OUTSIDER TRADING / “Se io sono la lingua”. A.P.

L’uomo che trova dolce la sua patria non è che un tenero principiante; colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte; ma solo è perfetto colui che si sente straniero in ogni luogo.

Ugo da San Vittore.

Aller au bout du monde pour parler, ce qu’il pourrait faire chez lui, et pour voire des gens avant pour parler, et voir des gens après pour parler: c’est un voyage monstreux. Alors ceci dit, c’est vrai que je n’ai aucune sympathie pour les voyages.

Gilles Deleuze

 

Aldo Piromalli è il nome, il flatus vocis, l’autore dall’opera ai limiti dell’intangibile che condensa nel vento, nel vento dei tipi come lui, l’estrema radicalità di queste affermazioni, insieme a ogni estrema radicalità (che, infine, si annulla) del molteplice.

Straniero in ogni luogo, e dunque anche nella sua fuga, nel suo esilio. Dove A.P. si assottiglia, diventa minore, diventa quasi niente… Non pontifica, né si erge a giudice dei confini, come forse potrebbe fare, ma continua, semplicemente, a mandare lettere.

Viaggiatore stanziale ad Amsterdam ormai da decenni, A.P. vive dentro le parole di Deleuze – che scriveva: “i viaggi degli immigrati sono viaggi sacri” – e al tempo stesso fuori da ogni viaggio intellettuale, coerentemente con una figura di sé che riemerge prepotentemente dal passato, nei fotogrammi di Andermann, mentre a Castelporziano dedica la poesia “Affanculo” ai filosofi, ma non prima di aver zittito l’ormai proverbiale ragazza dei tanti cioè…

…Non prima, cioè, di aver tentato di ridare forma a una certa violenza, destinata a metamorfosare non tanto e non subito nel discreto fascismo delle stesse persone, gaudenti capitalisti dei decenni seguenti, ma in una forma di immediato nichilismo. Di botta e risposta. Di flame.

Sapiente e già folle, eppure mai stato veramente folle – sicuramente avvistato in giacca sulla spiaggia – interviene prima del minestrone, prima che crolli il palco.

Poi, recitano le cronache, è già scomparso.

Ritorna, nelle piazze e nei musei di Amsterdam, dove sembra che apparia ogni tanto. In qualche occasione dice poesia, o almeno così recita Wikipedia (che di solito non riesce a saperne molto).

Ritorna, poi, nel libro curato da Mattia Pellegrini e Giulia Girardello, Se io sono la lingua. Aldo Piromalli e la scrittura dell’esilio (Sensibili alle foglie, 2013). Il volume apre davanti agli occhi del lettore – espone! – le tracce di un incontro perseguito dagli autori, insieme all’artista spagnola Dora García, e da Aldo Piromalli stesso, proprio attraverso la reticenza e il rifiuto di A. P., e non a suo discapito.

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Incontro che mai s’invera eppure produce cinque sezioni: “frammenti autobiografici”, “l’attività poetica”, “dell’incontrarsi”, “del pubblicare”, “tavole e lettere di Aldo Piromalli”. Nonostante la diversità dei punti focali, le sezioni sono tutte costituite, in modo esclusivo, dal materiale inviato per posta da Aldo Piromalli a Giulia Girardello e transitato nell’opera di Dora García all’interno del progetto di performance e archivio intitolato “The Inadequate”, realizzato presso il padiglione spagnolo della Biennale di Venezia numero 54.

Giulia Girardello non risponde mai: negandosi alla pubblicazione o all’incontro e, attraverso questo passaggio, a ogni possibile negazione (aldilà della posizione dell’altro, di ogni altro), Aldo Piromalli scrive già tutto ciò che basta al testo, compone versi e tavole che sono già un’opera. Non è che Aldo Piromalli si limiti a differire la differenza: come ricorda Dora García nell’introduzione, citando il Paolo Virno di Grammatica di una moltitudine, Piromalli mostra che “nulla è meno passivo di una fuga, di un esodo”.

In prosa, Aldo Piromalli costruisce un’autobiografia indiziaria, la storia di “un personaggio chiamato: “le assenze””. Il continuo rifiuto e il perenne dileguarsi non gli impediscono, infatti, di scrivere anche, con lucida correttezza: “Ho già provato varie volte a scrivere delle autobiografie. E mi è anche riuscito ma solo in parte.”

In poesia, Piromalli realizza un altro assunto individuato come programmatico per la sua prosa, in un continuo gioco di specchi tra diversi generi letterari e diverse forme di segno (ricordando che tutte queste opere sono scritte a mano, nelle lettere, il tratto assume poi naturalmente l’andamento grafico delle tavole che chiudono il libro): “Avevo sviluppato un genere di narrazione che chiamavo “concreto” o “differenziato”. Quel narrare era tanto libero che ogni parola secondo me doveva essere forte intensa come un dipinto di svariati colori… doveva avere delle emanazioni… ogni espressione di quel linguaggio doveva assumere grande plasticità…. Doveva rendersi plasmabile… malleabile…”

L’intensità delle singole parole è costruita attraverso le frequenti enumerazioni di termini che sono apparentemente privi di forti legami sintattico-semantici tra loro: blocchi di sostantivi che, in verità, finiscono spesso per togliere un po’ di forza a ciò che, di fatto, emana con vigore (ma senza connotazioni: né vigore, né rabbia, né risentimento, né tantomeno follia…) in altri passaggi. Poesia di singolare bellezza, invece, dove la lingua si distende in cronache quotidiane ovvero quotidianamente allucinate, oppure nella chiarezza della verità psichica, ancora una volta, dall’esilio. Una poesia lontana, eppure certamente imparentata con l’afflato beat degli affanculo sullo spiaggia.

Revenant imperturbabile, sempre perturbante: Piromalli è oggi come allora un outsider di cui in pochissimi parlano, e nessuno si può fare carico. Google, a proposito, non mente, o almeno sancisce una propria verità, con i pochissimi risultati che emergono alla voce, effettivamente fuorviante, “aldo piromalli”.

Sia fatta eccezione, forse, per questo articolo del critico d’arte Lorenzo Barberis, su Margutte, dedicato, però, alla rivista “Poesia nella strada” e non, specificamente, a A.P. …

In ogni caso, non sono certo le disquisizioni dei soloni di oggi su Castelporziano, strumentali unicamente a un discorso di risulta sullo stato della poesia contemporanea, a tenere banco. Ancora una volta, è un piccolo mondo imbizzarrito e libero, a cavallo tra le discipline, tra poesia e arte, delicatissimo nell’approccio, a parlare di A.P.

Consacrando la bellezza dello stupore alla lettura e alla domanda, valida per tutte le esistenze di confine: “Se io sono la lingua”.

 

[A.P. 14 – 25/10/10]

“Non sa usare l’apparecchio fotografico
di cui è dotato. Deve chiedere aiuto
(informarsi) al fine d’impiegarlo..
c’è chi si lascia passare per barbaro
per guadagnarci sopra… piccòzza…
non vuole soccombere con un ago
conficcato in uno dei due organi
della vista… rimproverando
energeticamente… strabiliante…
caciaróne… correggendo…
rimbrottando… infiammazióne
della cornea… chi ce l’ha lunghe
chi ce l’ha corte chi ce l’ha arcuate
e chi ce l’ha tagliate via (amputate)
c’è un réndere lo scrutare della
realtà più complicato di quel che
esso in effetti implichi perché
degl’interessi da cui si è mossi…
viene redarguito dal commesso
perché sta riprendendo le immagini
delle gambe dei tavolini e del
pavimento all’interno del negozio
di prodotti della luce (in relazione
con) scèvro chètati anche il sopruso
è un concetto relativo e l’esistenza
un prèstito… arrecò scappatoie”

 

[A.P. – 10/11/11] Amsterdam, 2 novembre 2011

 

[…]

Un ulteriore problema è ricevere la sua posta nella località in cui mi trovo… la mia situazione qui è assai fragile… sono esposto ad ogni vento… Se c’è qualcosa nell’aria causato da messaggi particolari c’è sempre una reazione altrove… poi lei non sa di che mi sto occupando io, attualmente… Scrivo in varie lingue… usando un metodo sviluppato da me stesso… queste lingue non le conosco veramente… non so parlarle… ma so scrivere qualche parola… E poi invio messaggi… forse non agisco troppo in conformità con il resto degli strumenti messi a disposizione per le comunicazioni di massa… si renda conto che ne va di 45 anni della mia vita spesi nei Paesi Bassi…

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