Carteggio XXV. Corrispondenza con Ivan Schiavone sul rapporto tra metrica, musica e poesia ( e su la sua Cassandra).

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Qualche mese fa è stato pubblicato il libro Cassandra, un paesaggio di Ivan Schiavone (Oèdipus edizioni, 2014). Il testo in questione è una partitura poetica, complessa e raffinata, incentrata sulla figura mitica di Cassandra. Pubblico per l’occasione uno scambio di lettere tra me e Ivan, risalenti al 2013, in cui parliamo del rapporto tra metrica, musica e poesia, ma anche della sua Cassandra.

Il nostro confronto è stato occasionato dal numero della rivista L’Ulisse dedicato completamente al metricismo in poesia. Ivan vi ha partecipato con un suo acuto intervento. A questo indirizzo è possibile leggere lo scritto di Ivan Schiavone: http://www.nazioneindiana.com/2013/03/28/e-on-line-lulisse-n-16-nuove-metriche-ritmi-versi-e-vincoli-nella-poesia-contemporanea/

Vincenzo Frungillo

Caro Ivan,

la prima  sollecitazione che colgo dai tuoi appunti milanesi è quella riguardante il rapporto musica/poesia o meglio il mancato rapporto tra queste due discipline. La tua critica a questo aspetto mi trova d’accordo, ma mi crea anche alcune perplessità.  Se con rapporto tra musica e poesia si intende mettere al centro della questione poetica il primato della forma, e capisco che nella tua poetica la forma è quella essenzialmente metrica e quindi musicale (questo in senso molto vago da parte mia), allora sono d’accordo con la tua precisazione d’apertura; però la questione mi sembra scivolosa se si estremizza o si assolutizza il primato della forma in rapporto esclusivo con l’ambito musicale. Il rischio è a mio avviso quello di riportare la poesia nella posizione di linguaggio parallelo o subalterno, e di rientrare in una percezione mimetica della composizione, ossia la poesia che imita i processi compositivi della musica (di qualsiasi genere essa sia). In questo caso la poesia rischierebbe una deriva manieristica. Altra cosa è il riutilizzo delle forme musicali e la rielaborazione delle innovazioni tecniche, ad esempio delle dodecafonia, per arricchire la percezione estetica e quindi etico-politica del poeta. Leggendo le tue composizioni poetiche mi sembra che questo pericolo, ossia il ricadere in una   forma di nuovo naturalismo barocco, sia del tutto scongiurato. Però la questione così come è posta nei tuoi appunti potrebbe dare adito a questo equivoco. So cosa intendi con rapporto musica-poesia in Italia, capisco che oggi sia importante questa precisazione, proprio per la sciatteria della critica e quindi dei poeti che a quella si appoggiano, ma siamo sicuro che questo non possa portare avanti un equivoco altrettanto rischioso? Molti poeti oggi si richiamano alla musica pop, che tu giustamente rifiuti, ma anche al rock, al punk e così via. Questo intreccio non sembra sbilanciarsi sempre di più verso la preminenza della cultura musicale e popolare di derivazione americana o elettronica europea. Mi chiedo: non può essere proprio la preminenza del messaggio musicale popolare che porta alla distrazione dalle forme poetiche più propriamente dette, causando in questo modo la supremazia dei cantautori o delle rockstar sui poeti? (Vedi la recenti uscite di Nove o il sottotesto all’esperienza letteraria di una Pivano). Glenn Gould proprio parlando di Schoenberg, in una suo famoso saggio (Arnold Schoenberg: una prospettiva ) scrive : “E’ verissimo che diversi procedimenti della poesia contemporanea ricordano in un certo senso quelli della tecnica seriale, ma nell’insieme i materiali letterari non hanno subito trasformazioni radicali, e fra lo scrittore e il suo pubblico non si è certo creata una frattura simile a quella che sembra aver diviso il musicista dagli ascoltatori […] Credo che sia pericoloso insistere su questa affinità per il semplice motivo che la musica è sempre astratta, non ha connotazioni allegoriche se non  in senso supremamente metafisico e non pretende né mai ha preteso, a parte qualche rara eccezione, di essere altro che un modo per esprimere i misteri del comunicare sottoforma altrettanto misteriosa”. La stessa poesia ha un suo linguaggio misterioso, che è anche tradizione, ossia trasmissione di tecniche e forme, e come la musica è il linguaggio proprio del poeta, che è un essere pensante. La poesia è anche di pensiero e quindi teoria, dove per teoria possiamo intendere anche una delle sue prime radici greche ossia “festa” (prendo questa suggestione da Severino), anche “sospensione” dal quotidiano, dalla prosa del quotidiano ma anche dalle influenze esterne. La poesia può quindi cercare in se stessa la propria  alternativa al mondo. Il rapporto con la musica deve essere quindi solo uno dei pretesti per la propria forma, e questo pretesto è a sua volta sempre rinnovabile e riutilizzabile in base alle esigenze etico-politiche dell’autore. La famosa poesia in situazione di cui parlava Pagliarani.  A mio avviso forme antiche sono a volte più deflagranti di forme in linea con i tempi, proprio perché rinnovano uno spazio di sospensione, permettono la festa. Questo naturalmente non significa essere concettosi o reazionari. Per inciso, il tuo lavoro su Cassandra, ma la tua poesia in genere, mi interessa proprio perché mantiene aperto il dialogo tra innovazione e tradizione, almeno nel recupero degli snodi identitari della tradizione letteraria occidentale (Omero, Dante). Questo dialogo è sempre portato sul piano della forma. La figure che compaiono nei tuoi scritti sono portatrici di aporie, e di nuove aperture, non chiudono il testo intorno ad un soggetto. Per questo c’è l’utilizzo delle sequenze reiterate o dei “patterns”.  A proposito del concetto di paesaggio: potrebbe sembrare un appunto zanzottiano, invece qui parliamo di un paesaggio che è totalmente metrico e segnico, che non ha nessuna effettiva riconoscibilità sul piano geo-grafico. Il paesaggio è la struttura, lo spazio compositivo. Il centro gravitazionale della composizione è dato solo dall’insieme degli elementi adottati, o meglio, il contenuto di un testo come Cassandra, prima ancora che il personaggio letterario, è la strutturazione della pagina. Gli elementi compositivi godono di un’economia tale che il personaggio, la sua voce, diventa la forma stessa del testo. Sulla questioni tecniche che sollevi e che mi sembrano siano interne al tuo universo poetico, mi sento di poter dire questo: l’accentuazione di 5° nell’endecasillabo, che tu richiami e utilizzi, risponde per l’appunto all’esigenza di fare in poesia ciò che la composizione atonale ha fatto in musica, ossia agire sull’elemento armonico per liberarlo dalla sua ossessione verticistica. Sfoltire l’armonia da refrain o da ritornello facile che ossessiona tanta poesia italiana. Questo gesto è appunto un’operazione di  interruzione di matrici popolari e demagogiche del pensiero imperante e per questo mi sembrano convincenti. Spero che queste mie risposte ai tuoi appunti milanesi possano in qualche modo interessarti e spero che ci sarà modo di ampliare le questioni qui solo accennate. Mi spiace ma il tempo, a quanto mi hai detto, era stretto. Ancora questioni di metrica. Vincenzo

Caro Vincenzo,

per rispondere alle perplessità suscitate dalla mia asserzione liminare debbo dirti che la costruzione musicale del testo poetico è per me dato, oserei dire, concernente l’ontologia del mezzo, nel senso di specifico inaggirabile e ineliminabile di quella particolare forma di scrittura detta poesia. Sento profondissima, effettivamente, la coessenzialità di questa con la musica, ed effettivamente non arrivando a definire la poesia ancella la percepisco altresì come una forma specifica del linguaggio musicale – forma che nella sua particolarità mette in scena una dialettica complessissima e raramente risolvibile in sintesi tra senso e struttura. Come una sorta di filosofia, ma forse è meglio dire weltanschauung,  per immagine e musica, e in questo senso non credo nel rischio di manierismo in quanto ogni scelta consapevole a livello formale non può essere percepita che come modalità specifica della critica (così come, ad esempio, la forma scelta per gli appunti non può non far pensare a quanto asserito nella premessa gnoseologica del dramma barocco tedesco, o alla forma della società dello spettacolo o ai testi di Tiqqun, con tutto il portato filosofico-politico che questi hanno travasato nelle proprie forme). Credo che al di fuori di questo rapporto, anche risolto nella più totale antimusicalità – penso alla poesia in prosa – si debba parlare di altre forme di scrittura (e a livello abbastanza istintuale ce lo testimonia la naturale tendenza a far suonare il testo di poeti sprovvedutissimi di mezzi che nelle maniere più rozze tentano comunque questa strada percependola come poetica). Debbo convenire con te sul rischio che additi di un fraintendimento di quanto dico circa la correlazione generi musicali-poesia, ovviamente non intendo dire con questo che bisognerebbe fare della poesia dodecafonica, della poesia modale, noise, punk, concreta, etc. quello che volevo suggerire con il parallelo è che vista l’apertura esperienziale dell’arte tutta nel ‘900 non si capisce perché poi noi ci si dovrebbe accontentare di forme dimidiate e stereotipate che non è possibile percepire come esaurenti questo flusso multiidentitario in cui ci troviamo a nuotare, e ad annaspare a tratti. Proprio in virtù di ciò secondo me non vi è problema nell’influenza del panorama pop in cui viviamo (e se ben ricordi anche negli appunti ne indico alcuni influssi che possono percepirsi come naturalizzati, quali, ad esempio, il bisogno di maggiore percussività in poesia) dipende poi dalla consapevolezza e dai mezzi del poeta che affronta la questione e dagli esiti che vuole ottenere- per commentare gli esempi che poni Nove mi sembra consapevolissimo dei mezzi che usa per il suo progetto d’omaggio e resa al capitale, con una volontà commerciale assai definitiva, volontà che, quand’è così chiaramente esposta, ci può tranquillamente lasciare allo schifo che suscita senza riserve, altro è il caso della Pivano, talmente inserita in un contesto altro che solo in relazione a quel contesto acquisisce tutto il suo senso – vi è poi il caso dei cantanti-poeti, e ricordo una stupida querelle di Cortellessa su ciò, secondo me alcuni degli esiti “testuali” più interessanti del secondo novecento italiano sono e restano quelli di Giovanni Lindo Ferretti, di De Andrè, di Branduardi, di Capossela e di alcuni cantanti hip-hop come Frankie hi-nrg sia per sperimentazione formale che per senso in una capacità scarsamente riscontrabile in poeti definiti alti e che spesso sono soltanto noiosi e ignari del mondo di cui dovrebbero dar testimonianza (e in ciò tra l’altro secondo me sarebbe doveroso fare anche un po’ di sociologia della letteratura e riconnettere una serie di avversioni a moventi di classe). Con Gould non concordo in niente: i materiali letterari hanno subito trasformazioni radicali, fra lo scrittore e il suo pubblico si è di certo creata una frattura simile a quella che sembra aver diviso il musicista dagli ascoltatori, la musica non è astratta, ha connotazioni allegoriche ma non in senso supremamente metafisico e pretende ed ha preteso, a parte qualche rara eccezione, di essere altro che un modo per esprimere i misteri del comunicare sottoforma altrettanto misteriosa (penso bastino pochi esempi a caso: una partita di Bach non esprime lo stesso che in the name of the holocaust di Cage, il flauto magico di Mozart, la nona di Beethoven, il Prometeo di Nono sono portatori di chiarissime finalità politiche, il sopravvissuto di Varsavia di Schonberg è altro da un aria di Monteverdi, non per contenuto metafisico ma per semplicissimo contenuto storico, e si potrebbe andare avanti casualmente all’infinito). Ora non è che io tenti la difesa di un formalismo estremo – e devi tenere conto del fatto che il mio articolo non era un articolo di poetica bensì l’adempimento ad una richiesta di un intervento su questioni metriche, e anzi forse troppo in là ho spostato l’accento –  che dell’eccedenza che permea il fare nostro sono a mia volta convintissimo ed anzi, come avrai notato, è quasi una cifra mia personale, per l’amore infinito che tributo all’ombra, in senso junghiano, all’intestimoniabile e a tutto ciò che sovrastandoci e non essendo riducibile a comprensione ci forma e ci informa. Dirò di più essendo convinto della assoluta realtà linguistica del mondo, e della capacità della costruzione del medesimo solo per tramite linguistico (è un discorso talmente lungo e complesso, implicante il ricorso ad una lunga serie di riferimenti filosofici e psicanalitici. che preferisco, rispondendoti, tagliarlo abbastanza corto) vedo nella poesia l’unico tramite ontologico, proprio per la sua essenza falsificata-falsificante in tutto simile a quella di un mondo costrutto per linguaggi di cui si possono tranquillamente tracciare le genealogie, ah Foucault Foucault, e quindi non ontologicamente “vero”. Ok, mi sbriglio da questo discorso che è una polveriera nella speranza prima o poi di avere la possibilità di riaffrontarlo in un lungo testo di poetica (che mi riprometto da anni e non ho mai il tempo di affrontare, malnata condizione proletaria), e certo che la poesia è teoria, festante e al contempo incisiva, certo che è sospensione del quotidiano in una radiografia esatta di intensità, come una pellicola sensibile su cui si tracciano i passaggi delle forze, certo che è creazione di mondi, e certo che il puntiglio formale cede tutte le sue armi di fronte al bisogno imperante di senso, di critica e di cura a cui il poeta non deve, non può e quando è amante dell’uomo e del mondo non vuole sottrarsi. Vedo, in linea con quanto dici, il lavoro nostro simboleggiato da una retta verticale, testimoniante la storia passata e futura, da una orizzontale, testimoniante il contingente, e da un movimento verso l’interno, testimoniante la vita interiore dell’artista, solo dalla sintesi di questi tre vettori credo ci sia opera, mai senza la loro compresenza. Solo da questo so delineare la nostra moralità, il nostro fare che non può essere mai altro che quello di preservare la scintilla avendo cura dell’uomo per l’uomo. So che tutto ciò è pieno di contraddizioni, che vivo come una benedizione, ché l’illusione della sistematicità di racchiudere il mondo in comprensibilità è follia, e la contraddizione è la sola cifra dell’eccedenza che ci crea, dell’alterità da cui dipendiamo, dal mistero inesorabile che ci sorregge nella volontà di essere uomini errando. Spero di aver risposto così alle tue perplessità, un fraterno abbraccio, IS.

Caro Ivan,

la questione della forma in poesia è senza dubbio questione ritmica e musicale, e ogni scelta consapevole è legittima. Tu citi la premessa gnoseologica di Benjamin ancora una volta a proposito.  Il filosofo della forme artistiche fa un discorso di grande chiarezza: la letteratura e le sue forme sono il risultato della non aderenza tra verità e rappresentazione, tra verità ed idee. Per questo il barocco, per questo le “interruzioni” che tu riproduci molto bene nei tuoi testi in forma metrica. L’ho riletta la premessa e annoto questo passaggio su tutti: “In ogni fenomeno originario si determina la forma sotto la quale un’idea continua a confrontarsi col mondo storico, finché essa non sta lì, compiuta, nella totalità della sua storia. L’origine dunque non emerge dai dati di fatto, bensì riguarda la loro preistoria e la storia successiva” (cit. p. 20, edizione Einaudi, 1999). Questo principio lo abbraccio in pieno. Lo sento mio. La poesia però proprio in questo è scommessa radicale, taglio. Io ho pensato in questi anni, anche sulla scorta di miei studi filosofici (Heidegger, Foucault, Benjamin, Agamben), che la poesia debba mantenere sempre in potenza la differenza tra il senso comune delle cose e il loro significato; se c’è un “contraccolpo” tra comprensione del mondo e sua interpretazione (ossia tra mondo condiviso e sua egotica rappresentazione), è la poesia a provocarlo e sostenerlo. La forma poetica, lo spazio della pagina (credo quello che tu nomini paesaggio) è lo spazio stesso del contraccolpo tra codici storici condivisi e assunzione psicologica di tali codici; è la differenza stessa, ossia una fonte potenziale e inesauribile. La forma, il metro poetico, è il respiro stesso della preistoria e dell’avvenire (cosa che risulterebbe retorica senza la premessa di Benjamin). Io sottoscriverei questo principio come metodo d’osservazione del mondo. Ne parlavo con Biagio Cepollaro proprio qualche giorno fa, lui la definisce una postura cognitiva. In lui il respiro è inteso proprio nel senso corporale. Il respiro del verso è il modo di portare le parole, di cadenzarle metricamente, ma è anche il modo di far uscire il mondo da se stesso, permettergli di rispecchiarsi. Ciò che Benjamin coglie parlando di Platone. Non è una bestemmia, parlare di idee o di immagini. Oggi, invece, azzardare un discorso in linea con quello seicentesco sembra una bestemmia, proprio  perché si è tutti, consapevolmente o inconsapevolmente, in linea con il livellamento delle forme. Il mistero di cui parlavo è quella di una metrica o di una forma poesia che non possa mai essere ridotta alla mera tecnica esecutiva perché deve tener conto della distonia tra senso e significato, deve riprodurre di volta in volta l’eccedenza del senso dal significato e viceversa. Questo processo d’oscillazione, questo moto oscillatorio non è certo raffigurabile ontologicamente, né esiste poetica che tenga. Anch’io, del resto, non credo d’avere una poetica e mi scuso se ho usato un termine inopportuno riguarda alla tua scrittura. La mia precisazione sul rapporto musica-poesia, nasceva anche dalla tendenza di anni recenti ad avere in sospetto la poesia di pensiero, o la parola sedimentata. Proprio perché anch’io amo Debord, provo orrore di fronte alla riduzione delle forma-poesia a mero spettacolo. Per fare un po’ di sociologia, o cronaca di basso livello, posso dirti che provo rabbia quando leggo che una manifestazione che ha un’eco nazionale, come l’occupazione del Teatro Valle, che dovrebbe essere l’espressione di una reazione artistica al livellamento generale dei linguaggi (l’utopia negativa del linguaggio unico) inviti artisti come Jovanotti ad esibirsi. Questo solo per fare un esempio della schizofrenia in atto. (Lo stesso De Andrè, dicono, si sia complimentato con Jovanotti per la sua musica). Per dire, io credo che Jovanotti sia un fenomeno commerciale che ha aperto le porte alla “rivoluzione copernicana” di cui parla Allevi (Allevi è stato lanciato da Jovanotti): “Non è il pubblico che deve andare verso l’artista, ma è l’artista che deve andare verso il pubblico”. Tutto torna, niente è casuale.  E noi continuiamo a beccare i nostri artisti con la marmellata nelle dita. Io so che non dobbiamo dirci queste cose, ma prendila come un mio sfogo personale. Riguardo ai cantanti che citi, anch’io amo Ferretti e credo che sia un poeta e scrittore serio (Cronaca filiale, solo per citare un testo recente, è stupenda). Amo i testi di altri autori come Faust’o, lo stesso De Andrè, il Panella di Battisti, e altri, ma so che la questione non è questa. I cantautori per ristrettezza di mezzi, per economicità di mezzi, e uso questa espressione anche in senso provocatorio, non potranno mai alludere alla complessità di cui parla Benjamin. Se poi la poesia è destinata a finire proprio per questo motivo, non avendo più un pubblico, tanto peggio. In questo periodo io amo di più la parola nello spazio teatrale che  la parola in relazione alla musica, proprio perché la parola teatrale ha una pesantezza che meglio traduce quelle che sono esigenze impellenti di questi giorni. Ma so che su questo punto potremmo arrovellarci ancora per pagine e pagine.  Spero che queste parole possano essere minimante chiare. Un abbraccio fraterno .

Vincenzo

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