“LE RADICI DELLO ZERO” DI ANTONIO BUX

di Diego  Conticello

Una nota critica e alcune poesie da “Raices de zero” (terza parte di “Trilogia dello zero”, Marco Saya Edizioni, 2012)

Già da questo fascinoso titolo, Raices de zero, che mescola le due lingue, italiano e castigliano, si avverte il debito della poesia di Antonio Bux verso tutto quel ‘concettismo’ di marca iberica (lui ottimo traduttore dallo spagnolo, non a caso dedica una sezione del libro ad un’emulazione di stampo Paneriana) che molta fortuna ha avuto anche presso la nostra critica, penso in special modo alla generazione del ‘27 dei vari Lorca, Salinas, Aleixandre ed a riconosciuti maestri quali Góngora e Machado, alla loro “umbratilità”, in particolare al celebre sonetto di quest’ultimo, intitolato Al gran Cero («Fiat umbra! Sgorgò il pensare umano./ E l’uovo universale alzò, svuotato,/ dissostanziato, freddo, scolorato,/ pieno di nebbia lieve, nella mano.// L’intero zero prendi, vuota sfera/ che guarderai, se puoi guardarlo, eretto.»); poi ripreso da un altro modello del nostro, ovvero quel Bartolo Cattafi che, nella sua indimenticata raccolta Le mosche del meriggio, scriveva: «[…] Sarà prossimo il centro:/ là s’appunta il nero/ occhio, la nostra/ perla di pece sempre in fiamme,/ serrata tra le ciglia,/ che per un attimo, in un battito ribelle/ intacca il puro ovale dello zero.». Bux si inserisce in questo solco, dando conto, fin dall’inizio, sia della propria condizione di sradicato (dai modelli letterari in voga, dall’esistenza stessa?), che di una sorta di svuotamento interiore – lo zero appunto – come unico punto di partenza possibile per discendere al vero nucleo della realtà, alla profonda essenza che la tiene ancorata alla nostra, pur limitata e limitante, percezione: «È qui morta natura. Caduta,/ ricade, sospinge, si innalza/ ci finge./ […] non più canta, sospesa…/ […] assaltare/ il nero divenire, il buco ovale.». In un siffatto scenario di precarietà, l’azione poetica non può che incedere per lacerti frastagliati, in cui le improvvise folgorazioni di senso non giungono come superiori ed altere epifanie ma avvertono, ad ogni respiro, del modo affannato con cui tentano di squarciare il velo dell’assoluto per restituirci porzioni di verità.

Possiamo allora – senza remore – dar conto di una spiccata forma mentis barocca che percepisce ed organizza il mondo per via di complessi sistemi metaforici, in cui domina il ricorso alla più grande metafora esistente, ovvero madre natura. Il linguaggio che la esalta è particolarmente affine a quello non simbolico ma primigenio di un Nino De Vita, oppure allo pseudo-scientifico rintracciabile, ad esempio, in certi trattati botanici del XVI secolo di un Charles Plumier, di un Linneo, di un Nicolò Serpetro: «L’involuzione incisa dal limite/ – la forza che spinge l’io nel tutto –/ è l’istinto della fine, il principio del lutto.».

Si assiste così ad una sistematica meccanizzazione ecolalica del dettato per via di ripetuti ‘inceppamenti’ anaforici e, soprattutto, allitterativi che lasciano trasparire questo senso di disagio, un “esperire a singhiozzi” eternamente incompiuto, continuamente in bilico sull’orlo del nulla. E qui veniamo al grande tema che pervade l’intera raccolta, individuabile nel Tempo come reductio ad umbram, dove la proiezione immateriale del sé – in senso fisico ma, principalmente, intellettivo – diviene sofferente salto nella memoria («Bisogna tagliare via questo filo invisibile/ slegando l’anima dal principio delle cose…/ […] quando l’altrui caduta serve a riconoscere/ l’esatta distanza dello sguardo da tutto.»); melanconico rimpianto («Il nostro cammino era già indietro./ Da allora fino ad ora, orma nell’orma/ il tempo, l’ombra che sfioriva nei passi.»); o perfino universale rimuginazione («Il mare come sputo/ dell’universo sulla terra,/ le lacrime raccolte del mondo»). Dunque, non è più possibile pensare agli attimi passati come ad un’ombra “del” Tempo, quindi oblio, dimenticanza, ma come un’ombra “nel” Tempo, una nebbia dolorosa ma necessaria che riesce ad insinuarsi nei meccanismi insoluti ed inaccessibili della memoria, nel tentativo di assemblare le tessere di un mosaico in continuo mutamento, pertanto sempre sfuggente. Un’eterodossa dentatura che rallenta ed equilibra questi ingranaggi acherontei al fine di stillarne l’olio del ricordo – strappandolo all’assoluto – per farne forza di resistenza universale, attestazione di presenza consapevole nel mondo. E se le ombre in Pascoli o in Montale si riallacciavano al tema delle anime trapassate, di ascendenza dantesca, in Bux assumono la connotazione più strettamente filosofica di psicopompi ed, inoltre, di ladre o guardiane del pensiero (a seconda che si patteggi per lo schieramento umano-fisico o temporale-aleatorio di concepire una presunta verità). Esse rappresentano, in sostanza, l’unico modo dato alla stirpe umana per ‘afferrare’ pezzi di Assoluto strappandoli al Nulla, quindi mossa estrema per tornare alle “radici dello zero” e suggerne quel poco di senso rimasto inalterato attraverso le ere: «Ho succhiato dal tuo sesso/ la linfa della morte…/ […] il veleno/ dove l’anima rantola dolce.». La più solida qualità di questi versi, di taglio aforistico ed ‘artata’ naturalezza, è l’imprimere aloni emotivi dal forte impatto metaforico e dallo smisurato tasso lirico, capaci sovente di innovare – per originalità di pensiero ed impianti formali – l’asfittica marmaglia di cui si sostanzia molta poesia contemporanea.

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Poesie

Dalla prima sezione “Terzine campestri”

Il mare come sputo
dell’universo sulla terra,
le lacrime raccolte del mondo.
L’autunno ha foglie gialle
perché il sole vi ci sta
in letargo dentro.
IX.
L’involuzione incisa dal limite
-la forza che spinge l’io nel tutto-
è l’istinto della fine, il principio del lutto.
X.
Separa dal luogo lo sguardo umano
ché l’affanno terrestre occultando
cinge l’occhio in un’orbita di scelte.

Dalla seconda sezione “Nel ritmo dell’ombra”

II.

La lingua è un attracco, un porto franco

dove deriva la parola; la sponda bianca

il verso a spirale, l’onda del senso come

un sonno avvolge il pensiero, lo distende.

Allora svegliarsi è nuotare: il corpo/bolla

si infrange nel dettame, schiuma silenzio,

perciò resistere nell’acqua è un rumore

nell’apnea del discorso, un annegare lento.

Dalla terza sezione “Tema di S”

VII.
Esiste a volte un tuo pensiero a indagarmi:
viene a ricordarti una forma, un moto impreciso
nel non luogo, dove ritornando in avanti
nel punto più solo delle nostre stanze lontane,
fissiamo lo stesso vuoto distante – (ed è lì, ferma
in quell’ossicino di tempo, la paura di un saluto
la filigrana riavvolta, il nostro falsario occasionale).

Dalla quarta sezione “Panerismi”

VII.

 

E ora cade una lama sul libro dell’uomo
sulla pagina di ferro si specchia nel verso
e si taglia nella pagina la pietra del sogno
nell’uomo del sonno che scrive sulla pietra.

Dalla quinta sezione “La dieta (poesie senza peso specifico)”

II.

Guardando nell’orizzonte interno

ovale del sedano, dal cannocchiale

fatto di fibra vegetale, si dimensiona

la distanza che separa la cucina

dalla fame, come quando il mare

osserva il proprio asse sparendo

dietro le onde. Così si sottopone

il cervello alla litania della dieta:

si scruta da lontano il corpo

che dissimula un altro corpo.

IV.

La cucina è retrocessa a bosco:

nella fauna del frigorifero si osserva

il lento decrescere degli ortaggi, il fondere

degli avanzi con i gas imbottigliati.

E dunque ci si domanda (quando si fa sera

e il buio riaccomoda tutti gli odori)

cosa rimane, al di là della selva fresca

nello specchio rovesciato della gola,

quando si ciba fuori il proprio deserto

lasciato ad essiccare nella flora del rimorso.

V.

Ogni giorno si dimezza

meglio il dentro che il fuori

e più cresce altrove

la stazza insicura,

più la fame rientra

tra i bordi dell’organismo

e si autoalimenta il perdono;

è questo allora il sottile gioco

delle parti: da un lato il sacrificio

si consola nella resa, e dall’altra

metà del corpo, si dissolve la vita.

Dalla sesta sezione “Di terra”

V.

Rimanere sempre nelle acque aperte dell’infanzia

servirebbe a mantenere l’onda anomala, il nuoto

contrario della vuota sponda, l’equilibrio dell’abisso;

ma ritorna, dopo il tuffo all’indietro, rinviene a galla

l’anima nella superficie dell’orizzonte senza risacca,

dove un mare spoglio del suo incavo spiaggia l’essere.

VI.

È qui morta natura. Caduta,
ricade, sospinge, si innalza
ci finge. Poi riporta, sconvolta
-come in attesa- né giace né
tace, e non più canta, sospesa
ma si vuole indifesa, assaltare
il nero divenire, il buco ovale.

Dalla settima sezione “Breviario”

IV.

Cos’è l’amore.
Questo tacere a lungo
di due cuori all’ombra
l’uno dell’altro, e in un momento
di sublime disattenzione del mondo,
un’esplosione dentro l’aria
ammutolisce tutti i giorni
mentre vibra l’anima sola.

Dall’ottava sezione “Misure approssimative”

VIII.

Il dominio dell’ombra è centinaia di schiavi di luce:

nel rovesciarsi in giorno decide la protesta, la curva

contraria dell’origine, l’innocente tenebra del ricordo;

e un altrove vicino, nero dalla sua grandezza si espande

nella compattezza del buio si finge, eccede nel riflesso.

X.

Semplificando il sogno si ha la certezza dell’incubo reale:

nella biosfera della città si avvolge una pellicola informe

si svolge un commiato urbano, una distesa domestica.

Ogni appartamento è svelato, un palazzo è ogni casa.

Quindi l’economia della materia improvvisa l’esistenza;

la memoria dal nulla si ricrea, e tutto avviene per noia.

Allora l’occasione è il buio, l’interruttore lontano dell’uomo

che spegnendosi nella luce, muore e cresce a intermittenza.

NOTA BIOGRAFICA

Antonio Bux (Foggia, 1982). Vive tra la Spagna e l’Italia. Suoi lavori e recensioni sono apparse in numerose antologie (tra le quali piace citare A sud del sud dei santi – Sinopsi, Immagini e Forme della Puglia Poetica. Cento Anni di Storia Letteraria (a cura di Michelangelo Zizzi, LietoColle Editore, Faloppio, 2013); InVerse 2014/15 – Italian poets in translation (a cura di Brunella Antomarini, Berenice Cocciolillo e Rosa Filardi, John Cabot University Press, Roma, 2014/2015); Poeti della lontananza (a cura di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Marco Saya Edizioni, Milano, 2014), e sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali (come Corriere della sera e L’Unità) oltre che in diverse riviste (tra le quali Poesia, L’Ulisse, La manzana poetica, Hyperion) e lit-blog (come La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Poesia 2.0, Otra iglesia es imposible) sia nazionali che internazionali, dato che molti suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, francese, inglese, catalano, tedesco, rumeno e serbo. Ha curato la traduzione del libro Ventanas a ninguna parte dell’autore spagnolo Javier Vicedo Alós, oltre che la traduzione di testi scelti di autori tra i quali Leopoldo María Panero, Julio Cortázar, Dário Jaramillo, Álvaro García, Antonio Cabrera, Jaime Saenz, Pere Gimferrer, Pedro Salinas, Vicente Aleixandre, Samanta Schweblin e tanti altri ancora. È autore dei libri Disgrafie (Poesie 2000-2007 e altre poesie) (Edizioni Oèdipus, Salerno-Milano, 2013; libro vincitore della XXXVII Edizione del Premio Minturnae Poesia Giovane “Ornella Valerio”); Trilogia dello zero (Marco Saya Edizioni, Milano, 2012; libro finalista per l’opera edita alla XXVII Edizione del Premio Lorenzo Montano); Turritopsis (Di Felice Edizioni, Martinsicuro 2014); 23 – fragmentos de alguien (libro scritto direttamente in spagnolo, edizione bilingue; Ediciones Ruinas Circulares, Buenos Aires, 2014); Sistemi di disordine quotidiano (Achille e la tartaruga edizioni, Torino, 2015). È risultato vincitore del premio Iris di Firenze nel 2014, e finalista al premio Poesia di strada, sempre nello stesso anno. Collabora con diversi editori e scrive per alcune pagine culturali sul web. Gestisce il blog antoniobux.wordpress.com

 

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