Quel divorzio all’italiana secondo Germi

Divorzio all'italianaTutto cominciò con “Divorzio all’italiana”. Il capolavoro di ironia firmato da Pietro Germi nel 1962, con la sua feroce analisi di una società arretrata, è il termometro migliore per registrare in chiave grottesca le regole sociali di una Sicilia e di un’Italia che non volevano cambiare. La storia del barone Fernando (interpretato da Marcello Mastroianni), che non sopporta la moglie (la respingente Rosalia, impersonata da Daniela Rocca) e si invaghisce della sedicenne Angela (una splendida Stefania Sandrelli), è un’occasione per mettere alla berlina il delitto d’onore, le interpretazioni giuridiche del tempo e la concezione maschilista del rapporto di coppia.

Oggi, in epoca di divorzio breve, la sceneggiatura originale (vincitrice del Premio Oscar 1963) di Ennio De Concini, Germi e Alfredo Giannetti sembra essere obsoleta nel suo punto di partenza, ma il film funziona ancora sul piano dei tempi comici e delle annotazioni intelligenti. Si pensi al finale malizioso e trasgressivo, con il celebre piedino al gondoliere veneziano da parte della sposina Sandrelli, in viaggio di nozze a Venezia, davanti al marito ignaro, finalmente punito per il suo cinismo. Girato nelle zone di Ragusa e di Catania, “Divorzio all’italiana” fu prodotto da Franco Cristaldi, a riprova di quanta qualità (produttiva, di scrittura e di regia) fosse necessaria per divertire e fare pensare al tempo stesso. Da segnalare la presenza di Leopoldo Trieste, in un ruolo esilarante, e di un giovane Lando Buzzanca.

Si tratta di una commedia simbolo della capacità del cinema di intercettare i fenomeni sociali e le regole (scritte e non scritte) del mondo, tra spirito del tempo e osservazioni universali sulla natura umana. Un’opportunità di spiazzare lo spettatore e di stimolarlo a rivedere la sua visione della realtà. Inserito tra i 100 film italiani da salvare, nell’ambito delle Giornate degli autori della Mostra del Cinema di Venezia, “Divorzio all’italiana” è molto apprezzato ancora oggi a livello internazionale. L’opera del genovese Germi, autore di titoli come “In nome della legge” (ambientato nella Sicilia omertosa del 1948) e “Il cammino della speranza”, è rimasta nell’immaginario perché ha osato affrontare un tema tabù, dato che in Italia il divorzio è stato introdotto solo nel 1970 e confermato grazie al risultato del referendum del 1974.

In quegli inquieti anni Sessanta, il tema stuzzicava parecchio e, sulla scia dell’avventura tragicomica del barone Fefè immortalato da Mastroianni, attore completo e dotato di grazia in ogni interpretazione, l’anno dopo venne girato un film dal titolo “Divorzio alla siciliana”. La regia e la produzione sono di Enzo Di Gianni (nome d’arte del napoletano Vincenzo Esposito) e la storia ricalca il modello narrativo valorizzato da Germi. Fanno parte del cast Moira Orfei, Paolo Carlini, Gina Rovere, Gianni Agus, Carlo Taranto, Johnny Dorelli, Saro Urzì e Tibero Murgia. Una riprova che l’argomento appariva legato in modo indissolubile, in quel momento storico, alla Sicilia, terra di uomini che tenevano al cosiddetto onore e che volevano la “femmina” sottomessa, santa nel focolare e donna di “facili costumi”, invece, per le avventure erotiche da raccontare agli amici. Dalla Sicilia alla dimensione internazionale, poi, alla fine degli anni Settanta, il fenomeno dei divorzi avrebbe assunto una dimensione drammatica con il film “Kramer contro Kramer”, seguito da “La guerra dei Roses” (1989) e da una narrazione agrodolce come “Mrs. Doubtfire” (1993). Ma questa è un’altra storia. La dissacrazione del provincialismo siciliano e italiano era merito della forza sarcastica di un genovese attratto dalla Sicilia. Un autore capace di un’ironia che ancora oggi è studiata nelle università americane, come simbolo della migliore commedia all’italiana.

Marco Olivieri

Dal settimanale Centonove del 9 aprile 2015


Immagine di copertina: Una foto del film Divorzio all’italiana.

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