Occhio al testo (3). Bartolo Cattafi: Qualcosa di preciso

di Diego Conticello

La poesia di Bartolo Cattafi è contraddistinta dalla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale: ne deriva una versificazione di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace perché sprigionante, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa. Qui indagheremo il testo eponimo tratto dalla raccolta Qualcosa di preciso[1]:

Con un forte profilo,

secco, bello, scattante,

qualcosa di preciso

fatto d’acciaio o d’altro

che abbia fredde luci.

E là, sul filo della macchina, l’oltraggio

d’una minima stella rugginosa

che più corrode e corrompe più s’oscura.

Un punto da chiarire, sangue

d’uomo, briciola

vile oppure grumo

perenne, blocco di coraggio.

Caratteristica stilemico formale preponderante in questi versi così cesellati è di certo l’analogismo ardito, la visionarietà quasi orfica e, al contempo, razionalissima, strutturata grazie alla giustapposizione di elementi disparati che creano abissali scarti, fulminei lampi di pensiero, estrose immagini plasmanti lucidi concetti. Assistiamo perciò ad un perpetuo movimento verso il fulcro delle cose, per estrapolarne un lume da riportare a galla, un ‘segno’ da mostrare alla propria coscienza, nell’illusione che questo possa provvisoriamente alleviare l’ansia – anche e soprattutto gnoseologica – incessante che attanaglia il poeta.

Questa lirica presenta passaggio abbastanza evidente da un colorismo ponderoso, evidente nelle prime raccolte[2], ad un lucore attenuato, quasi plumbeo; da una natura dirompente, sebbene estenuata, ad un’asettica impronta meccanicistica; da un accennato intreccio ad una raziocinante epigrammaticità (si noti l’abbandono del verso lungo e della costruzione polisindetica a favore del caratteristico uso della triplicazione aggettivale e della costruzione asindetica). Già il fraterno amico Giovanni Raboni registrava l’ansioso «passaggio, non brusco ma netto, da una prevalente figuratività a una prevalente figuralità, da un registro sostanzialmente descrittivo e narrativo a un registro sostanzialmente astratto-speculativo (aperto, con frequenza, a inflessioni oniriche e cadenze oracolari)»[3].

La spinta analogica di questi versi diviene pertanto talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpido poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni. Scemata la consistenza dell’oggetto, se ne perdono solo le qualità fisiche; la poesia ne guadagna però in spirito sintetico, ma anche in termini di oscurità dei significati. Questo non è necessariamente un difetto, essendo piuttosto il sintomo della grande potenza iconica che si intende affidare alle cose: esse in tal modo lievitano al grado di emblemi, di puri significanti che trascendono la realtà, motivandola.

L’ossessione per la mostruosità del reale (leggasi asetticità da alienazione), evidente nel caso del testo proposto, abbisogna per autoalimentarsi di immagini allucinate in cui la metafora diventa specchio del lato ‘perturbante’ che sovrasta la ragione. Le “cose” del mondo diventano così oggetti avulsi dal proprio sistema di riferimento, vengono de-contestualizzate secondo tassonomie eterodosse, nero frutto di una ‘geometria’ occulta. Il contatto caustico, igneo con l’oggetto, la creazione di vuoti quasi tattili, traslato di mancanze sul piano esistenziale, fanno pensare (e, più volte, i critici lo hanno sottolineato) all’arte oggettuale di Alberto Burri, un “materista” che – soprattutto con le Combustioni – si pone al di là della stessa avanguardia, coi suoi reiterati squarci nel corpo tangibile per ricavarne pienezze o folgorazioni di senso.

La lezione più grande lasciataci da Cattafi è pertanto quella di pensare sempre alla scrittura come “unione” (o scontro, o interazione, sempre interdipendenza) tra significante e significato e, ad essa, solamente ad essa, affidare la risoluzione delle lacerazioni prodotte dalla mancata conoscenza del reale. Da qui l’assoluta necessità della scrittura stessa, unica azione prometeica capace di conquistare un barlume minimo di verità, sebbene ciò comporti un discernimento solo relativo dell’infinita molteplicità del reale.

***

[1] Bartolo Cattafi, Qualcosa di preciso. Milano, Scheiwiller 1961.

[2] almeno fino a Le mosche del meriggio. Milano, Mondadori 1958.

[3] Giovanni Raboni, Prefazione a Poesie 1943-1979 (a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni). Milano, Oscar Mondadori 2001.

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