Ventitré gradi e Ventisette primi

di natàlia castaldi

23° 27'A primo impatto la lettura del romanzo di Fabio Ognibene, 23° 27′, sembra inserirsi a pieno titolo nel filone letterario esistenzialista e ontologico di matrice heideggeriana, dacché il senso incombente della morte insieme a una coltre di immobilità e mancanza di progettualità nel lento avvicendarsi dei fatti costituiscono l’atmosfera, il peso specifico della struttura scenica in cui si muovono le vicende dei personaggi. Ma Ognibene, che in questo romanzo sembra assumere una postura più da osservatore attento che da vero e proprio narratore, usa “sospendere il giudizio” nell’inquadrare minuziosamente i fotogrammi di questo microcosmo con gli occhi del fenomenologo, con intenzione ma anche con empatia, delineando una “regia” nell’intersecarsi delle vicende in sequenze cinematografiche o fotografiche, che fa volentieri a meno, nella misura del possibile, di spiegazioni che appiattiscano o rendano chiaramente consequenziali motivazioni e nessi causali in un’unica decifrabile trama. Ma si badi, questo è voluto! e Ognibene dimostra di essere padrone delle tecniche della “mise en abîme” e al contempo di saper gestire le inquadrature tipiche del filone del Nouveau roman, richiedendo al lettore un intervento diretto e partecipativo per “completare” la stesura delle strutture volutamente aperte, precarie, provvisorie nell’insieme complessivo delle vicende narrate.
Quattro sono gli attori principali di questo frammento di esistenza: una coppia di anziani coniugi, Oreste e Lucia, pensionati, stanchi, annoiati, ma fondamentalmente rassegnati, stando a quanto Ognibene fa dire a Oreste: “tutto sommato sono contento della mia vita“. Ciononostante, come ho già accennato, si sente incombere su loro, e in particolare su Oreste, il senso ineluttabile dell’essere-per-la-morte. Non traspare più amore fra questi “sopravvissuti” e talvolta si percepisce quasi un senso di ripugnanza nei loro gesti e nelle loro mancanze, pur tuttavia – quasi si trattasse di materia di intimo pudore -, di nascosto, mentre Lucia dorme, il marito la bacia sul capo. I due anziani hanno una figlia trentacinquenne, Silvia, divenuta psicologa dopo essere passata da uno stato di depressione psicotica giovanile, attraverso una serie di stati di angoscia, manie e amore-odio verso il linguaggio. E qui si snoda un altro punto cruciale e caratterizzante dell’intero romanzo: il linguaggio appunto, scrutato, decostruito e ricostruito, reinventato e manipolato dall’autore attraverso la psicosi della sua Silvia, che detesta le regole prescrittive della grammatica perché ordinano, sono fasciste!, mentre ama le anarchie lessicali, inventando di volta in volta le sue parole, mentre si trascina nella pratica della vita con un senso di immobile desolazione fino al momento del suo incontro con l’ultimo protagonista, Lorenzo. Più grande di lei, colto, studioso del latino, esperto di erbe medicinali, anche Lorenzo si trova come bloccato in uno stato di immobilità per “mancanza di incipit” nella stesura del suo libro. L’incontro-scontro tra lui e Silvia si misura sui giochi di parole. Così avviene che sia proprio mentre parlano che Silvia, scrutando le rughe di lui, gli preannuncia l’imminenza della morte. Tuttavia l’attesa dei personaggi difronte a questo evento ineluttabile si va delineando con atteggiamenti e posture profondamente diverse. Silvia cerca riparo nella chiusura in se stessa, nella ricerca della solitudine. Lorenzo, invece, ha il senso della continuità, crede nelle parole, nel latino:

“Ogni parola contiene al suo interno il pensiero dell’uomo, l’amore dell’uomo, che attraversa i secoli, che non muore mai. Se ti occupi del latino capisci che non esiste la morte, che nessun uomo è mai morto dall’inizio della civiltà e non morirà mai finché un altro uomo sarà in vita”.

Nel concludere quindi partecipativamente la lettura del romanzo di Ognibene, che vivamente consiglio, metto en abîme un altro elemento, un altro frammento di pensiero che nella casualità degli eventi (sic!?!) ho riletto proprio oggi prima di lavorare a questa breve nota critica:

Noi non corriamo verso la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione del futuro di una paura che risale al nostro primo istante.

(E.M.Cioran – l’inconveniente di essere nati, Adelphi Ed.)

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