Cosa tra cose e cose è la memoria. Su Addio Mio Novecento di Aldo Nove

di Alfredo Nicotra

Cosa tra cose e cose è la memoria”, con questo verso di una poesia intitolata La fine dell’amore (ora in Parola plurale, a cura di Andrea Cortellessa, 2005) si potrebbe riassumere il cammino poetico di Aldo Nove da Fuoco su Babilonia! (2003) alla nuova raccolta Addio Mio Novecento, Einaudi, 2014.

E alla memoria, o meglio alla “fine della memoria: (…) la fine del senso del passato, di una continuità rassicurante”, come recita la quarta di copertina, è dedicata la raccolta che suggella il percorso poetico dello scrittore. Quella memoria “colma di prodotti” che è stata in maniera carsica la vena ispiratrice della sua opera: memoria degli oggetti, memoria degli affetti, e che adesso, a inizio millennio, l’autore sonda come l’ennesima tra le tante sopraeccedenze del consumo, come un surplus esistenziale in procinto di svanire.

Chi conosce Aldo Nove narratore sa quanto di scandaloso il Nove poeta abbia introdotto in anni recenti nel corpus della sua opera, ormai lontana “a dismisura” dalla pop-scrittura degli esordi. E Nove, che opera consciamente al di fuori da ogni modello, continua a rappresentare un hapax legómenon anche nella tradizione poetica italiana.

Già col poemetto Maria (2007), parodia dell’innologia mariana, il Nove poeta, mescidando misticismo e leggibilità oltranzistica dei versi, aveva compiuto una torsione tematica e stilistica sia dei moduli dello splatter e della rappresentazione cinica del quotidiano che dell’esposizione fenomenologica delle merci e dei prodotti presenti nelle sue prime prove poetiche, suscitando non poche perplessità tra i suoi lettori.

Parafrasando ciò che Giovanni Raboni affermò di Pasolini, si potrebbe ripetere che Nove è in genere un “poeta in tutto fuorché in poesia”, come dimostra l’incisione di una prosa poetica tra i lacerti narrativi da Woobinda (1996) alla Vita oscena (2010). Cosicché tra la poesia che si mescola alla prosa dei romanzi e le intrusioni della prosa nel verso, la testualità delle sue poesie rifugge dalla secca distinzione dei generi.

Con Addio Mio Novecento, che riprende e porta a compimento il tema materico e cosmogonico affrontato nella raccolta precedente A schemi di costellazioni (2010), l’atteggiamento disforico dell’autore nei confronti della propria scrittura e quindi dell’esperienza sembrano farsi ancora più radicali.

Anche i testi composti dal 2012 al 2014 si rivolgono alle “cose”, ossessione feticistica del poeta, ma nel momento in cui il poeta ne coglie l’irrimediabile svanimento (“mentre le nostre mani bruciano lontane / e non afferriamo più le cose”), e che egli archivia in un casellario di oggetti smarriti da una memoria ormai orfana.

La raccolta, suddivisa in due sezioni, quella omonima e Un matrimonio, e introdotta dal poemetto“Dall’abito, linguistico, dell’acqua”, sciorina un materiale autobiografico che Nove estrapola dai propri ricordi d’infanzia mischiandolo a una memoria ancestrale, sedimentata nelle ere geologiche del mondo:

Generazione su generazione, / in latte e pietra e vento, di guerra, / di selce o, silicio vuoto, / vuoto che si ampia a dismisura”.

Vi elenca le proprie intime suggestioni, ma senza eccedere con la prima persona, senza cedere al parossismo dell’autoreferenzialità, indossando al contrario un generico e indistinto “noi”, che coagula la storia individuale con quella mitica del cosmo, in una fusione panica quanto irreligiosa dell’esperienza minuta del singolo dentro la grande storia dell’esistenza.

(Il cibo che i miei genitori) “Il cibo che i miei genitori hanno mangiato / è ciò che un giorno è / diventato / io, altro/ cibo // inglobato, associato / alla coscienza che mangia / il creato che mi ha generato. // È questa parvenza / così uguale a tutto. Sono / e sono stato / una nuvola, un prato”.

(Addio Mio Novecento) “C’era prima di prima, un giardino pieno di luce / pieno di muri da scavalcare / e noi li scavalcavamo / e tutto questo aveva un senso / e il giardino era immenso / e i muri erano veri. // Non, soltanto, pensieri”.

Tuttavia, nella sua architettura, la raccolta si legge come una narrazione minima ed essenziale, dove ogni poesia rappresenta la tappa di una via crucis in cui la nascita del soggetto poetico procede verso il proprio amaro dissolversi nell’inesperienza del presente (“Noi sognavamo che era tutto vero, / ma eravamo solamente noi / la luce che ci si accendeva attorno, / ‒ è questo che è accaduto, / non so più in quale giorno”), nella testimonianza di un senso di irrealtà. Abbandonata dunque la merceologia che in Fuoco su Babilonia! si sgranava in un rosario di nomi e di brand, si percepisce un ritorno imprevisto al tragico da parte di Nove, il cui antico feticismo delle merci si rivolge ora agli oggetti più naturali e comuni (il Mare, il Tempo, il Sole, il Vento, la Poesia, la Morte, il Presente, il Futuro…), senza più l’ironia dolorosa e il sarcasmo a cui eravamo abituati.

(Addio mio Novecento) “Le cose ci piacevano. / Ce n’erano in un numero dicibile. / Come all’interno di un discorso noi, / le nuvole, le virgole. L’elenco / era il nostro orizzonte degli eventi. / Ai margini, il presente. In mezzo gli anni, / li chiamavamo i nostri. / Ed era nostro il tempo / vivibile. / I confini erano netti, / c’era la vita, // e poi la morte. Credevamo a questo”.

Nessuna concessione alla bellezza né il compiacimento per l’espressionismo linguistico in questi versi, ma una quasi brutale ingenuità che scivola a volte nella gratuità del costrutto o dell’associazione metaforica, come a voler marcare la vergogna del lirismo. Tuttavia, a questa predilezione per una leggibilità estrema, o a tratti ingenua, fanno da contrappunto il cortocircuito delle analogie, fino all’uso insistente dell’anfibologia, la predilezione per la duplice possibilità di senso di una o più parole, come a voler rendere inesauribile il significato sciogliendolo con un gesto arbitrario nell’ambiguità, per mimarne lo svanire o l’impossibilità di esaurirlo. È una poesia tendenziosamente sperimentale, colma di innesti e di citazioni, votata al montaggio di pezzi, indecisa, nel movimento di distruzione e ricomposizione, in una tensione tra forme compiute, con una prevalenza di ritmi endecasillabi, e forme recise, abbandonate al silenzio. Una poesia concettuale, performativa, volutamente astratta, in cui la parola è intesa come materia da rielaborare tra cut up e collage dai testi sacri e profani (“Tanto il futuro è passato. / È, come si dice, / già cotto e mangiato”). Al centro dell’opera non può che predominare la riflessione sul linguaggio e sulle sue possibilità espressive e rappresentative.

Come sua cifra stilistica, Nove predilige la parodia che innerva tutti i suoi testi. Qui nella loro evidente e abbagliante semplicità, le poesie non fanno altro che alludere a una forma che ad essi manca, metafora di una verità impossibile da pronunciare ma espressa per sottrazione persino dallo spazio bianco che circonda i testi: “Quello che manca alle parole / è il loro compimento. Così il tempo: / non può darsi tutto. E la vita, ugualmente. Ché tutto l’eterno è spavento / ma un poco per volta”. Nove disegna così dei monoliti kubrickiani, lasciati nello spazio del senso a monito dei suoi lettori. Eppure una forma di resistenza della “ferita eterna aperta” alla dissolvenza della propria esperienza permane nonostante lo scacco di una parola votata a lasciarsi assalire dal silenzio. E risuona, e canta.

(Il tempo) “Un’altra ora e ce ne sono state, / ce ne saranno ancora, forse meno / di prima, contenute nelle case / costrette nelle cose, e forse troppe / ne restano, di ore da riempire, // di ore già passate, // non aggregate, pezzi di giornate / a farne uno, un giorno per intero, / almeno uno, un giorno che sia vero: / ci basterebbe, credo, nel frastuono / iniquo d’ore, un giorno solamente. // È questo il nostro tempo? // È questo e non è nostro, / se scorre in acquitrini / e noi scorriamo a tratti insieme a lui / da soli e se ci ritroviamo è troppo, / davvero troppo poco, morti e vivi, / ‒ ma tu non farci caso, ma tu scrivi”.

Aldo Nove, Addio Mio Novecento, pp. 114, € 11, Einaudi, Torino 2014.

Questa recensione è uscita parzialmente rivisitata sul numero de L’Indice dei libri del mese, Luglio/Agosto 2015

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