Prove di lontananza, di Alessandro Quattrone

Copertina QuattroneAlessandro Quattrone, Prove di lontananza, Book Editore 2013

di Daniela Pericone

Arriva dopo una lunga pausa poetica il nuovo libro di Alessandro Quattrone, Prove di lontananza (Book Editore, 2013), pubblicato a distanza di circa un ventennio dai precedenti Passeggiate e inseguimenti del 1993 e Rifugi provvisori del 1996. Ma i tempi della poesia non sono mai prevedibili, né rispondono a logiche predefinite o razionali, sono piuttosto cadenzati su necessità interiori, istanze espressive che si nutrono di sollecitazioni ed emozioni capaci di restare sopite e irrisolte per anni, salvo poi premere quasi d’improvviso abbandonando ogni ulteriore indugio per vedere la luce.

I versi di Prove di lontananza contengono tutta la pazienza e il lavoro di cesello operati dal tempo e portano in sé quella luminosità che si origina solo dopo l’immersione nell’ombra. Perché Quattrone è poeta che ama parlare dai margini, da quella parte della scena lontana dai protagonismi e dai clamori della ribalta, lo raccontano già i titoli dei libri – inestimabili biglietti da visita di ogni autore – con l’uso di termini che richiamano andature diseguali, stati transitori, o più ancora un’attitudine ad affrontare la vita per tentativi e accerchiamenti, forse il modo più efficace e duraturo per giungere al cuore delle cose.

La prima parte del volume, un poemetto amoroso suddiviso in tre scansioni, riprende il titolo Prove di lontananza e sviluppa intorno al tema d’amore e alla sua assenza proprio tali tentativi di comprensione di sé e dell’Altro, di conoscenza del reale, là dove i titoli delle sottosezioni si diramano e specificano in altrettante  prove di avvicinamento, raggiungimento e allontanamento. I versi posti in esergo a ognuna delle sezioni guidano il percorso e forniscono una prima chiave di lettura: “Guarda, nell’impronta dell’assente / si può trovare il senso dell’enigma”, “Guarda il deserto scomparso / mentre echeggia ancora una domanda”, e infine “Guarda, puoi sfiorare la radice / accarezzare il germoglio del rimpianto”.

Dunque l’atto della visione, lo sguardo del poeta si pone come elemento fondativo del discorso poetico, agisce da filtro e nel contempo consente l’accesso all’esistente. Quattrone raccoglie l’esortazione rivolta al tu interlocutore/alter ego e infittisce i versi di immagini e termini in cui la vista è il fulcro dell’azione: “Non ci sei, per quanto io mi sforzi di vederti”, oppure “C’è chi nella notte vede il buio / io vedo gli astri invece”, o ancora

Dai miei occhi accesi di ombre antiche
ti giungono parole che non sanno
se assediarti o estinguersi incompiute.

Le liriche di questo trittico compongono una sorta di canzoniere d’amore e disincanto costruito intorno a una figura femminile, che si erge come emblema di un destino vissuto e poi svanito, di una compiutezza realizzata e già perduta. Il poeta sembra rivestire i panni di un moderno Orfeo che tenta di colmare il vuoto lasciato dalla sua donna, nell’intrapresa di un viaggio verso l’amore (o forse un altrove) in cui lo sguardo assurge a gesto essenziale e scelta discriminante di contatto con l’altro, in cerca di una redenzione personale che va al di là del rapporto amoroso. Si avvertono ovunque richiami al mito classico, ma soprattutto risuona immediata la vicinanza al canto Orfeo. Euridice. Hermes di Rilke, all’atmosfera straniante e brumosa di alcuni suoi quadri riferiti a colei che è parte del regno delle ombre:

Ma ora seguiva il gesto di quel dio,
turbato il passo dalle bende funebri,
malcerta, mite nella sua pazienza.
[…]
Ora era sciolta come un’alta chioma,
diffusa come pioggia sulla terra,
divisa come un’ultima ricchezza.
Era radice ormai.

Ecco dispiegarsi accanto, quasi naturale gemmazione dal canto di Rilke, la lirica di Quattrone:

Ma chiamami tu risalita
dagli inferi ancora più lieta
tu che mite ti volgi
all’alta mia quiete notturna
tu diffusa nel tempo per dare
ore e tremore a quel viso
perso per sempre una sera
era il mio era il mio era il tuo.

Poi ancora, come un’eco al motivo rilkiano “era radice ormai”, un altro esempio di nitore ed eleganza nella misura essenziale di una quartina:

Tuttavia il giorno che svanisti
si udì un lieve mormorio
qualcosa come un breve
giuramento di radici.

L’intera poesia di Quattrone è intessuta di rimandi e riferimenti alla classicità, e lo stile prescelto è una esplicita dichiarazione di poetica: la linearità di scrittura, la raffinatezza del verso, la brevità luminosa ed epigrammatica di molte strofe, una vena lirica intensa e musicale sono caratteri evidenti e distintivi del poeta, anche sotto questo aspetto voce originale e in controtendenza con le scelte di sperimentalismo e oscurità di tanta poesia del momento. Ma chiarezza di linguaggio non significa assenza di mistero, al contrario, citando lo scrittore Daniele Del Giudice, “la chiarezza, il far luce, servono soltanto a costruire enigma, a costruire mistero, a custodire mistero. […] Nominare, descrivere […] è come fare un piccolo cono di luce, che porta immediatamente con sé una parte d’ombra, l’ombra di ogni parola” (Conversazione sull’animale parlante, da In questa luce).

Quella stessa ombra da cui il poeta muove a osservare sé stesso e il mondo, disposto a  misurarsi con la pienezza di un amore e la sua progressiva ma definitiva sparizione, lungo una parabola in tre atti che percorre l’ampiezza di una vita, dove l’inizio sembra coincidere con la fine, senza illusioni su un diverso epilogo se il primo verso del poema “benedetta la distanza” si specchia nell’ultimo riconfermando “la pura lontananza”. In mezzo le parole della poesia e il tempo che spinge senza sosta le sue acque e riunisce l’ombra all’ombra.

Nella scansione successiva, dal titolo Genius loci, il poeta mantiene il suo impegno di scandaglio variando solo l’oggetto della sua indagine, ossia assumendo ambienti e paesaggi a pretesto per tradurre, certo, lo spirito del luogo, ma più di tutto per esprimere quel crogiolo di sensazioni, idee e intuizioni scaturite al contatto con i paesi visitati o le terre ritrovate. Non fa differenza se si tratti dei paesaggi stranieri d’Austria, Svizzera, Francia o Irlanda o delle città del sud e nord Italia, Reggio Calabria e Como, che sono i luoghi di nascita e di vita dell’autore, estremi fisici e simbolici di una duplice condizione esistenziale e di un carattere forgiato ad accogliere e comporre le diversità. Tra precisi riferimenti geografici e dettagli di ambientazioni naturali o cittadine si leva lo sguardo sempre meditativo del poeta, poco incline a rimanere alla superficie delle cose, piuttosto aduso a cogliere, con delicatezza e pur con decisione, il senso profondo di ciò che osserva, il lato nascosto degli accadimenti, gli aspetti solo in apparenza secondari delle relazioni umane che la vita dispone a intrattenere.

Ecco allora il lungomare della città natale fare da sfondo a versi colmi di malinconia:

[…]
Svuotarsi di parole: il cielo è mite.
Concludere il discorso ormai disperso
tra le onde degli antichi naviganti.
                                                                                                         Appoggiarsi poi alla balaustra
assorti in un pensiero che s’innalza
in volo e resta su, tra costa e costa.

Ma anche il mare d’Irlanda sommuove sentimenti dalle intonazioni riflessive:

I pensieri corrono sul baratro:
li frena il vento, e allora si trattengono
sulla terraferma, mentre il mare
laggiù attacca la roccia furibondo.
[…]

Perché il filo comune, che agisce sottotraccia, è il sentimento del tempo, e il retrogusto di nostalgia con cui il pensiero assiste alla fugacità di ogni evento umano:

In piazza resta l’eco
di un’estate fuggita.
Si posa sulle labbra
il dito del tempo
e non è una parola
e nemmeno un bacio
quel che muore.

Le medesime considerazioni sulla volatilità del tempo legano i versi di Genius loci a quelli di Feste mancate, la sezione seguente che raccoglie testi in cui l’introspezione si fa, se possibile, ancora più profonda, assorta in sé stessa, solitaria. Sono poesie in cui si avvertono con evidenza gli echi montaliani delle occasioni perdute, ma anche atmosfere che richiamano il senso della solitudine di Sbarbaro. Il tempo con le sue intemperanze e oscillazioni, e soprattutto l’esercizio della sua tirannia sulle vite degli uomini, ne è protagonista esclusivo, traslato in immagini di puro lirismo:

L’ora perfetta io l’ho conosciuta
è immota e in movimento
è  quiete e turbamento
provvisoria come l’estasi del ramo
che perderà il frutto.

Vi fa da contrappunto un tenue disincanto e il sorriso ironico del poeta, lampo di arguzia che salva e ridimensiona ogni misura: “Che piacere rimanere immobile / ad ascoltare il tempo che non riesce / a trattenersi, e parla, parla, / in questo tepore di lampioni indulgenti”; seppure altrove sembri prevalere un senso di vanità di ogni ribellione o sforzo umano per contrastarne i guasti: “Senza maledire il tempo / se appare qualche pietra annerita /  da un antico incendio”.

Quel che è certo è che ogni verso di questa sequenza, ma vale per tutta la poesia di Quattrone, è un’illuminazione improvvisa sulle acque dei pensieri inconsapevoli, un’agitazione pacata, un rimescolamento delle anime intorpidite dagli automatismi e dalla frenesia del quotidiano. La voce del poeta, l’unica capace di leggere l’ombra, s’innalza lieve al di sopra delle cose per osservarle alla giusta distanza, comprenderne i limiti ma anche la bellezza, sapendo di poter contare solo sulle proprie risorse interiori.

In uno dei momenti più intensi della raccolta l’autore parla alla prima persona e, anche solo per un attimo, indulge a rivelarsi: “nella piccola stanza che invano / mi rende maestoso”. Un cenno breve ma sufficiente a carpirne l’indole di pensosità appartata, che tende a ritrovare tra le pareti della propria casa uno spazio di conforto,  avendo nel contempo ben presente la limitatezza e illusorietà di ogni misura o impresa umana. Ma non c’è cupezza né risentimento nelle parole del poeta, il respiro non è mai affannoso, c’è piuttosto un equilibrio dell’esperienza e del temperamento, e consapevolezza del valore di ogni storia individuale, se il libro si chiude con un piccolo gruppo di poesie riunite sotto il titolo Ascendenze e discendenze, dedicate agli affetti di genitori e figli, radici e ramificazioni del proprio essere nel mondo.

La conclusione ideale della raccolta sembra però affidata ad altri versi, una quartina posta in finale alla penultima sezione, dove le parole dispongono a un’apertura, a una promessa di schiarita, l’approdo in cui le prove di lontananza si volgono in prove di speranza:

Essere il colore dell’acero
sotto il raggio di aprile
offrire al giorno un tiepido
clamore di rami e sperare.

***

Le isole lontane, ed il mattino
sereno a dominarci come fossimo
due esuli felici di soccombere
non avendo alcuna via di fuga.

 ***

Tu abiti altri inverni,
abbandoni il tuo sguardo lentissimo
in altre stanze, in altre oscurità,
se socchiudi le labbra è per credere
al dominio dell’attimo,
fingi di ignorare il mio richiamo
e chissà con quale calma
disperdi l’assedio degli spettri
che t’invio da questa mia distanza:
o forse sono solo tormentate
memorie vaganti sulla terra,
senza un inferno dove riposare.

***

Il crepuscolo era fra le tue dita
e non avesti il coraggio
di lasciarlo scivolare sul mio volto
in forma di carezza o di sussurro.
Era roseo il crepuscolo
e le mie dita strinsero la fine
come si può stringere un colore.

***

Adesso che sei spettro e fai azzurri
richiami che non posso udire
in questo mio silenzio angelico,
adesso non tradire
chi negli spettri ripone la speranza
di baciare la pura lontananza.

 ***

Potenza del biancore in mille gocce,
mille facce ha il giorno, una la sera,
nell’acqua non si scorgono presagi:
la cascata ride dei rimpianti.
Verranno le piogge, verranno le sagge
parole dal cielo, ma intanto
gli spruzzi, gli estatici guizzi
d’un tratto ci giurano amore.
E noi stiamo in piedi perplessi,
dispersi in mille gocce nel biancore.

Cascate del Reno a Sciaffusa, Svizzera

***

La rondine sa cos’è il richiamo
cos’è il ritorno, il lieve turbamento.
Il lampo sa cos’è la solitudine
del durare un istante illuminando.

***

Poca luce, e il gelo sulle strade
stermina i passanti, invade l’ombra,
domina così, inerme e candido.
Gennaio è qui, sulle maniglie, e insiste
perché ci ricordiamo che ogni inizio
è uguale: un tremito, un sospiro
e il grido prolungato dell’attesa.
Ad un tratto si accende una finestra
e freme un desiderio dietro il vetro.

 

 Alessandro Quattrone è nato a Reggio Calabria nel 1958. Vive a Como, dove insegna presso un liceo. È presente con poesie e articoli letterari su riviste culturali, quotidiani e antologie. Ha pubblicato i volumi di poesia: Interrogare la pioggia (Lacaita Editore, 1984), finalista al premio Viareggio 1984 (sez. Opera prima); Passeggiate e inseguimenti (Book Editore, 1993), vincitore del Premio “E. Montale” 1994; Rifugi provvisori (Book Editore 1996), premio speciale “Rhegium Julii” 1996. Nel 2002 è uscito il romanzo Ai bordi del diluvio (ed. Moretti e Vitali). Ha tradotto e presentato per le edizioni Demetra diversi volumi di classici, tra i quali: Coleridge, Dickinson, Poe, Whitman, Masters, Ovidio, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Baudelaire. Ha scritto inoltre testi per canzoni, tra cui quelle contenute nell’album C’è bisogno di una pausa (2005) di Claudio Altimari, musicista con il quale collabora da molti anni. Prove di lontananza è il suo ultimo libro di poesie, pubblicato per Book Editore nel 2013.

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