Lucio Piccolo. Il fascino di un genio dimenticato

di Diego Conticello

Agli albori del secolo scorso, in una Palermo trasognata e pomposa dominata dai Florio, nasceva negli agi nobiliari Lucio Piccolo (27 ottobre 1901), figlio di Giuseppe, grande possidente terriero nell’area nebroidea (con antenati crociati) e della contessa Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò (il ramo materno è più blasonato del paterno, annoverava ben tre vicerè di Sicilia ed era arrivato nell’isola al seguito dei Normanni; Teresa era la più giovane di cinque sorelle, tra le quali spiccava per cultura Beatrice, madre del futuro scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Sin da ragazzino, Lucio assorbe tutta quella congerie già gattopardesca ormai immersa nel terribile sfacelo iniziato con l’unità d’Italia e la definitiva cacciata dei Borboni dal meridione.

Timidissimo e, a detta di molte testimonianze, eccessivamente attaccato alle gonne dell’autoritaria madre, cresce nell’enorme palazzo di famiglia in via Libertà – poi raso al suolo dalle bombe alleate durante la seconda guerra mondiale – alquanto solitario data la vistosa differenza d’età con i fratelli (Agata Giovanna, la primogenita, era nata ben dieci anni prima, nel 1891, il fratello Casimiro nel 1894).

Coltiva precoci interessi musicali e già al ginnasio ‘Garibaldi’, grazie a sensibili ed acutissime capacità interpretative, oltreché ad una duttile intelligenza creativa e ad un’applicazione forse eccessiva, fronteggia gli stessi professori soprattutto in greco e latino (sono state ritrovate alcune pagelle dell’epoca dove i voti altissimi fioccavano a dismisura, peraltro in un periodo morbosamente ‘severo’ in cui anche gli alunni maggiormente meritevoli stentavano a raggiungere la sufficienza). Ancora adolescente gli viene affibbiato il soprannome di ‘musicista-filosofo’, specie nell’ambiente coltissimo del circolo Bellini di Palermo, frequentato spesso anche dal cugino principe Giuseppe Tomasi, che talvolta lo punzecchiava, ma solo per posa, su queste velleità artistiche, soprattutto per quanto riguardava l’arcinota pedanteria e ricercatezza nella composizione musicale: – «mio cugino compone una biscroma al giorno!» soleva ricordare a tutti il futuro autore de Il Gattopardo.

A dispetto della giovanissima età – è appena diciottenne – risale proprio a questi anni l’assidua corrispondenza con uno dei maggiori poeti stranieri dell’epoca, l’irlandese William Butler Yeats, sulla scorta dei comuni interessi esoterici e filosofici. Addirittura Yeats scrive a Piccolo anche dopo aver ricevuto il Nobel (1923), segno di una reciproca stima non aleatoria. Forse risalgono a questo periodo le prime composizioni in versi, rafforzate dal corposo rapporto con questo primo modello di riferimento dal valore assoluto. Un esempio potrebbe essere la poesia La torre, ispirata a My house di Yeats, tratta appunto dalla raccolta The tower («Propizia l’aria fra quelle mura/ alte agli incanti: dalle finestre/ adito, il giorno, a colli, pianura,/ spazi prativi, erte ginestre;// torre la chiamava, e la scala/ e l’ombra che si piega sul gradino/ innanzi a chi sale…// E dall’interno al suo sguardo la rosa/ bianca che poggia su la ringhiera…// La stanza appesa all’arbitrio/ dei colori, alle udienze dell’aure…// ove al segno del libro risponde/ l’astro»; e Yeats: «Un ponte antico, e una più antica torre,/ una cascina al riparo del suo muro,/ un acro di terra petrosa/ dove la rosa simbolica può erompere in fiore…/ Una scala a chiocciola, una camera dalla volta di pietra…/ una candela e una pagina scritta».). La torre è l’emblema della scalata impossibile alla conoscenza, mito caro agli spasimi esoterici del giovanissimo poeta, influenzato non poco dalla concezione mistico-filosofica yeatsiana di Per amica silentia lunae e di A vision, nonché dalle velleità occultistiche del fratello maggiore Casimiro, grande appassionato di spiritismo.

Qualche anno più tardi (1928) ecco profilarsi l’evento che sconvolgerà per sempre le vite della sua famiglia: il padre, evidentemente incallito ‘sciupafemmine’, già da qualche tempo scappato a Sanremo con una giovane ballerina e morboso amante anche del gioco d’azzardo, muore lasciando in grossi guai finanziarî la moglie (i debiti di gioco accumulati nel corso del tempo sono talmente ingenti da costringere il Banco di Sicilia ad ipotecare addirittura il palazzo palermitano ad una cifra per i tempi astronomica, circa tre milioni di lire!). La madre e i tre figli sono costretti ad andare via da Palermo e rifugiarsi in una villetta di campagna a Capo d’Orlando, nel messinese, situata su un promontorio circondato dai fittissimi boschi nebroidei, che domina la costa a perdita d’occhio, proprio di fronte alle meravigliose isole Eolie. Non più feste sfarzose, balli, ricevimenti, non più la vita mondana d’un tempo, si chiude il sipario sullo sfarzo di una Palermo ottocentesca ormai «sulla soglia della definitiva scomparsa»; il ‘secondo atto’ discopre una scenografia quasi conventuale da cui i tre fratelli e la madre non usciranno fino alla morte. In compenso la lussureggiante campagna orlandina offre scorci fascinosi alla rinnovata fantasia del poeta, spazi sereni, passeggiate lungo viali alberati sotto cadenti pergolati di glicine, fatte di profonde riflessioni che acuiscono il carattere già pensoso e melanconico di Piccolo.

Dovranno trascorrere ancora una ventina d’anni perché il poeta decida per così dire di uscire allo scoperto, ‘istigato’ dalle battute all’arsenico del cugino Tomasi («dalle ceneri della madre nasce un poeta!») che, avendo letto alcuni versi, vorrebbe testare le aspirazioni liriche di Lucio, anche se sotto questa scorza amaramente ironica si celano personali palpiti di un’idea di romanzo covata nel segreto, da cui nascerà presto quel capolavoro che è Il Gattopardo. Piccolo, adesso libero anche da condizionamenti materni che gli imponevano una certa ritrosia – Teresa morirà nel 1953 – fa stampare allora una plaquette, a cui darà il titolo di 9 Liriche, ad un tipografo di paese in sole sessanta copie dai «caratteri frusti e poco leggibili la cui veste tipografica non era migliore di quella dei Canti orfici di Dino Campana», come terrà a sottolineare tempo dopo il futuro ‘padrino’ Eugenio Montale nella prefazione ai Canti barocchi il quale, avendo ricevuto il librettino con un errore di affrancatura, è costretto suo malgrado (da buon ligure) a dover pagare le arcinote 180 lire di sovrattassa. L’autore di Ossi di seppia, con sua immensa sorpresa, vi legge però un poeta già stilisticamente maturo e musicalmente ineccepibile, che compendia nelle sue liriche il ritmo incalzante d’un continuo ‘andante’ costruito con l’uso ossessivo di rime interne, di paronomasie, di studiati adescamenti fonici fatti di allitterazioni ed assonanze e coll’accumulo inesausto di elementi che, in questo vorticismo sinuoso, trasfigurano in simboli ontologici.

Vi si riscontra anche quella straordinaria attitudine a piegare le ‘naturazioni’ ad una personale riflessione sul piano cosmico-metafisico (in questa lirica Piccolo pensa ad esempio agli studi einsteiniani sulla relatività che rende mutabili anche le categorie di spazio e tempo, per molti secoli ritenute le sole fisse nell’armonia dell’universo; si pensi anche ai versi: Ma vedi come il tempo, il tempo/ uguale non è/ vedi come precipita o rallenta…). Montale si convince di essere davanti ad una giovanissima figura a cui è possibile attribuire il motivo husserliano della «contraddizione fra un universo mutevole ma concreto, reale, ed un io assoluto eppure irreale perché privo di concretezza» e vuole presentarlo al meeting letterario di San Pellegrino Terme che Giuseppe Ravegnani stava organizzando per quella stessa estate del 1954, dove sette poeti ‘laureati’ introducevano altrettanti esordienti; impercettibile inconveniente: il giovanissimo e sconosciuto poeta siciliano si rivela in realtà un estroso cinquantenne dall’aria trasognata, di soli cinque anni più giovane del suo presentatore! Lucio Piccolo al convegno bergamasco è accompagnato dal cugino Giuseppe Tomasi e da un corpulento campiere, più simile ad un’odierna bodyguard che ad un contadino, personaggio quest’ultimo destante nei presenti un misto di risibilità e terrore, il vestiario ottocentesco dei tre fa il resto! In poche parole Lucio Piccolo diventa l’attrazione di tutto il convegno: questo episodio resterà talmente impresso nell’immaginario della critica da condizionare ogni futura catalogazione quale ‘personaggio’ ad ogni costo; la poesia di non facile interpretazione, dato il celato simbolismo ed una certa propensione all’arcaicità del linguaggio, darà la mazzata finale, relegando a tutt’oggi Lucio Piccolo in una nicchia che solo da poco tempo si sta cercando realmente di scalfire. Durante il viaggio di ritorno in treno il «mostro» (appellativo coniato da Piccolo per Tomasi, ritenuto già da allora un vero mostro di cultura) confesserà al cugino di voler scrivere il romanzo pensato da molto tempo e mai fissato sulla pagina, immaginato in una Palermo barocca e morente: – «Lucio voglio darti una lezione: scriverò un romanzo che avrà più successo delle tue liriche!», e mai profezia si rivelò più esatta. Giuseppe Tomasi in soli quattro anni scrive, oltre al Gattopardo, anche le Lezioni d’inglese, I ricordi d’infanzia (poi intitolati I racconti), Lighea: un vero vulcano in ebollizione, «punto sul vivo» dal successo del cugino al convegno dell’estate precedente.

Lucio Piccolo spesso provoca il cugino durante le telefonate tra Palermo e Capo d’Orlando: – «Mostro, quando vieni a sciacquare i panni in Vina?»; il nostro poeta alludeva con sottile ed arguta ironia al fatto che spesso Lampedusa gli proponesse la pagina scritta ‘a caldo’, per saggiarne impressioni ed eventuali proposte di modifica, paragonando inoltre il nascente Gattopardo al torrentello che scorre ai piedi della villa di famiglia: invero poca cosa nei confronti dell’impetuoso Arno rappresentato dall’immediata pietra di paragone, ovvero I Promessi sposi! Lucio in realtà è amareggiato perché, leggendo le pagine del cugino, si accorge che non si contano i riferimenti a certi passi delle sue liriche (in effetti sono numerosissimi i termini che Tomasi riprende dalle poesie di Piccolo, non volendo considerare molte ambientazioni che caratterizzano i Canti barocchi e non solo: la battuta di caccia con Ciccio Tumeo riprende molti passi del poemetto Caccia, che in Piccolo simboleggia una vana ricerca; certe scenografie delle chiese barocche sembrano riprese palesi di Oratorio di Valverde e Andavano già lontane; la scena dell’innamoramento e dell’inseguimento di Tancredi e Angelica per i maestosi e oscuri corridoi del palazzo pare la vistosa versione in prosa del nascente Gioco a nascondere piccoliano; è impossibile in linea generale calcolare le ‘riprese’ tomasiane della poesia del Nostro, fatto che nessun critico prima ad ora ha avuto il coraggio intellettuale di sviscerare!).

Dopo l’arcinoto rifiuto di Vittorini il romanzo viene pubblicato nel 1958, dunque solo dopo la morte di Lampedusa per un tumore ai polmoni d’accanito fumatore; Lucio Piccolo spinge lo scritto con varie lettere sulla scia della tremenda perdita dell’amato cugino e da qui inizierà una vera e propria fase d’ombra per il poeta, oscurato dall’inatteso e sconvolgente successo del romanzo tomasiano: i critici, ma soprattutto i giornalisti, lo cercano per intervistarlo, ma solo per il gusto non troppo celato di svelare particolari succulenti sul cugino principe, in pochi si occuperanno realmente della sua straordinaria poesia.

I Canti barocchi del cavaliere di Calanovella sono strutturati come una vera e propria armonia in quattro quarti, dove ognuna delle poesie simboleggia un elemento naturale, nonché una stagione dell’anno (in cui si intravede anche una parte del giorno) e ancora una fase dell’esistenza. La prima, Oratorio di Valverde, è un esordio primaverile con le terre in fiore, alba d’una fanciullezza spensierata e innocente: «Ferma il volo Aurora opulenta/ di frutto, di fiore,/ balzata da rive vicine/ diffondi ancora tremore/ di conchiglie, di luci marine/ – a larghe onde di campane tessuta/ venivi, dai fili di memorie, dai risvegli infantili –».

La meridiana è improntata sul movimento distruttivo e rigenerante delle acque, maturità della vita che contempla la pienezza della natura, il rigoglio estremo delle cose: «Guarda l’acqua inesplicabile:/ contrafforte, torre, soglio/ di granito, piuma, ramo, ala, pupilla,/ tutto spezza, scioglie, immilla;/ nell’ansiosa flessione/ quello ch’era pietra, massa di bastione,/ è gorgo fatuo che passa…/ Guarda l’acqua inesplicabile:/ al suo tocco l’Universo è labile.»; qui il poeta prelude ad un’ineluttabile fine del ciclo vitale, raffigurata dal vento «…ed alle siepi del mondo/ passa il brivido di fulgore/ fende l’immane distesa celeste,/ vibra, smuore, tace,/ vento senza presa e silenzio.// Ma se il fugace è sgomento/ l’eterno è terrore.»; elemento richiamato poi nel terzo canto, ovvero Scirocco. L’infuocato vento sud-orientale diviene emblema dell’invecchiamento, visto splendidamente come un esercito moresco in marcia che spazza tutto ciò che incontra davanti al proprio cammino: «E sovra i monti, lontano sugli orizzonti/ è lunga striscia color zafferano:/ irrompe la torma moresca dei venti,/ d’assalto prende le porte grandi…/ polloni brucia, di virgulti fa sterpi,/ in tromba cangia androni,/ piomba su le crescenze incerte/ dei giardini, ghermisce le foglie deserte/ e i gelsomini puerili…// Ma quando ad occidente chiude l’ale/ d’incendio il selvaggio pontificale/ e l’ultima gora rossa si sfalda/ d’ogni lato sale la notte calda in agguato.». In questi versi il discorso, intriso d’una violenza pittorica ineguagliata, viene a diluirsi nella prefigurazione notturna che schiude simbolicamente il calmo abbraccio della morte. La notte è la fase conclusiva, l’annullamento nell’oblio, il sereno amplesso con la memoria: «La notte si fa dolce talvolta,/ se dalla cerchia oscura/ dei monti non leva alito di frescura…// soffia in vene vive volti già cenere, parole àfone…/ muove la girandola d’ombre…// Riverberi d’echi, frantumi, memorie insaziate,/ riflusso di vita svanita che trabocca/ dall’urna del Tempo, la nemica clessidra che spezza,/ è bocca d’aria che cerca bacio, ira,/ è mano di vento che vuole carezza.».

Insomma il lirismo piccoliano è pregno di tutto un mondo agreste ormai evanescente, se una cifra ombrosa esiste è quella del richiamo alla memoria di tempi e volti trascorsi: sotto all’involuta scorza del personaggio si cela un poeta da riscoprire, per far risuonare di nuovo altissime note scartando, almeno per un giorno, qualunque prosaicità!

Articolo apparso sulla rivista QuiLibri n.4, anno II, marzo-aprile 2011, pp. 26-29

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