di Alfredo Nicotra Lui, lei e l’altra, potrebbe essere questa la trama del romanzo d’esordio di Alessandro Garigliano, Mia moglie e io, se non che a indossare i panni dell’intrusa, in questo triangolo, non è un’amante avvenente ma una presenza sempre meno eterea e quanto mai pervasiva nell’intimità domestica di una coppia, la precarietà. Il dato non è nuovo. Sebbene la più prosaica disoccupazione ci aveva reso avvezzi ai furori della letteratura industriale, alle nevrosi dei suoi operai, per i quali le ragioni endemiche e fisiologiche del sistema e una bassissima scolarizzazione rendevano collaterale e per nulla straniante la loro preclusione al mercato del lavoro, la precarietà si dispiega oggi in tutta la sua specificità di componente di classe, coinvolgendo quanti si sono ritenuti illusoriamente estranei alla sua minaccia per merito di un cursus di studi che avrebbe garantito fatalmente un avvenire roseo sin dalla nascita, acquisito di diritto insieme a un corollario di valori e di ideali. Finito il sogno, ecco affacciarsi per la prima volta nella storia schiere di uomini e di donne a cui il futuro è stato sottratto, e di conseguenza anche il passato, svalutati nonostante la scolarizzazione e privi di quella solidità che la protezione di una famiglia agiata consentiva. Basterebbe questo a indicare la singolarità del fenomeno e il mutamento antropologico che va determinandosi nella società contemporanea. La precarietà, per quanto non lo si voglia ammettere, circoscrive innanzitutto una specifica classe sociale, il ceto medio, colto nell’apice del suo dissolvimento, venendone a insidiare la quiete sin dentro quello spazio protettivo che sono le pareti di una casa.
In modo inconsueto rispetto ai modelli diffusi e senza concedersi ai cliché di quelle figure piatte quanto bipolari, rinchiuse in un mutismo irrelato, che spesso popolano le pagine della letteratura del precariato, l’autore di questo romanzo registra il processo di dissolvimento nel punto esatto del suo farsi, traendo gli aspetti cognitivi di quest’esperienza di declino e illuminando i tratti più intimi di un’esistenza precaria.
La voce monologante di un personaggio spogliato anche del nome, che si descrive con le tinte di uno humor nero, ci accompagna allora durante le sue peripezie quotidiane, dietro il miraggio di un lavoro fisso, inerpicandosi tra le macerie del suo io e quelle non meno ingombranti di una società franata, lungo le strade di una città deturpata e aggredita da “commercianti banditi: padroni del suolo pubblico”. Lo seguiamo mentre attraversa in sella a uno scooter periferie sconfinate, forme di un’umanità sempre più degradata, gramscianamente ottimista e allo steso tempo vittima di una cocente rassegnazione all’inattività. E tuttavia, preda di “una rarefazione vagante”, ostinarsi ancora “a brandire principi”, valori per conto suo inscalfibili, “snobbando cibi indigesti e vivendo di soli ideali leggeri”, cavalleresco ed eroico.
Perso nel sadico girone dei mestieri (sarà carpentiere, impiegato in un ufficio di orientamento per il lavoro, libraio), si adegua a incombenze sempre poco attinenti alle sue velleità culturali e di censo, in una reiterazione compulsiva di occupazioni che mascherano quella beffa o scherzo linguistico che sono i contratti a progetto: impieghi fittizi dalla durata esigua, veri mostri uroborici atti ad escludere ogni ipotesi di avanzamento, ogni possibilità di crearsi un progetto di vita. Soltanto alla fine, quando la precarietà vestita delle sembianze di una Morte comica e grottesca verrà a pedinarlo fino a casa, sul punto di strapparlo all’affetto della moglie, si aprirà lo spiraglio da cui ricominciare a sperare.
Mescolando l’invettiva civile alla trama esile di un romanzo intimista, a volte ironico a volte drammatico, la rappresentazione di un tempo divenuto eterno è scandita pazientemente dal verbo all’imperfetto (come un nastro che raccolga e allo stesso tempo vanifichi ogni esperienza, svuotandola, appiattendola); tradendo, attraverso una circolarità narrativa che si sostituisce all’assenza di progressione nel racconto, le esigenze strutturali di un romanzo tradizionale. Se infatti ogni narrazione conserva una pretesa edificante che si schiude nella successione di eventi più o meno progressivi, assistiamo al contrario a una continua dilazione delle vicende, a una involuzione del protagonista verso una sconcertante e sconsolante deformazione.
Senza cedere al semplice ricatto moralista del contenuto, l’autore sferra una lingua porosa, teatralmente espressiva, una semantica armata per ostacolare il vuoto che avanza, per trattenere quegli episodi frammentari e parcellizzati che gli si offrono come surrogati della realtà. Ultima ma non meno necessaria pratica di resistenza. La parola. Dalla prima all’ultima pagina l’impalcatura di una prosa dal ritmo martellante sorregge il testo mordendo l’orecchio del lettore, col celato scopo di ricondurre la scrittura a quella sua concreta dimensione aperta, alla funzione orale e assembleare della lettura ad alta voce, distante dalla pratica divisiva di un estenuante e solipsistico intrattenimento. Per ricordarci che a questa generazione più che alle precedenti servirebbe “che qualcuno cantasse il nostro animo informe”.
Alessandro Garigliano, Mia moglie e io,
pp. 248, € 15, LiberAria, Bari 2013