Il Garofano rosso di Vittorini

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel primo anno di attività. Sebastiano Addamo su Il Garofano rosso di Vittorini  (pubblicato il 1 ottobre 2014).


di Sebastiano Addamo

Elio Vittorini

Il Garofano rosso di Vittorini

Il personaggio Silvestro di Conversazione in Sicilia, giuntovi appena da Milano, di Siracusa dà notizia quasi svagata:

“il posto dove ero nato e di dove quindici anni prima ero partito, una mia stazione della vita”.

Sembra una memoria rimossa, Infatti ne riparte subito dopo, ritrovandosi contento di “non essere rimasto a Siracusa” e invece a Vizzini dove arriva con la ferrovia secondaria, viene colto brevemente ma essenzialmente, nel suo “odore di carrube”.
In Elio Vittorini (tranne forse la Milano di Uomini e no), non si stabilisce con la città quel rapporto osmotico che vivono i personaggi di Vitaliano Brancati con Catania. Di più lo sollecitava la vitalità primitiva della campagna, l’odore di polvere delle strade, la sorprendente architettura dei paesi, la spinta dell’erettile vagabondare che è la dimensione de Le città del mondo.
A guardare Vittorini sulla base degli appunti de Le due tensioni, non si può non scorgere uno iato tra la forma della sua scrittura narrativa e la sua progettualità culturale. Peraltro, è tale contraddizione, del tutto interna alla dinamica del Vittorini, che costituisce la sua singolare specificità.
Il romanzo cittadino di Vittorini è Il garofano rosso, nell’ambiguità di quella consistente inconsistenza dei suoi giovanili personaggi che però non guardano la città che è Siracusa, la quale nei loro confronti (e dunque anche nella prospettiva da cui si colloca lo scrittore) agisce come neutro sfondo.
Le notazioni non sono mai paesaggistiche o di colore, semmai tendono a designare rapidi squarci direi di costume, come i “caffè” nei quali

“si tendevano le orecchie ad ogni voce d’avvocato che discuteva di rimpasti ministeriali, dimissioni, eccetera”.

Il tempo storico del romanzo è quello del delitto Matteotti e della marcia su Roma, ma in realtà la dimensione politica, si può dire, costituisce una sorta di a priori, quasi di basso continuo, in ogni romanzo di Vittorini.
E tuttavia, Elio Vittorini, per me, resta legato a Siracusa. Lo conobbi nell’unico modo che nella confusa realtà del dopoguerra era possibile per chi, come me, non conosceva nessuno: mandando un manoscritto. Ebbi risposta quasi due anni dopo, e poiché non potevo uscire di casa perché stavo male, venne lui a trovarmi nel paese dove abitavo. Alcune notizie di quello e di altri incontri, le ho registrate nell’introduzione al mio romanzo I mandarini calvi, apparso con Scheiwiller nel 1978; qualche altra notizia si trova nel libro Racconti di editori, sempre con Scheiwiller.
Dopo quel primo incontro, ebbi a rivederlo successivamente a Siracusa, mi avvertiva preventivamente del suo arrivo, ci vedevamo. Fu lui, peraltro, a farmi conoscere Leonardo Sciascia. Poi Leonardo ne scrisse sul “Corriere della Sera” a comprovare l’isolamento siciliano: avere notizia di siciliani da Milano, da Elio Vittorini. Un disagio, non solamente geografico, che però è continuato. Per esempio, l’ultimo recapito di Angelo Fiore mi fu possibile ottenerlo da Firenze, ad opera di Geno Pampaloni al quale lo avevo richiesto.
Andavo a trovarlo nella casa dei suoi genitori, dove non entrai mai poiché preferiva uscire. Invece di prendere l’autobus, gli piaceva adoperare la barca che traghettava i passeggeri della Borgata (dove era la casa) all’isola di Ortigia. Talvolta sedevamo al Caffè della Posta, di fronte al porticciolo. Forse per guardare il mare, che però da lì mancava di una qualità fondamentale: l’estensione; forse non tanto il mare in sé, quanto il formicolio delle barche, l’affaccendarsi degli uomini. Fu lì che mi preannunciò l’uscita, nei “Gettoni”, del libro di Leonardo Sciascia: Gli zii di Sicilia. Soprattutto gli piaceva il primo dei racconti. Un’altra volta, da poco era uscito il libro di Carlo Levi Le parole sono pietre, come scherzando, con la sua voce scherzosa e mormorante, mi disse:

“Quel che di più si vede, è la pancia di Levi che ballonzola tra le righe”.

Parlava poco di letteratura o di letterati. Lo interessava camminare e guardare, chiedermi della Sicilia, delle condizioni in cui si viveva, che avventura si aspettasse chi intraprendeva la strada della letteratura.
Era schivo, appariva poco nei rotocalchi, perciò passava anonimo nelle strade e nei bar. Non frequentava la libreria che a quel tempo era una sola, in via Maestranza, dove qualche volta erano transitati i personaggi del Garofano.
Una sola volta nei nostri incontri ci fu un intermezzo per così dire paesaggistico. Volle andare nel vecchio quartiere della Giudecca, quel dedalo di ombre e viuzze strette, di facciate umide e sgretolate, di bassi quasi ciechi. Vittorini aveva la memoria dei particolari minimi, rintracciava qualche portico, qualche silenzioso cortile. Ricordo una volta che ero andato a trovarlo a Milano, nella sua casa lungo i Navigli. Mentre ero in attesa guardavo qualcuno dei Morandi alle pareti. Pur con il populismo di alcune sue pagine, la pittura privilegiata restava quella del silenzio e dell’elegia. Sorrise quando glielo feci notare.
In quel tempo insegnavo in un liceo di Noto. Non mi chiese del barocco, bensì di un vecchio che accudiva un bar di cui era proprietario. Lui stesso volle descriverlo, un po’ compiacendosene, nel retrobottega, dove vigilava sulla vendita dei dolci, vestito di un lungo camice grigio e tra l’ombra emergeva un volto spettralmente bianco sormontato da due baffi lunghi, ritorti, color tabacco. Gli interessava quell’intreccio di ombra, di bianco, di rossiccio. E la voce. Forse per via di qualche intervento chirurgico, l’uomo non parlava, bensì emetteva strane urla gutturali e irritate che si stampavano lugubri nel silenzio.
C’è un aneddoto che indirettamente conosco nella sua equivocità. Forse mi venne narrato, forse ebbi a leggerlo. A Siracusa era giunto un giornalista, e intrattenendosi con Vittorini gli parlava dei ragazzi di Siracusa che il giornalista trovava particolarmente rumorosi e inurbani.

“Sono stato uno di loro” brevemente Vittorini mormorò.

Pare venisse rilevato un alto tasso di demagogia in quella battuta, e invece, considerando l’episodio più tardi con Leonardo Sciascia, convenimmo che ben altro Vittorini avesse inteso richiamare, la spasmodica vivacità, la potenzialità che sciaborda e straripa, tenacemente attraversa fatiche e scacchi, talvolta coagula, oltrepassa i limiti che la storia, più che la geografia, ha imposto ai siciliani.

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