Toulet, sortilegio lontano (II), di Gesualdo Bufalino

di Daniela Pericone

 

Copertina Toulet Le Controrime

Paul-Jean Toulet, Le Controrime, a cura di Gesualdo Bufalino, Sellerio editore, 1981

Copertina: incisione di Edo Janich

Toulet, sortilegio lontano

(II parte introduzione di Gesualdo Bufalino alle Controrime di Paul-Jean Toulet)

 

[…] Certo, quando leggiamo, di Tolulet: “Puisque l’avenir se rétrécit autour de moi comme une plage que le flot dévore, laissez que je me console avec le passé”; o anche “C’est dans le passé qu’est tout notre bonheur; et le mien me torture de sa grâce évanouie”, un accento familiare ci tocca, anche se appare subito chiaro che a lui manca la spaventosa capacità di respiro dell’altro (la rivincita dell’asmatico!) per potersi calare senza capogiri nei precipizi dove il Tempo coniuga i suoi assoluti misteri. Vero, Toulet nei suoi commerci con la memoria non cerca spesso altro che la nota solitaria del compianto, dello struggimento immediato; né si accontenta per lo più che di qualche interrogazione melodiosa (“Ne vous en souvient-il?”), e nondimeno poche volte un poeta ha saputo intenerirsi con la stessa cautela tremante sui paradisi e gli inferni dell’infanzia:

Rêves d’enfant, voix de la neige,
et vous, murs où la nuit
tournait avec mon jeune ennui…

o frugare con pari dolcezza fra i dagherrotipi di una felicità lontana:

…Le temps était couleur de pêche.
Sur le Saleys qui dort
un oiseau d’émeraude et d’or
fila comme une flèche.

Poiché Toulet ha conosciuto, o finge d’aver conosciuto, la felicità. In un sentiero di bosco, dove Alina rideva senza motivo, e la cicala levava il suo grido “triste e vermiglio”; davanti a un caminetto i cui bagliori vestivano di rose una nudità desiderata; per strada, se due occhi lo fissavano, color del tempo o dell’avventurina; in una fiera di provincia, a braccetto con Zo’; in un letto spagnolo, con Diana; su un omnibus, con Nane; sotto un pergolato, con non so chi:

Un Jurançon 93
au coluleur de maïs,
et ma mie, et l’air du pays:
que mon coeur était aise.

E non solo dalle donne e dall’amore, ma dalle stagioni e dai paesi ha saputo ottenere il privilegio di qualche istante memorabile. Ritornano nel suo ricordo le lunghe nuotate nel Gave, all’ombra di un ponte; le inzuccherate pietanze della vecchia Detzina, le domeniche di miele nel villaggio, armoniose di Angelus; le dune delle Lande, dove cresce la “troppo peritura” pervinca; e gli azzurri Pirenei; e la molle riva dell’Ile Maurice, simile a un inflesso braccio d’amante; e gli alberi che vi crescono: filaos, goyaves, flamboyants, sotto i cui rami tubano colombe e siedono Giovanne dagli occhi di tenebra; e Algeri, Londra, Saigon, Siviglia… Ore, cieli, suoni, sapori, sui quali tutti egli ama illanguidirsi con la voce, a ripensarli nella loro dilatazione remota. Poiché in Toulet, come in ogni altro flebile collezionista e imbalsamatore di foglie e memorie morte, il tempo della felicità è l’imperfetto.

La polluzione dell’Eden sopravviene presto, secondo una parabola che ricalca percorsi canonici nella lirica degli ultimi cent’anni. Le metafore della fiamma e della rosa accompagnano, stazione dopo stazione, il decomporsi del desiderio in disinganno. Fiamme che si spengono, rose che si sfogliano. L’eros, in Toulet, si nutre volentieri di queste braci delicate. Soprattutto la fiamma lo affascina. Sia che covi coperta, proponendo nell’inimicizia di due colori un riconoscibile stemma carnale (ne riparleremo); sia che simuli nel suo palpito intermittente gli alterni diluvi e sfaceli del sangue; sia, infine, che si consumi in un grigio mucchietto di cenere:

Puisque tes jours ne t’ons laissé
qu’un peu de cendre dans la bouche…

È l’ora della verità: quando cadono le maschere, e una luce senza misericordia investe il viso spogliato della vita. Ed è anche il Toulet più vero, crediamo. Quello che nelle ebrezze più facili indovina un tremito, un presagio di fine, una caduta triste. Perché si ha un bel dire. Ma il brio di Toulet è, sì, persiflage amoroso, volatile spuma sull’epidermide dell’anima; ma è anche rictus e nevrosi. Dietro cui si nasconde male un buio canovaccio di delusioni, di sordidi “ébats” sorpresi dal livore dell’alba, di camuffamenti inani, di guerre ogni volta perdute. Oltre che una sotterranea misoginia. Sì, la donna, in Toulet, falsa ingenua di paese o adultera in veletta, è spesso, quasi sempre, la nemica. In un giardino, su un marciapiede, in una camera a ore, Lilith o Faustina o Badura, unico identico viso e corpo di creatura sotto mille nomi, ricomincia ogni giorno il suo gioco morbido e crudele. Piange, ma le sue lacrime sono “vénéneuses”, “menteuses”; parla, ma “sa lèvre même est un outrage”; mente, anche nuda, “sans rougir seulement”; tradisce, perfino nel sogno, mentre il poeta al suo fianco veglia. Così è stato, così sarà:

Les fruits n’ont pas changé d’odeur, ni mêmement
les femmes de mensonge, où Thétis d’amertume.

Che rimane allora del nostro illuderci d’essere in due una cosa sola sotto lo stesso lenzuolo? Ahimé, “d’être identique, c’est un rêve des dieux”. Conviene rassegnarsi, salutarsi per sempre. L’ultimo gesto di lei è un braccio levato contro uno sfondo di tenebra:

Ce soir tu me diras adieu,
ombre que l’ombre efface.

Si torna soli. Salvo che non si chieda soccorso e compagnia al nero serafino della droga. Ma l’estasi dura poco, e porta con sé un corteo di terrori. Dalla nebbia di fumo che fluttua nella stanza , “robe d’or suspendue aux jardins du silence”, mani e urla si alzano e ci chiamano, invisibili occhi ci fissano e ci condannano.

Ora le notti si fanno sempre più lunghe e spaventate. Si veglia, ascoltando nel silenzio il battito del proprio cuore, o le parole del vento fra le case, del mare sulla scogliera. Piove, come se sanguinasse. Frattanto, col corso di un gran fiume nero, volano gli anni. Ogni rintocco di pendola sembra suonare a morto per la giovinezza che se ne va:

On rit, on se baise, on déjeune…
Le soir tombe, on n’est plus très jeune.

È il momento di chiudere, come grida una voce al re che beve. Ci aspetta sotterra l’ottuso sonno del nulla. Seppure, chissà, la morte non sia un fuoco sopito, il seme di misteriosi voli, un principio, una trasfigurazione:

Et la source, noire, où t’accueille
une fauve clarté,
une étrange félicité,
un rosier qui s’effeuille…

Stringiamo le fila. Poiché, se non è stato difficile ripercorrere, spesso con le sue stesse parole, il cammino sentimentale e lirico di Toulet, resta da chiedersi fino a che punto le Controrime autorizzino una lettura tanto scopertamente consequenziaria, e se non convenga piuttosto giudicarle una disiecta manciata di pietruzze colorate, bazar e crocevia di contraddittorie culture (Anacreonte, Orazio, Catullo, Ronsard; e gli epigrammisti alessandrini; e i poeti Tang: tutti insieme innestati su un alberello di gracile eleganza parigina. O altrimenti: malinconie e musiche verlainiane, corrette da un Laforgue che frequenta Colette e legge “La Revue Parisienne”).

Ebbene, che le Controrime nascondano un disegno di poema, o comunque ambiscano a taluna ambizione architettonica, nessuno sarà disposto a sostenerlo (si pensi, e contrario, alle solenni arcate su cui riposa il tempio delle Fleurs); ma è altrettanto difficile negare che lungo quelle pagine, legandole in solidale compagine, più di un filo colorato si dipani, sulla scorta del quale è possibile pedinare echi comuni, ricorrenze tematiche, invarianti predilette. Se n’è già indicata qualcuna nelle immagini della fiamma e della rosa. Ma altri motivi ed emblemi soccorrono: l’esibito vagheggiamento di tutto ciò che evapora, si scioglie, si dilegua; l’insistenza con cui vengono interrogati i lamenti delle fontane, il brusìo della pioggia, il tubare delle colombe, ogni rumore voluttuoso e triste, il ritorno implacabile di due tinte, nero e rosso, nella cui guerra, o forse viziosa alleanza, abbiamo già visto adombrarsi dolorose metafore di eros e morte. Il poeta ne ricava variatissimi effetti, secondo una macchina complicata di interazioni e rimandi, per cui avviene che ora fiotti alle sponde del quadro un mare di tenebra, con al centro una porpora che langue; ora trionfi lo squillo del rosso, insidiato però da una macchia, nero pistillo, oscuro giacinto di piacere e pena.

Non c’è controrima, si può dire (ed è strano che non sia stato notato), in cui i due colori non appaiano, aggiungendo ogni volta un tratto più risentito al tragico pudore di un’anima e alla serietà della sua sofferenza: il rosso che è rubino, sangue, vampa, desiderio; il nero che è notte, sesso, paura, peccato…

La casistica è di un’abbondanza che, a censirla, si rivela perfino imbarazzante, e sulla quale non insisteremo più che tanto, timorosi di scambiare un abbastanza consueto topos letterario per un rigurgito del profondo,  nel solco di una critica che, dietro Mauron ma senza le sue sensibili sonde, ha cercato e voluto trovare, nelle isole dei testi, tesori quasi sempre inesistenti.

E nondimeno, se anche di un topos si tratta, al suo eccesso di presenza, in Toulet, non sarà stato certo  estraneo il ricordo delle ore d’oppio e d’insonnia accanto al fuoco; e un gusto criptosadico del sangue; e l’ossessione di un pube nero in un corpo roseo di donna (così siamo tentati di leggere la controrima I e la cobbola X). Come che sia, è dal calcolato atteggiarsi di questi prismi e vapori di luce e di buio che sorge a distendersi nei passi brevi del suo movimento il minuetto funebre di Toulet. E se anche è vero che il lettore, nell’istante stesso in cui viene persuaso, non sfugge a un sospetto di ubbriacatura e di dolo, come se bevesse un vino medicato o si lasciasse abbagliare da un artifizio di lanterne magiche; è altresì vero che in quelle contratte cadenze egli torna a rinchiudersi senza rimorso, certo di respirarvi, venuta attraverso inesplicabili feritoie, un’aria di chissà dove.

C’è infine il Toulet che gioca. Col linguaggio e la sintassi, innanzi tutto: un linguaggio di impasto singolare che anticipa odiernissime contaminazioni, nei suoi scarti veloci dal preziosismo all’argot; una sintassi ellittica, slogata, la quale (Du Bois dixit) “joue pour elle-même comme les draperies de certains dessins de maîtres semblent soulevées par la brise matinale”. È lo strumento di un virtuoso, la risorsa estrema di un funambolo che sia anche un poco un pagliaccio, e che ami, per meglio spargere sale sulle sue ulcere, accompagnare ogni esercizio mortale con un calcolatissimo tonfo sulla polvere del plateau.

Non è il Toulet più inutile, dopo tutto, ove si ammetta che l’ordito dell’opera ricava proprio da un tale contrappunto di commozione e di scherzo le sue linee di forza.

È però il Toulet più difficile da dominare, chi si provi a tradurlo. E infatti il traduttore di Toulet deve pungersi a molte spine: ambiguità, ludismi verbali, inversioni, dissonanze: Quando poi, come nel nostro caso, si tenta la versione integrale (senza  escludere i componimenti dove i ghirigori di parola e di senso appaiono più scoraggianti), si rischia, per voler riprodurre tutto il paesaggio Toulet, di trascinarsi dietro anche le zolle più grevi. Rischio non più alto, beninteso, di quell’altro che avremmo corso isolando qualche fiore derelitto e raro dal contesto umoroso di cui si nutriva. In obbedienza a un analogo scrupolo di fedeltà (un’esteriore e condannata fedeltà, com’è fatale) si è voluto abbracciare, per così dire, un partito di retroguardia, che accogliesse, cioè, i rigori del ritmo, e non si vergognasse – con le licenze d’uso – delle rime.

Solo così, osiamo credere, un’ombra almeno delle scansioni originarie è possibile che sopravviva al trapianto; e con essa un po’ di quel profumo d’epoca dove per noi, eretici eredi, è senza esitazione da riconoscere il polveroso ma fertile regalo della poesia di Toulet.

Contrerimes

LI

On descendrait, si vous l’osiez,
D’en haut de la terrasse,
Jusques au seuil, où s’embarrasse
Le pas dans les rosiers.

D’un martin pêcheur qui s’élance
L’éclair n’a que passé ;
Et la source, à son pleur glacé,
Alterne un noir silence.

L’Angélus, dans le couchant roux,
Comme un parfum s’efface.
Lilith, en détournant sa face,
A tiré les verroux.

*
Dalla terrazza, se l’osaste mai,
scenderemmo alla soglia,
noi due, laggiù dove il passo s’imbroglia
nel folto dei rosai.

D’un martin pescatore, mentre piomba,
dura il lampo un istante;
la fonte alterna al suo gelido pianto,
un silenzio di tomba.

Nei fuochi del tramonto alita un’Ave
come un profumo, e spira.
Lilith non guarda più, ora: si gira
e serra l’uscio a chiave.


LIII

« Enfin, puisque c’est Sa demeure,
Le bon Dieu, où est-Y ?
« Chut, me dit-elle -. Il est sorti,
On ne sait à quelle heure.

« Et de nous tous le plus calé,
Je dis : Satan lui-même,
Ne sait en ce désordre extrême
Où diable Il est allé. »
*
“Insomma, è questa la Sua casa, o no?
Dov’è mai il buon Dio?”.
“Zitto – mi fece lei – . È andato via;
a che ora, non so.

Tanto che di noi tutti il più versato,
il Diavolo in persona,
ignora, in mezzo a tanta confusione,
dove diavolo è andato”.


LIV

Tout ainsi que ces pommes
De pourpre et d’or
Qui mûrissent aux bords
Où fut Sodome;

Comme ces fruits encore
Que Tantalus,
Dans les sombres palus,
Crache, et dévore ;

Mon cœur, si doux à prendre
Entre tes mains,
Ouvre-le, ce n’est rien
Qu’un peu de cendre.

*
Al par dei frutti d’oro
e d’ostro vivo
che si sfanno alle rive
ove fu Sodoma;

e dei frutti che in fondo
ai cupi stagni
Tantalo ora disdegna,
ora pretende;

il mio cuore, sì tenero
fra le tue mani,
sbuccialo: non contiene
che un po’ di cenere.


LXIII

Toute allégresse a son défaut
Et se brise elle-même.
Si vous voulez que je vous aime,
Ne riez pas trop haut.

C’est à voix basse qu’on enchante
Sous la cendre d’hiver
Ce cœur, pareil au feu couvert,
Qui se consume et chante.

*
Ogni allegrezza una magagna cova,
porta in sé la sua morte:
tu, ti prego, non rider così forte,
se vuoi che t’ami ancora.

Basta una voce bassa, e già s’incanta,
sotto fredda cinigia,
questo mio cuore, come ascosa bragia,
che si consuma e canta.


LXIV

Toi, pour qui les dieux du mystère
Sont restés étrangers,
J’ai vu ta mâne aux pieds légers,
Descendre sous la terre,

Comme en un songe où tu te vois
À toi-même inconnue,
Tu n’étais plus, — errante et nue —
Qu’une image sans voix ;

Et la source, noire, où t’accueille
Une fauve clarté,
Une étrange félicité,
Un rosier qui s’effeuille…

*
O tu cui sempre son rimasti estranei
i numi del mistero,
scender sotterra ho visto con leggero
passo il tuo mane,

come in un sogno che di te un’immagine
ti offrisse, sconosciuta,
altro non eri – vagabonda e nuda –
che un tacito miraggio;

e la nera fontana ove t’accoglie
un purpureo splendore,
una felicità strana del cuore,
un rosaio che si sfoglia…


LXX

La vie est plus vaine une image
Que l’ombre sur le mur.
Pourtant l’hiéroglyphe obscur
Qu’y trace ton passage

M’enchante, et ton rire pareil
Au vif éclat des armes;
Et jusqu’à ces menteuses larmes
Qui miraient le soleil.

Mourir non plus n’est ombre vaine.
La nuit, quand tu as peur,
N’écoute pas battre ton cœur:
C’est une étrange peine.

*
La vita è, più che l’ombra sopra il muro,
un inane miraggio;
ma quello che vi traccia il tuo passaggio,
geroglifico oscuro,

mi seduce, il tuo riso come un volo
di spade lampeggianti,
e quei tuoi stessi menzogneri pianti
che specchiavano il sole.

Pure non è morire un’ombra vana.
Se hai paura, la notte,
non ascoltare il tuo cuore che batte:
è troppo strana pena.


Chansons
II
Le tremble est blanc

Le temps irrévocable a fui. L’heure s’achève.
Mais toi, quand tu reviens, et traverses mon rêve,
Tes bras sont plus frais que le jour qui se lève,
Tes yeux plus clairs.

À travers le passé ma mémoire t’embrasse.
Te voici. Tu descends en courant la terrasse
Odorante, et tes faibles pas s’embarrassent
Parmi les fleurs.

Par un après-midi de l’automne, au mirage
De ce tremble inconstant que varient les nuages,
Ah! verrai-je encor se farder ton visage
D’ombre et de soleil ?

*
Il pioppo è bianco

Scorso è l’irrevocabile tempo. Si compie l’ora.
Ma tu, quando ritorni e passi ad ora ad ora
dentro il mio sogno, hai braccia più fresche dell’aurora,
occhi più chiari.

Attraverso il passato ti bacia la mia mente.
Eccoti. Scendi in corsa dalla terrazza aulente,
e i tuoi deboli passi si districano a stento
in mezzo ai fiori.

In un vespro d’autunno, al miraggio volubile
di questo pioppo, offerto al gioco delle nubi,
rivedrò sul tuo viso tramarsi ancora cabale
d’ombra e di sole?


III

Longtemps si j’ai demeuré seul,
Ah! qu’une nuit je te revoie.
Perce l’oubli, fille de joie,
Sors du linceul.

D’une figure trop aimée,
Est-ce toi, spectre gracieux,
Et ton éclat, cette fumée
Devant mes yeux ?

Ta pâleur, tes sombres dentelles,
Le bal qui berçait nos pieds las,
Un corps qui plie entre mes bras :
Je me rappelle…

*
Ah, se abbastanza vissi solitario,
ch’io ti riveda una notte! E tu vinci
l’oblio, figlia del piacere, emergi
dal tuo sudario.

D’una figura troppo amata un tempo,
bel fantasma, la voce in te s’ascolta?
Quanta fumea davanti agli occhi è il lampo
tuo d’una volta?

Pallido volto, nere trine, accordi
d’un ballo che ci estenua e che ci strega,
un corpo fra le braccia che si piega:
sì, mi ricordo…


V

Toi qui fais rêver, ô brune
Si pâle, de clair de lune;
Des heures blanches et lentes
Où les colombes lamentent ;

Le jour efface la lune,
Les blondes se rient des brunes.
Je t’ai onze jours aimée :
L’amour, n’est-ce pas fumée ?

*
Così pallida, tu così bruna,
che fai sognare il chiaro della luna,
che fai sognare l’ore bianche e lente
quando il palombo tuba i suoi lamenti…

Il giorno spunta e cancella la luna,
la bionda ride a danno della bruna.
T’ho amato undici giorni, or più non t’amo:
cos’altro è amore, cos’altro che fumo?


Paul-Jean Toulet nacque a Pau nel 1867. Di origine creola, trascorse l’infanzia in varie località pirenaiche e la prima giovinezza tra Pau, Baiona e Bordeaux. Nel 1985 si ricongiunse al padre nell’isola Maurice, dove soggiornò vari anni conducendo una vita dissipata tra alcol e droghe. Dopo lunghi viaggi nel 1898 si stabilì a Parigi, dove divenne noto come collaboratore de “La Vie parisienne”, con racconti brillanti e cronache mondane. Scrisse romanzi e racconti, tra i quali: Il signor de Paur, uomo pubblico (Monsieur du Paur, homme public, 1898), Il matrimonio di don Qujote (Le mariage de don Quichotte, 1901) e La mia amica Nane (Mon amie Nane, 1905); in poesia le Controrime (Les Contrerimes, post. 1921) e i Versi inediti (Vers inédits, post. 1936). Morì per una emorragia cerebrale a Guéthary nel 1920.

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