Occhio al testo. Lucio Piccolo: Mobile universo di folate

di Diego Conticello 

Si inaugura con questo post una serie di riflessioni, specifiche ma agili, sui testi principali di poeti ritenuti imprescindibili, ma troppo spesso trascurati dalla critica ufficiale – specie nel campo dell’analisi testuale – all’interno del panorama poetico italiano. Con alcuni autori di area meridionale, si vuole inoltre approfondire il discorso sui testi in maniera più attenta e particolareggiata, per cui la ricerca verrà condotta su interventi dilazionati, per raccogliere un giudizio più ampio e completo sui testi ritenuti più importanti all’interno della loro produzione.

Inizio, non a caso, con Lucio Piccolo, forse il poeta potenzialmente più convincente tra quelli meno studiati (ne si nota la scandalosa assenza dalle principali rassegne e antologie critiche, oltreché dai repertori scolastici, sulla scorta di una serie di volute e snob-lobbistiche esclusioni mengaldiane che tanto, ahimé, hanno fatto scuola nel recente passato).

Propongo una poesia molto breve quanto ricercatissima dal punto di vista contenutistico-formale dal libretto d’esordio 9 liriche[1], non a caso molto apprezzata dal “padrino” letterario Eugenio Montale.

Mobile universo di folate

di raggi, d’ore senza colore, di perenni

transiti, di sfarzo

di nubi: un attimo ed ecco mutate

splendon le forme, ondeggian millenni.

E l’arco della porta bassa e il gradino liso

di troppi inverni, favola sono nell’improvviso

raggiare del sole di marzo.

Forse il poeta di Ossi di seppia pensava proprio a questa lirica nell’attribuire a Piccolo l’aporia husserliana della «contraddizione fra un universo mutevole ma concreto, reale, ed un io assoluto eppure irreale perché privo di concretezza[2]».

In effetti, lo stacco tra i primi cinque e gli ultimi tre versi mette in luce una contraddizione ‘cosmica’ fra l’imponderabile vastità di un universo in continua trasformazione (pensiamo alle violentissime correnti interplanetarie, alle collisioni meteoritiche, agli influssi delle macchie solari, all’ampia gamma di “raggi e onde”, alle nebulose galattiche dei più sgargianti colori, ma anche alle terribili implosioni delle supernove, ai precari equilibri gravitazionali, fino ad arrivare all’antimateria e, non ultime, alle teorie einsteiniane sulla relatività spazio-temporale) e l’infimo dettaglio, l’irrisoria porzione oggettuale che tuttavia, attraversata da un minimo bagliore di quel flusso eternante (e si noti la costruzione circolare nel poliptoto “raggi-raggiare”), lievita fino ad assurgere a simbolo dell’estrema caducità della condizione umana.

L’ansiosa apnea ritmica, che prende abbrivio grazie alle ripetute inarcature, alla complessa sistemazione fonica, soprattutto nei richiami delle assonanze e delle rime interne, contribuisce ad un forsennato senso di vertigine tipico dell’accumulazione barocca (pensiamo al procedimento spagnolo-seicentesco della enumeración caotica).

Lo stesso Lucio Piccolo ha voluto chiarirci questa propensione ad un particolare simbolismo trasfigurato a partire dalla quotidiana materialità:

[…] La mia è un’oggettività che può trarre in inganno, perché è un’oggettività dell’oggetto il quale è lungamente maturato nell’interiorità e quindi è caricato… ha una carica – la ‘parola precisa’ è questa – ha una carica di sensi, l’oggetto rimane la sua realtà concreta; ma l’oggetto per forza d’intensità – si può dire anche per forza ritmica – è elevato a simbolo. […] Insomma me la prenderei con quel punto di congiunzione dello spazio e del tempo che pare che esista, dicono che esiste. La fisica, la scienza moderna parla di mondi paralleli, di… di… materie capovolte e non so di quante altre cose che la mia ignoranza mi impedisce di citare con precisione. Ma è proprio questo, il senso di qualche cosa di altro, il senso… si potrebbe anche dire il senso del trascendente, se questo termine troppo filosofico non potesse indurre in facili equivoci.[3]

Pertanto si assiste ad una ‘discesa’ riflessiva dall’universale al particolare per mezzo di ripetuti richiami fisici dalla grandezza ‘astronomica’ degli immensi eventi galattici alla infinitesima apparente insignificanza quotidiana che tuttavia, “corrosa” come è la mente umana da quel timore d’infinito di marca leopardiana, finisce per simboleggiarne la fragilità insita nella trasformazione.

***

[1] 9 liriche. Sant’Agata di Militello (Messina), Stabilimento tipografico Progresso di Zuccarello, sine data, ma 1954. Ora in Canti barocchi e Gioco a nascondere. Milano, Libri Scheiwiller 2001.

[2] Eugenio Montale, Prefazione a Canti barocchi e altre liriche. Milano, Mondadori 1956 e 1960; poi in Sulla poesia. Milano, Mondadori 1976, pp. 65-71; Il secondo mestiere. Prose 1920-1979 II (a cura di G. Zampa). Milano, Mondadori 1996, pp. 1905-1912.

[3] Vanni Ronsisvalle, Il favoloso quotidiano, sceneggiatura e script del film-tv su Lucio Piccolo (documentario girato nel maggio del 1967) , in «Galleria» 3-4. Caltanissetta-Roma, Sciascia luglio-agosto 1979, pp. 72-95.

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