Qualcuno nella stanza comincia a parlare – Claude Esteban

(Claude Esteban (1935-2006) è stato un poeta, saggista, traduttore e critico d’arte francese di padre spagnolo. “Conteso” tra i due idiomi familiari, la sua scrittura è segnata dal sentimento doloroso di una divisione e di un esilio nel linguaggio, che costituisce la fonte stessa della sua vocazione poetica. E’ in uscita, per i tipi della Joker edizioni, Qualcuno nella stanza comincia a parlare, un’antologia di poesie e prose a cura e per la traduzione di Lucetta Frisa di cui anticipiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto della prefazione e una selezione di testi, V.A.)

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Une voix qui ne vient de nulle part

In questo verso Claude Esteban sembra voler tracciare insieme l’autoritratto della propria poesia e di se stesso: il poeta e la sua poesia non esibiscono un Io protagonistico, risultando entrambi inafferrabili, ineffabili e semplici al tempo stesso, talvolta quasi ingenui. Sono una voce che non viene da nessun luogo. Une voix qui ne vient de nulle part. (…)
Anche altri titoli della sua opera – Un jour à peine écrit, Morceaux de ciel, Quelq’un commence à parler dans une chambre, Le travail du visible – suggeriscono un’atmosfera calma, segreta e di attenta sospensione. (…)
Come afferma il critico Jean.Michel Maulpoix, Esteban, fin dall’inizio del suo percorso poetico, fa sua quella lezione di pudica sobrietà che percorre certa letteratura francese, da Pierre Reverdy a Philippe Jaccottet, un pudore che è soprattutto eleganza malinconica del porgere la voce e cantare, con fluide cantilene, i temi comuni del vivere e del morire. La luminosa impersonalità dello stile ha però una sua perentoria esattezza: la poesia non smette di parlare di fronte alla morte, non permette che le cose sfuggano e muoiano senza parola. Perché, come sostiene il grande romanziere tedesco W.G.Sebald: «È indispensabile, in un modo o nell’altro, trattenere le cose» .
In tutti i suoi scritti, Esteban, accorda prosa e poesia con naturalezza esemplare facendo defluire l’una nell’altra e la modulazione dei suoni sembra giungere sempre da “nessun luogo”. Per lui la prosa «non soffoca il ritmo del poema, ma dà l’impressione di una pausa del respiro in un momento di calma, nelle ore lente, in una camera dove riposa la notte». (…)
Paradossalmente, leggere Esteban, uno dei poeti tematicamente più malinconici del suo tempo, in perfetto accordo con la figura consueta del poeta lirico, è percepire l’effusione di un’impalpabile e amorosa joi (di provenzale memoria), di un movimento verso comunque vitale: «et c’est un peu de moi qui tombe / à travers le noir, j’existe / et je dis / que’j’existe, le noir recule». Questo “dire” contro il nero della notte non è contemplazione rassegnata del dolore esistenziale ma un continuo fare “esperienza viva” della malinconia, una melanconia quindi attiva e germinante.

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testi

Schizzi, ripensamenti, soli

Sette giorni da ieri,
contati come se
il numero infine chiuso
fermasse il tempo, lo obbligasse
a non scavare più la sua ferita,
sette giorni
attraverso gli anni, e questa voce
che improvvisa decide
che basta così e bisogna contare
in un altro modo, se si potesse.
**

Questa voce che giunge
da nessun luogo, ditemi come fare
per non ascoltarla, tutte
le cose si sono zittite,
prima le grandi, quelle
che ci ferivano, poi le piccole,
ed è nel silenzio della notte
dell’anima, la voce improvvisa
come uno spavento e poi come un’allegria
e poi la morte, semplicemente.

**

Datemi questo mattino, ancora
queste ore dell’alba
quando tutto ha inizio, datemi, vi prego,
questo muoversi lieve dei rami,
un respiro, niente di più,
e che io sia come
chi si sveglia nel mondo e non sa
ciò che è già morto né ciò che
morirà, datemi
appena un po’di cielo, o questo sasso.

**

Figlia mia, ci toglieranno
le catene, cammineremo, tu
ed io, sui prati, raccoglieremo qualsiasi
fiore, ne faremo, se vuoi,
dei mazzi, la città
sarà molto lontana e talvolta
degli uccelli ci narreranno la fiaba
di un re vecchissimo
che non sapeva più separare il giusto dall’ingiusto
e rideremo di noi, Cordelia.

**

Luce che va sempre
innanzi, io ti prenderò
per mano, sarà subito
più semplice, le cose
e la gente, le parole che induriscono
sotto la lingua, tutto
sarà trasparente per noi, luce
che non ha luogo, ecco che ti fermi
e anche il mio male
si ferma e tu mi aspetti.

**

Dietro lo steccato rosso
ci piacerebbe vivere e invecchiare
per tanto tempo, forse ci sarà
un uomo senza paura, senza quasi più
desideri e solo gli alberi
parleranno di noi, diranno la linfa
e la sovrabbondanza, l’immobile
moto delle ore e poi la morte
come una scorza molle, saremo là ad occhi
aperti, una vita davvero, dietro uno steccato rosso.

**

Una foglia che si strappa, tre
note sopra il silenzio, quasi
niente, com’è presto,
è forse il mattino oppure
la sera, non lo so
più, ho camminato così tanto,
adesso
respiro, mi risposo, tutto
è perfetto, il cielo permane
a piombo, e conto sette stelle.
**

Una donna nel sonno ha sorriso
e fuori il primo uccello comincia a dire
che è l’alba e questa donna
si muove appena, ha seni
da carezzare, credo,
per vivere ancora, un po’ di tempo ancora,
e io sono là, vicino a lei, come pietra,
e questa donna che sorride esiste, lontana.

Ebauches,repentirs,soleils

Sept jours d’hier, sept jours
comptés comme si
le nombre enfin clos
fixait le temps, forçait
le temps à ne plus creuser son entaille,
sept jours
traversant les années,et cette voix
soudain qui décide
que c’est assez,qu’il faut compter
autrement, si l’on pouvait

**

Cette voix qui vient
de nulle part, comment faire, dites-moi,
pour ne pas l’entendre, toutes
les choses se sont tues,
d’abord les grandes, celles qui nous
blessaient, puis les petites,
et c’est dans le silence de la nuit
de l’âme, soudain la voix
comme un effroi puis comme une allégresse
et puis la mort, simplement.

**

Donnez-moi ce matin, ces heures
encore du petit matin
quand tout commence,donnez-moi, je vous prie,
ce movement léger des branches,
un soufflé, rien de plus,
et que je sois comme quelqu’un
qui se réveille dans le monde et qui ne sait
ni ce qui vient ni ce qui va
mourir, donnez-moi
juste un peu de ciel, ou ce caillou.

**

Ma fille,on nous enlèvera
nos chaînes, nous marcherons,toi
et moi, parmi les prés, nous cueillerons les fleurs
quelconques, nous en ferons,veux-tu,
des bouquets, la ville
sera si loin et quelquefois
des oiseaux nous conterons la légende
d’un roi très vieux
qui ne savait plus séparer le juste de l’injuste
et nous rirons de nous, Cordelia.
**

Lumière qui va toujours
devant, je te prendrai
par la main, ce sera soudain
plus simple, les choses
et les gens, les mots qui durcissaient
sous la langue, tout
sera transparent pour nous, lumière
qui n’as pas de lieu, voilà que tu t’arrêtes
et que mon mal
s’arrête aussi et que tu m’attends.
**

Derrière la palissade rouge
on aimerait vivre et vieillir très
longtemps, on serait
un homme sans crainte, sans presque
de désir et seulement les arbres
parleraient de nous,diraient la sève
et le surcroît, l’immobile
mouvoir des heures et puis la mort
comme une écorce mouillée,on serai là, les yeux
ouverts,juste une vie,derrière une palissade rouge
**

Une feuille qui se déchire trois
notes sur le silence, presque
rien, comme il est tôt,
c’est le matin peut-être ou
le soir, je ne sais
plus, j’ai marché si lomgtemps,
maintenant je
respire, je me repose, tout
est parfait, le ciel dure
à l’aplomb, je compte sept étoiles.
**

Une femme a souri
dans son sommeil et dehors
le premier oiseau commence à dire
que c’est l’aube et cette femme
bouge un peu, elle a des seins
qu’il faudrait caresser, je crois, pour
vivre encore, un peu
de temps encore et je suis
là, près d’elle, comme
une pierre et cette femme qui sourit existe au loin.

da Percorso di una ferita (2006)

stringendo
soffocando la carne

il cubo
assoluto della stanza

È la pelle che ci serve da intermediario tra l’intimità della nostra carne e l’esterno del mondo.
Si emoziona al minimo tocco,vibra,ci comunica il brivido delle onde più impercettibili. E’ come se questo involucro si fosse indurito per tutta l’estensione del corpo. Non offre all’esterno che una superficie rugosa che palpeggio senza una reazione, estranea e lontana, vero avamposto contro ogni genere di sensazione. Non distinguo né il freddo né il caldo, temo che il minimo oggetto mi urti, che la più sottile lama mi graffi, mi ferisca senza provare dolore. Mi coglie lo spavento di essere consegnato a tutti gli affronti dell’esterno. Divento simile a quel dottor Vidriera così come lo inventò Cervantès, che temeva di andare in mille pezzi se un altro lo avesse sfiorato e si chiuse ostinatamente nel suo delirio. Ma io non deliro, io spio ogni minimo movimento e con un’attenzione intollerabile e sempre delusa. Per non soccombere a questa vigilanza parossistica, faccio ricorso ai miei ricordi, come se la memoria conservasse intatte la gioia della pelle quando la mano carezzava il velluto di una pesca o si azzardava a perdersi nella rotondità di un seno femminile prima che l’esaltazione dei sensi mi trasportasse nella sua dolce furia. Ma le immagini, diventate semplici rappresentazioni mentali, non ci delegano al massimo che delle impressioni visuali come se l’occhio,e lui solo, avesse il potere di ricomporre i momenti passati,cancellando dal quadro gli odori, i suoni, il tremito dell’epidermide, tutto lo spessore saporoso del reale. Ma se la pelle non mi propone che un carapace quasi morto, è, per contraccolpo, la pesantezza della carne che si ribella a darmi, un po’ contro i timpani e un po’contro questa mia povera gamba disastrata,dei gran colpi di scalpello, come per farsi ricordare da me, confermandomi che la vita cellulare in ebollizione, si esaspera contro la parete che mi opprime. E comprenda, per il bene e per il male, che sto vivendo ancora un po’.

Trajet d’une blessure (Farrago, 2006)

enserrant
étouffant la chair

le cube
absolu de la chambre

C’est la peau qui nous sert de truchement entre l’intime de notre chair et l’extériorité du monde. Elle s’émeut au moindre toucher, elle vibre, elle nous communique le frisson des ondes les plus infimes. Et cette enveloppe s’est comme endurcie sur toute l’étendue de mon corps. Elle n’offre au-dehors qu’une surface rugueuse que je palpe sans même qu’elle réagisse, étrangère et lointaine, veritable rampart contre toute sensation. Je ne distingue ni le froid ni la chaleur, je redoute que le moindre objet me cogne, que la plus fine arête me griffe, me blesse sans que j’en éprouve la douleur. L’effroi me gagne d’être ainsi livré à tous les affronts du dehors. Je deviens pareil à ce fameux “licencié de verre”, tel que Cervantès l’inventa, qui craignait de voler en éclats dès qu’un autre l’effleurait et qui s’enfermait durablement dans son délire. Mais je ne délire pas, j’épie le moindre mouvement avec une attention insupportable et toujours déçue. Pour ne pas succomber à ce paroxysme de vigilance, je fais appel à mes souvenirs, comme si la mémoire gardait intactes ces allégresses de la peau lorsque la main caraissait le duvet d’une pêche ou qu’elle se hasardait à épouser la rondeur d’un sein de femme avant que l’exultation des sens ne m’importe dans sa douce fureur. Mais les images, devenues pures représentations mentales, ne nous délèguent aux mieux que des impressions visuelles comme si l’oeil, et lui seul, avait le pouvoir de reconstituer les moments anciens, en effaçant du tableau les odeurs, les sons, les frôlements de l’épiderme, toute l’épaisseur savoureuse du réel. Mais si la peau ne me propose plus qu’une carapace quasi morte, c’est, par contrecoup, la massivité de la chair qui se révolte, qui donne, tantôt contre mes tympans, tantôt contre cette pauvre jambe endommagée, de grands coups de boutoir, comme pour se rappeler à moi, pour me rassurer que la vie des cellules bouillonne, s’exaspère contre la paroi qui m’opprime. Et je comprends, tant bien que mal, que j’existe encore un peu.

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