Orfeo (III), Poema a fumetti, Dino Buzzati

di Daniela Pericone

Anche Dino Buzzati propone la sua versione del mito di Orfeo ed Euridice pubblicando nel 1969 per Mondadori Poema a fumetti, un libro originale e innovativo, un’opera che non è un romanzo né un fumetto vero e proprio, ma contiene i caratteri di entrambi, a metà strada tra letteratura e pittura.

Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Il mondo invece crede che sia viceversa e le mie pitture non le “può”  prendere sul serio. […] Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.
(Dino Buzzati)

Attraverso la grafica di più di duecento tavole l’autore del Deserto dei Tartari reinterpreta in chiave moderna la vicenda di Orfeo e la sua discesa nell’Ade, suggerendo che l’inferno può assumere mille fattezze, può nascondersi anche a Milano e il poeta vestire i panni di un cantante e chitarrista di successo di nome Orfi. Varcando la soglia di una porticina in via Saterna Orfi si avventura a cercare la sua Eura perduta in un regno dei morti presidiato da un fantasmatico diavolo custode e popolato di figure femminili conturbanti e tutt’altro che disincarnate.

Sapevo in partenza che Poema a fumetti, libro fatto più di disegni che di parole, rischiava di avere, anche da parte dei critici, strane accoglienze. […] Parecchi mi hanno rimproverato l’eccessiva frequenza, nelle pagine, di ragazze nude disegnate con accento libertino. Io l’ho fatto per tre motivi: primo, la nudità mi sembra il costume più adatto nel mondo dei più; secondo, disegnare dei nudi è più gradevole e stimolante che disegnare delle persone vestite (almeno per me); terzo – e qui direte che mi do la zappa sui piedi, ma perché essere ipocrita? – pensavo che l’ingrediente fosse producente agli occhi del pubblico.
(Dino Buzzati, in “Corriere della Sera”, 8 febbraio 1970)


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Buzzati ha usato matita e colori per dare consistenza e visione al suo modo di concepire l’aldilà, un mondo dei morti esattamente speculare a quello dei vivi, perché “ognuno porta con sé il proprio mondo”. Ha immaginato un luogo dove il tempo non esiste, dove “il rimpianto è la malattia del posto”, un paesaggio d’ombre senza emozioni, dolori, paure, senza speranza e pur tuttavia privo di quel moto d’angoscia che stringe ogni essere vivente alla prospettiva della fine.

Quando Orfi ritrova la sua Eura le due dimensioni si fronteggiano, si oppongono, e si mostrano inconciliabili. Il giovane, portatore dei desideri e delle emozioni dei viventi, è persuaso di esercitare sull’amata un’attrazione cui non si può resistere. Invece i ruoli si ribaltano, sarà Eura a condurre il gioco. Dinanzi alla fretta e all’irruenza di Orfi, lei oppone il tempo immobile dell’oltremondo, la coscienza che le favole non esistono, e infine la scelta di restare tra le ombre come unica condizione possibile, quella che impone la separazione, ineluttabile, definitiva, dei vivi dai morti.

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Il “Poema a fumetti”, insomma, non è un fumetto. Difetta in velocità, in “suspence”, in ritmo narrativo. Ignora quella simultaneità , quell’automatismo nelle immagini per cui un vero fumetto è sempre un film misteriosamente spiaccicato sulla carta. […] Buzzati ci ha dato un racconto serio, meditativo. Una fola letteraria che è insieme un elogio della vita, un giudizio universale e una variazione sul viaggio di Orfeo tra i morti. […] Qualche simbolo si lascia decifrare. Buzzati ci vuol dire che la vita è così bella, così grande da prestare le sue fantasie anche alla morte. Vivere è illudersi che il nulla non esiste. Ma poi, a un tratto, con una trovata finale, un anello-lapsus,il gioco si ribalta. Buzzati si congeda lasciandoci in un dubbio che è insieme di speranza e di orrore. Forse davvero la morte e il nulla non esistono. Siamo tutti vivi, e forse lo saremo per sempre, ma questa grazia è orribile. Forse saremo sempre vivi perché da sempre, in realtà, siamo già tutti morti senza saperlo.
(Cesare Garboli, in “Il Mondo”, 4 dicembre 1969)

Dino Buzzati Traverso nasce nel 1906 a Belluno. Pur attratto dalla letteratura, si laurea in giurisprudenza. Viene quindi assunto nel 1928 nella sede milanese del Corriere della Sera, presso cui lavorerà per tutta la vita, come cronista prima e redattore poi. Nel 1933 Buzzati scrive il primo romanzo, Bàrnabo delle montagne, dalla vena fantastica, che si conferma nel romanzo successivo del 1935, Il segreto del Bosco Vecchio. Nella primavera del 1939 si reca in Etiopia come inviato speciale. Ammalatosi di tifo, è costretto a tornare in Italia. La notorietà gli giunge nel 1940 con il romanzo Il deserto dei Tartari. Prosegue con una intensa produzione: nel 1942 esce la prima raccolta di racconti, I sette messaggeri, e tre anni dopo  pubblica una fiaba per bambini, illustrata con i suoi disegni, La famosa invasione degli orsi in Sicilia (1945). Adatta per il teatro alcune novelle, come Sette piani, ribattezzato Un caso clinico (1953), da cui verrà tratto anche un film. Si dedica intensamente anche all’attività di pittore: la sua prima esposizione personale si tiene nel 1958, lo stesso anno in cui vince il premio Strega con l’antologia dei Sessanta racconti. Scrive anche libretti per opere musicali e realizza scenografie di spettacoli teatrali. Nel 1963 pubblica il romanzo Un amore. Muore a Milano nel 1972.

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