Carteggio XXVII

Caro Federico,

Il fuoco con gli anni si va spegnendo e dovrebbe tornare la misura. Non ci sono date precise per la crescita, né per la misura, io ho sovvertito le regole prevedibili per natura per diverso tempo, ma oggi sono tornata ad essere vecchia, per fortuna, con   autoironia insperata. Riesco ad essere sempre meno “social” anche per questo, per l’esigenza di tornare a esprimermi in linea retta, per estensione, ma soprattutto per elezione e misurata selezione. I social sono dei tritatutto che centrifugano velocemente ogni pensiero e il nostro modo di intendere la comunicazione si va avvilendo sempre più, mutando inevitabilmente al passo con i tempi e con le esigenze frenetiche di questo continuo mordi e fuggi. Leggo prose e prosette piene di punti e accapo, o senza punteggiatura, quasi prive di sintassi. L’oggettivazione di tutto e la rapida assimilazione dello stretto necessario pare essere il nostro pane quotidiano. Non c’è da sorprendersi se la gastrite arricchisce le case farmaceutiche con altrettanto immediati rimedi sintomatologici da masticare, sciogliere sotto la lingua, aprire e deglutire. Si è perso il gusto della digestione lenta, dell’assimilazione sana di quanto lasciamo che ci penetri nel profondo. Sono all’antica in questo, sarà il barocco siciliano, quella magnificenza di bianco, luce, ornamento e marmorea concretezza che contraddistingue l’atto della percezione più immediata di un isolano come me sin dalla nascita, ma sento ancora fortemente il bisogno di coltivare ogni scintilla, lasciandola ossigenare lentamente nelle secche della solitudine e della pace. Il pensiero è un campo da coltivare con costanza, non è la fretta a far girare prima le stagioni, né a determinare l’anticipo delle fioriture, ma la pazienza, quel sapersi alzare all’alba e ritirarsi tardi per sera.
Camminare nei solchi di se stessi non è un atto di chiusura, né di rifiuto del mondo, ma un silenzioso raccoglimento per seminare tutto quello che del mondo e dal mondo ci è entrato dentro. E che sia rabbia, amore, fortuna, miseria o quello che chiamano destino, o anche indignazione, nausea, malinconia, gioia, gratitudine, che sia tutto questo o un dato in meno, poco conta; quel che conta è la consapevolezza di aver vissuto con l’integrità propria all’ampiezza della gamba, commisurata passo dopo passo all’ineluttabile paura della fine, che sarebbe stolto nascondere a noi stessi come un tabù da non infrangere per raggirare il pericolo di sentirci vacillare.

L’arte non deve essere solo civile o politica, didascalica o propedeutica, intimo desiderio o egotico prolungamento di noi stessi all’infinito; l’arte è e deve essere tutto questo insieme nello sdoppiamento di un “Autoritratto di noi con la morte”, laddove per consapevolezza si intende il senso doloroso del messaggio, un messaggio che ha come primo destinatario la coscienza dei limiti del mondo in ogni luogo di ogni tempo.
La mia coscienza ieri si è persa nel silenzio delle stanze, in quella casa di Berlino che non ho mai vissuto di paesaggi invernali, ma che riconosco nel riverbero di ogni suono sordo, mentre me ne sto seduta sul bordo di una vasca da bagno. E’  allora che quel transito che speravi in ogni tuo scatto è realmente avvenuto, è così che  come materia d’arte hai assolto il tuo compito precipuo. Non chiederti di più, mio caro, il silenzio di quelle tombe e le case innevate sono indubbiamente il percorso di traduzione e memoria più intenso che abbia mai avuto la fortuna di cogliere tra le nostre nevrosi. Non arrenderti, sono tutte vive quelle voci, sono tutte da restituire.
Fammi sapere se la mostra di Lisbona si realizzerà e per tempo informami delle date, non mi muovo molto dalla mia isola, ma fors’anche col pensiero vorrei poterti essere presente.

Un abbraccio, Caro
natàlia
(inverno 2012)

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