadrato, il mero tentativo di costruirsi un numero magico. In questa fuga dal dolore, resta possibile solo non soccombere alla sineddoche: ma vivere tutto come riflesso/(sopportare il gioco degli opposti), vettore peraltro che sembra subìto più che scelto se di unicità abbiamo bisogno, di Tasso e non di Ariosto.E’ in questa tensione tra epos e superfluo, tra desiderio di certezza e fluire caotico del reale che si gioca la dialettica del libro, ma soprattutto, sembra dire l’autrice, le singole, fenomeniche vite.
Apparentemente lirica, con una monodia in prima persona che sorregge tutta la struttura del libro, la scrittura dell’autrice rifugge da scelte metriche o prosodiche definite, rinvenibili a sprazzi nella mimesi di formule poetiche ironicamente rovesciate (sciorina versi indecenti/da farti tremare di nausea), affidando alla tensione del pensiero e delle immagini la forza del suo percorso; quasi una freccia volta a un obiettivo invisibile, inesistente ma non per questo meno dolente. Il lavoro di questa poesia non è un lavoro sulla parola, ma con la parola, che rileva per quanto di euristico, di comprensibile riesce a “formare”, o, se si vuole, a svelare. La capacità di utilizzare quasi magrittianamente le figurazioni – un surrealismo trasparente e proprio per questo più crudo e spiazzante (e del resto un rinvio a Magritte è palese nel testo: Le pipe non proferiranno più parola) – e di montare e smontare contemporaneamente i fondali delle metafore, è a livello stilistico uno tra gli atout della Di Corcia, che nella misura del verso lungo sembra trovare anche il suo respiro più adeguato, dove echi di Auden (la verità, vi prego, e non solo sull’amore) e riflessioni sui nostri “singoli plurali” prefigurano potenzialità notevoli, proprio perché peculiari.

 Viola Amarelli


testi

2.
Il confine fra chi sono e chi non sono
è una palude larghissima,
una radura di acque di zolfo.
Di notte, se stai in silenzio,
il gre gre di ranelle ti sale fino in gola,
ti si appioppa nel cuore
come un colpo di pistola.
E provaci tu a tenerle zitte,
quelle mezze belve,
a sfibrare il loro lamento di fango.
Tutto è di un liquido
che sfianca la materia
sciorina versi indecenti
da farti tremare di nausea.
Il fluido di stelle
è un mal di testa che non dico
un sogno di quelli
che puoi fare solo in aprile,
in mezzo alla notte,
come un sole d’agosto
che gli dici: no, grazie, è troppo.
 
3.
Che cosa si prova a non avere
più una mammella
da succhiare,
che cosa si prova a scoprire
che l’asfalto brucia la pelle?
Ricordo il mio stupore, da bambina,
che la bicicletta era una scuola dura.
Rimanevo a bocca aperta
sotto il cielo
prima ancora che nascesse la paura.
Le ginocchia sanno tutto,
conservano i segni, le scorticature.
Bisogna starle a guardare
con pazienza,
capirle a suon di carezze.
Che cos’è un ginocchio?
Un osso a punta,
che ti ricorda quel cielo
e tutto il resto che andava avanti
mentre tu eri ferma, infiammata.
Sappiamo tutti cosa c’è
sotto la pelle:
sputi e grida
Caravaggio e santi.

7.
Sul ponte si cammina bendati,
ma
i girini non ti saltano in braccio
per nulla, c’è un motivo se si allarmano
come cani nella notte,
se a distanza di tempo li ricordi
lucidi, tazzine di caffè
cesellate dal detersivo.
Io so dirti questo,
che ho camminato poco, subito mi sono seduta:
che nei piatti esiste ancora redenzione.
Ma allora spiegami perché
mi si sbriciolano le mani, dimmi che ne è
del verde dei cancelli, e dove finisce
l’imprecazione, in quanto spazio
si ribalta in preghiera:
se si tuffa,
se galleggia,
se albeggia
o il trapasso è immediato.
Ho gridato contro la collina
poi ho smesso,
non so davvero quanto
ci abbia messo,
ma
asciutto ora è il mio cuore.
La morte è una puntura
di un attimo, di un quasi nulla:
può capitare persino al bosco
di cadere in ginocchio.
  
23.
Ci provi a spostarlo verso i lati
se ci pensi mille volte hai tentato
di deviare il dolore.
Ma la sofferenza non viaggia in tangenziale
essa, invece, è il punto centrale
della circonferenza, l’asse
su cui si avvita la nostalgia
e si crea lo spazio: si fonda il settingII.
Per sfuggire al taglio del fato
che ferisce sempre nel mezzo
non resta che scontornarsi:
spostare al di fuori del cerchio
il perno, l’energia numerica,
rischiando di perdere brandelli di io
e aggirarsi per il mondo come eremiti
ma sciogliendosi nella sfumatura,
dove tutto diventa eco
delle cose che sono, che furono:
la preghiera fondante una città fantasma,
l’epica trasparente dello spreco.
 
28.
Chi l’ha detto che gli occhi
devono per forza girarsi,
chi ci dice che non possiamo dimenticare?
Le cose possiamo lasciarle senza contorno
senza l’abbraccio della parola:
il diamante che fissa il nucleo molle,
la violenza accecante della tettonica a zolle.

 

35.
È nel più piccolo dei microcosmi
che puoi trovare la salvezza.
Non sai vivere se non sai sprecare.

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