(Lipsia 1952) Altalenare: oscillare su un'altalena / Barcamenarsi tra idee opposte

Poeti, Santi & Navigatori: 3. Quello che resta da fare ai poeti

foto di copertina: (Lipsia 1952) Altalenare: oscillare su un’altalena / Barcamenarsi tra idee opposte

di Lucia Tosi

Essere originali e ritrovar se stessi sono, per Umberto Saba, due condizioni strettamente relazionate di cui la prima è l’effetto e la seconda la causa: chi si fa guidare non dal bisogno di riconoscersi, ma dal solo desiderio dell’originalità, che gli impone incessantemente di non dire mai quello che altri hanno detto, se fosse necessario, non solo non ritroverà mai se stesso, ma nemmeno dirà nulla di nuovo. Saba scrisse il pensiero, qui riassunto, in un breve articolo del 1911, rimasto sconosciuto fino a dopo la sua morte, dal titolo Quello che resta da fare ai poeti, originariamente destinato a “La Voce”, che si rifiutò di pubblicarlo. D’Annunzio era al culmine della fama, i Futuristi muovevano i primi passi (è dell’anno successivo la pubblicazione su “Lacerba” del Manifesto tecnico della letteratura futurista), ma il vero innovatore, in quel contesto, mi appare lui. D’Annunzio diceva volentieri quello che altri avevano detto, ma con abilità di plagiario, non facendo risuonare con grazia e gentilezza e trasparenza le parole che furono d’altri, ma tutto inglobando, masticando, digerendo, per poi rivomitarlo come nuovo e originale; i Futuristi azzannavano la lingua, i chiari di luna, menavano schiaffi e pugni alla letteratura, autoreferenziali, destinati a lasciare un flebile segno, se non fosse per il saltimbanco Palazzeschi, malamente e ingannevolmente futurista, che, con Lasciatemi divertire, dimostrò di aver capito “tutto”, subito.

Che cosa resta da fare ai poeti? Più di un secolo dopo: che cosa resta?

Sono convinta più che mai che ai poeti resti da fare ancora tutto: che resti loro l’infinito della conoscenza, purché ciò che fanno si renda chiaramente strumento di indagine e sia fatto nei più diversi, ma non infiniti modi della ricerca.

Perché definisco infinita la materia poetica, ma non infiniti i modi per cantarla?

Perché non tutti i modi hanno reale tenuta poetica. Non hanno tenuta poetica le sperimentazioni stilistiche volte a rappresentare sensazioni, attraverso il fascino dell’irrazionalità, dell’incomprensibile e fascinosa irrazionalità che cattura il lettore, ma lo lascia solo di fronte a dubbi interpretativi sul significato di versi che non gli offrono un punto di vista minimamente condivisibile, come se gli parlasse un marziano delizioso e armonioso, oppure urticante, ma ugualmente incomprensibile.

Se guardiamo anche molto lontano, ai momenti nei quali un poeta o un gruppo di poeti, ravvisabili in una scuola, diedero un impulso al cambiamento, noi incontriamo delle costanti: l’innovazione linguistica, prima di tutto, l’introduzione di materiale poetabile sino a lì non impiegato, l’arcigna reazione della guardia vieja, una successiva reazione nelle forme e nei contenuti, nel tentativo di arginare il disastro causato da dei pazzi scostumati. Così, dai neòteroi in poi, abbiamo appreso che la poesia si arricchisce di sempre nuovi campi di indagine, ma non lo fa sempre e solo andando avanti, in un avanti sordo e testardo, fine a se stesso: accoglie il nuovo, ma con quello spirito di “onestà” artigianale (non di artiere: di artigiano) che predicava Saba, che ci indicò Pasolini, perché il nuovo deve essere ogni volta prima di tutto un modo nuovo di stare nel mondo, di cercarlo, di ascoltarlo, di farlo parlare, di richiamarlo nella storia. Ci furono nella nostra storia letteraria occidentale momenti caldi e momenti freddi: chiamo momenti caldi quelli dello snodo, dello svincolo illuminante, intellettuale e passionale, freddi i momenti anche se dotati di una loro bellezza, tuttavia di solo apparente ricerca e ascolto: spesso, questi, laddove la novità e la ricerca e la funzione quasi demiurgica del poeta sono poste in primo piano.

La canzone Al cor gentil…, predicata ovunque come il manifesto degli Stilnovisti è una poesia bruttissima, cerebrale, zoppicante, che nega, nel momento in cui vorrebbe affermarlo, lo statuto della dolcezza. Ad essa replicò il povero Bonagiunta che si beccò, per questo, nella controreplica di Guinizzelli, praticamente della quaglia:

Volan ausel’ per air di straine guise/ ed han diversi loro operamenti,/ né tutti d’un volar né d’un ardire.

Il poeta di ricerca diceva al vecchio artigiano che se non capiva la novità, peggio per lui e che stesse zitto (non è un quadretto attuale? E quante volte non si è riproposto nella storia?). Gli sviluppi successivi premiano lo Stilnovo, giustamente: poesia di classe, linguisticamente raffinata. Ma vorrei ragionare su un punto interessante del sonetto d’invio del lucchese: quando egli esprime, ironizzando, nella terzina finale, lo sconcerto di fronte all’eccesso di intellettualismo, che mal si coniugava, a sua detta, alla poesia d’amore, riscontrato nella canzone-manifesto di Guinizzelli: era una gran stranezza pensare di trarre un testo poetico a forza di scrittura (traier canson per forsa di scrittura: dalle Sacre Scritture). C’è una vasta riflessione critica su tale affermazione: senza aderire a questa o quella posizione, e anzi un po’ decontestualizzando, prendendola larga, possiamo però vedere qualcosa di ancora attuale nella battuta del tradizionalista e modesto artigiano della parola Bonagiunta. Assumiamo scrittura per scrittura: ne esce un invito a non eccedere con astrusità: la poesia deve essere prima di tutto presa di coscienza delle umili possibilità di conoscere ed esprimere la realtà attraverso la lingua, deve gettare un ponte tra chi sa guardare più lontano, o in profondità, e chi non sa dove e cosa guardare. Una poesia che ancora oggi si fondi sullo schiaffo a un pubblico che si evolve e che si è evoluto enormemente rispetto all’epoca dei malpancismi poetici degli anni Sessanta, molti dei quali ancora (allora) arenati nelle sabbie di tanta ingenuità simbolista, di tanta scrittura automatica psicotropica, ha spinto quel pubblico al disgusto: peggio ancora: lo ha indotto a credere che un’arte casuale e così priva di segnali di riconoscibile appartenenza, dal caratteristico paroliberismo brassicologico, poteva farsela da sé, senza bisogno di poeti. Da lì ad avere qualche milione di poeti, di cui circa il 99% è rappresentato da domenicali, e di questi domenicali l’80% è domenicale estremo, il passo è stato brevissimo: l’ordinatore ha fatto il resto: che potrà apparire pure un tic o un tormentone, ma se fate due conti, le cose stanno così. Per gettare un ponte ci vuole una distanza: e la distanza è l’onesta scrittura, la tecnica, un mondo enorme da raccontare: cose che non sono di tutti.

Coloro che hanno fatto della ricerca linguistica e dello scardinamento della lingua poetica tradizionale (dove con lingua intendo linguaggio e temi e orizzonti) il motore principale del loro fare poetico hanno lasciato un segno quando li animava, contro ogni ragionevole dubbio, una fiducia nell’inesauribile potere conoscitivo della poesia e della parola. Diversamente, furono risucchiati in se stessi, e i loro epigoni con loro, quando il presupposto era lo sprezzo della tradizione, delle parole che altri avevano usato, di ogni linguaggio che avesse una storia: per certo la nostra avanguardia storica e la neoavanguardia e ogni altra forma di avanguardia che, dopo aver guardato oltre l’orizzonte (dell’Arte), non sia ritornata sui suoi passi ad annunciare che dopo quell’orizzonte c’erano altri orizzonti, che i tartari, che sembrava di scorgere in lontananza, altri non erano che miti pastori armati di vincastri. Gli altri, frattanto, avanzavano lentamente coi carri, guardando ora lontano, ora godendosi il panorama.

(continua)

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