Il tormentoso cammino della conoscenza. Percorso nella poesia di Bartolo Cattafi

di Diego Conticello

L’intera rotta poetica di Bartolo Cattafi si distingue, fin dagli esordi, per una sfilza di accensioni primordiali riguardanti il viaggio come metafora di ansia conoscitiva; la spasmodica ricerca del divino; la nettezza definitoria nella vorticosa nomenclatura degli oggetti i quali, a loro volta, assurgono ad emblema di una condizione, di un precipuo sentire della coscienza; l’invettiva sociale nei confronti di un mondo dall’etica ormai in caduta libera.
Gli inizi coincidono cogli anni della resistenza al nazifascismo e dello sbarco alleato in Sicilia: periodo segnato da un soffocante aleggiare di morte, avvertibile anche in molte delle primissime poesie, permeate tuttavia da un abbacinante colorismo, in cui si rispecchia la fervida smania sensoriale di un animo ancora profondamente pagano, immerso nell’ovattata fisicità di un paesaggio dalla solarità allucinante, ovvero coercitiva perché illusoria:

Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Tutt’intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire … Me ne andavo nella colorita campagna, nutrendomi di sapori, aromi, immagini: la morte non era un elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola.

I versi di Cattafi si popolano così, fin dal loro primo incedere, di immagini ancipiti che contemplano insieme il caldo abbraccio di un esasperato vitalismo e il rovello spasmodico della morte. Se una vena barocca esiste in queste liriche così cesellate è di certo quella dell’analogismo ardito, dalla visionarietà quasi orfica e, al contempo, razionalissima, strutturata grazie alla giustapposizione di elementi disparati che creano abissali scarti, fulminei lampi di pensiero, estrose immagini plasmanti lucidi concetti. Assistiamo dunque ad un perpetuo movimento verso il fulcro delle cose, per estrapolarne un lume da riportare a galla, un ‘segno’ da mostrare alla propria coscienza, nell’illusione che questo possa provvisoriamente alleviare l’ansia incessante che attanaglia il poeta.

In molti passaggi si riscontra, oltretutto, una marcata inclinazione dell’io a defilarsi, il che comporta un investire l’oggetto della carica di “referente”, lasciandogli svolgere quel ruolo di “attante” solitamente interpretato dall’io lirico. Le ‘cose’vengono così innalzate ad emblemi di uno status esistenziale o intellettivo, come accade nel “correlativo oggettivo” di T.S. Eliot (uno fra i modelli di Cattafi ma, ancor prima, di Montale). Anzi il soggetto, a volte, sembra talmente ben nascosto da permettere un inusuale ribaltamento di prospettiva: lo ha intuito bene Silvio Ramat, secondo il quale si dovrebbe parlare piuttosto di un «correlativo soggettivo».
La sintassi disarticolata, confusa, anch’essa in preda ad una certa alienazione, con forme che rasentano la scrittura automatica dei surrealisti francesi, lasciano intuire che il vero motore della poesia di Bartolo Cattafi sia da ricercare nell’ansia gnoseologica, sebbene – in fin dei conti – essa venga sistematicamente messa sotto scacco. Questa poesia pertanto oscilla di continuo da un colorismo ponderoso ad un lucore attenuato, quasi plumbeo; da una natura dirompente, sebbene estenuata, ad un’asettica impronta meccanicistica; da un accennato intreccio ad una raziocinante epigrammaticità. Già il fraterno amico Giovanni Raboni registrava l’ansioso «passaggio, non brusco ma netto, da una prevalente figuratività a una prevalente figuralità, da un registro sostanzialmente descrittivo e narrativo a un registro sostanzialmente astratto-speculativo (aperto, con frequenza, a inflessioni oniriche e cadenze oracolari». Si ha come l’impressione che il poeta voglia di continuo scrollarsi del proprio volto mediterraneo («[…] lascia/ ronzando isole minime, arcipelaghi»), per dare risalto al lato ‘lombardo’, al retaggio ‘illuministico’ di una nuova forma mentis («Intanto in cielo sempre più si svolge/ la mesta bandiera della luce»), che lo renda pienamente intrinseco allo spirito della coeva “Quarta Generazione”.
Con L’osso, l’anima incomincia allora quella fase di piena maturità stilistica che si concluderà solo con la precoce morte. La spinta analogica dei versi diviene adesso talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni. Scompare così, in maniera progressiva, il ricorso al descrittivismo, lasciando campo aperto ad un procedimento di intellettualizzazione che si focalizza piuttosto sul substrato di ogni ‘particola’ affinché, mostrandone il funzionamento interno, si possa dar conto del fenomeno esteriore. Questo è davvero un passo decisivo per la poetica dell’intera produzione cattafiana.
Scemata la consistenza dell’oggetto, se ne perdono solo le qualità fisiche; la poesia ne guadagna però in spirito sintetico, ma anche in termini di oscurità dei significati. Questo non è necessariamente un difetto, essendo piuttosto il sintomo della grande potenza iconica che si intende affidare alle cose; esse ora lievitano al grado di emblemi, di puri significanti che trascendono la realtà, motivandola. Non ci troviamo dunque al cospetto di un banale scetticismo ma, come fa capire Paolo Maccari, di fronte ad un «radicalismo esistenziale e intellettuale che, frustrato e rientrato, si traduce in sgomento». Tuttavia sondare dentro il “vero” diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale.
Eppure, ancora una volta, dopo ripetute contromosse allo scopo di evitare lo scacco, l’indecifrabilità del mondo – che poi alla fine non è altro che incomprensione della vita stessa, “tempio vuoto” – induce il poeta a rassegnarsi all’evidenza, a pensare che, in fin dei conti, già “esistere” è la più clamorosa e appagante delle scoperte. Questa Discesa al trono si risolve così, secondo Pappalardo La Rosa, in

[…] uno sprofondamento negli abissi di un Ade localizzabile nel fitto delle condizioni tremendamente degradate della realtà, dove Orfeo ha perduto la speranza di riportare alla luce la sua Euridice-poesia: […] è, questa, la dichiarata coscienza del fallimento della poesia-salvazione e del poeta che la ricerca e la insegue nell’inferno della forma perfetta, che l’agguanta un attimo (o s’illude di averla agguantata), ma poi la riperde definitivamente nell’impetuoso risucchio della realtà.
Ciò che rimane è sempre l’amara consapevolezza del destino mortifero che attende l’uomo, non una rassegnazione ma un lampante distacco dalla felicità.

Questa ossessione per la mostruosità del reale abbisogna di immagini allucinate in cui la metafora diventa specchio del lato ‘perturbante’ che sovrasta la ragione. Le cose del mondo diventano ormai oggetti avulsi dal proprio sistema di riferimento, vengono de-contestualizzate secondo tassonomie eterodosse, nero frutto di una ‘geometria’ occulta. Il contatto caustico, igneo con l’oggetto, la creazione di vuoti quasi tattili, traslato di mancanze sul piano esistenziale, fanno pensare (e, più volte, i critici lo hanno sottolineato) all’arte oggettuale di Alberto Burri, un “materista” che – soprattutto con le Combustioni – si pone al di là della stessa avanguardia, coi suoi reiterati squarci nel corpo tangibile per ricavarne pienezze o folgorazioni di senso.
Cattafi è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale: ne vien fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace poiché sprigiona, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa. Siamo davvero molto distanti da quell’oleografismo quasimodiano (tipo Vento a Tìndari), che tanto ha fatto scuola in Sicilia e non solo, per cui l’isola appariva come una ingenua e stereotipata Magna Grecia compassata e fiera, terra di felici ritorni e paradiso immarcescibile.
Una grande propensione orfica lo accomuna invece ad altri illustri predecessori – penso a Yeats, a Campana e, non ultimo, a Lucio Piccolo –  sospingendo il dettato in una direzione ermetica, infine addirittura “segnica”. E, paradossalmente, sembra che tanto più la sua poesia si faccia oscura, quanto più la sensazione è quella di una maggiore chiarezza sintetica del messaggio.
La poesia di Cattafi testimonia dunque uno stato di estrema resistenza, di sfacciato titanismo che oltrepassa il radicato dolore dell’anima. Riferendoci ancora alle parole di Silvio Ramat:

In uno scrittore quale è Cattafi (post-montaliano e post-ermetico, sperimentatore per indole, senza dover chiedere lumi alle neoavanguardie coi loro codificati e spesso scontati azzardi), l’oggetto è sempre al centro, ha il compito di fisicizzare cioè di render concreta l’intenzione di un io storicamente perplesso quanto alla propria parte, dubbioso per forza del suo governo sulla fluidità del vivente. […] L’allodola è dunque anche il grande, persuasivo testo della persona che ha fiducia nell’oggetto, catturato di continuo e di continuo lasciato rifluire; oggetto amato infine anche nelle specie del male, del disgusto, della sventura. C’è un graduale incremento, pagina dopo pagina, degli aspetti ingrati, degli eventi penosi, eppure tutto segnala una medesima “teofania”…

Tutto ciò non elimina l’azione ineluttabile della morte, che azzera qualsiasi tentativo di rivolta, distrugge ogni spasimo di volo (distinzione dalla massa?), spezza le fragili trame umane fatte di fatica, di un confuso annaspare per la difesa di una sterile sopravvivenza. Come osserva Vincenzo Leotta,

L’animo è di chi, lucidamente e con straordinario coraggio, vive in attesa della morte e, in questa attesa, potenzia le forze residue, ritrova insospettate energie, trae anzi dalla stessa malattia materia di canto. […] Tra la realtà e Dio non c’è, insomma, possibilità d’incontro… […] Da questa incolmabile frattura, connessa con la perdita del sacro, discendono due conseguenze ineludibili: l’indecifrabilità del mondo e la meccanizzazione dell’uomo, la cui esistenza si svolge come in un labirinto, si riduce a una serie di atti automatici, ripetitivi e svuotati di senso.

Esposto alla tremenda dirompenza della malattia, l’ultimo Cattafi intraprende un processo di spoliazione da ogni ipocrisia, da ogni cruccio terreno ancora cogente; così, dalla «[…] sgranatura triviale che rompe l’illusione di un nobile eloquio» si giunge, nell’estremo istante del trapasso, ad una «caduta in minore». Riferendoci alle parole di  Luigi Baldacci,

[…] Il miracolo della poesia di Cattafi, la sua reale grandezza (è parola che bisogna ripetere) sta nell’essere poesia della morte e non per la morte: […] intendendo la morte come quotidianità di vita, non come itinerario finalizzato. Cattafi […] è poeta del sintagma, non dell’onda lunga, un poeta che rifiutò la storia ma anche la sua stessa storia personale.

Siamo dunque ad un totalizzante abbandono al divino, ad una fine serena, prefigurata desiderando un contenitore-dio capace di accogliere la miseria della persona in un perfetto abbraccio di forme, sinora solo immaginate con inesauribile cupio dissolvi.
La lezione più grande lasciataci da Cattafi è pertanto quella di pensare sempre alla scrittura come “unione” (o scontro, o interazione, sempre interdipendenza) tra significante e significato e, ad essa, solamente ad essa, affidare la risoluzione delle lacerazioni prodotte dalla mancata conoscenza del reale. Da qui l’assoluta necessità della scrittura stessa, unica azione prometeica capace di conquistare un barlume minimo di verità, sebbene ciò comporti un discernimento solo relativo dell’infinita molteplicità del reale. Potremmo ancora dire con Vincenzo Leotta

[…] che, da un oggetto visivamente catturato e descritto nella sua specularità iconica, attraverso una serie di immagini annodate per addizione o per contraddizione, per contiguità tematica o per folgoranti analogie, il poeta dilata il significante al limite della visionarietà pura, inventando e reinventando figure sempre più smaterializzate, le quali acquistano valenza e senso dal fitto tessuto di rispondenze metaforiche e simboliche che tramano.

I segni, quindi, sono caratterizzati da un’estrema indeterminatezza che affiora da un sostrato di scrupolosa determinatezza.

[…] Adesso la poesia si configura come testimonianza di amore, come forza di coesione, oserei dire, di fraternità cosmica tra il segnato e il non segnato, il finito e l’infinito, la materia e lo spirito, e anche la scrittura, dal frammento e dal singolo grafema, s’eleva, almeno come sforzo, come potenzialità, all’universale e alla totalità.

Solo le parole hanno conservato la capacità di rivelarsi ossessivo portato di una razionalità ormai destabilizzata, per cui l’estremo tentativo della poesia di Cattafi è quello di decrittare una realtà che continuamente si ribella, quasi fosse animata da palpiti cospirativi che disgregano una consistenza intellettiva faticosamente acquisita.
Perduta la vis demiurgica, l’io si trova svuotato di ogni orizzonte gnomico, dunque esistenziale; gli stessi oggetti dissipano la propria “funzione connotativa” di simboli: è un quadro dal barocchismo assai accentuato, un horror vacui che travolge anche la percezione più elementare. Insomma un’estrema negazione del mondo, sia esso identificabile con le cose (la vita) o col vano tentativo di arrestare il loro inarrestabile trascorrere (la scrittura).

Diego Conticello

Alcuni passi scelti

[…] La stagione è finita; ancora vivono
il dente infisso nel centro della mano,
ciò che la spina lentissima ci scrisse.
Una lampada gracile, l’allodola
rientra incerta, s’addentra sull’immoto
colore di brughiera.

Mio amore non credere che oggi
il pianeta percorra un’altra orbita,
è lo stesso viaggio tra le vecchie
stazioni scolorite,
vi è sempre un passero sfrullante
nelle aiuole
un pensiero tenace nella mente.
Il tempo gira sul quadrante, giunge
un segno di nebbia sopra il pino
il mondo pende dalla parte del freddo.

Qui le briciole a terra, la brace del camino,
le ali,
le mani basse e intente.

Maggio, di primo mattino
la mente gira su se stessa come
un bel prisma un bel cristallo un poco
stordito dalla luce.
Dal soffitto si stacca
neroiridato ilare il festone
delle mosche,
posa su grandi carte azzurre
riparte e lascia
ronzando isole minime, arcipelaghi
forse d’Africa e d’Asia.
Intanto in cielo sempre più si svolge
la mesta bandiera della luce.
Prima di sera l’unghia
scrosta l’isole
le immagini superflue.
Le carte ridiventano deserte.

Con un forte profilo,
secco, bello, scattante,
qualcosa di preciso
fatto d’acciaio o d’altro
che abbia fredde luci.
E là, sul filo della macchina, l’oltraggio
d’una minima stella rugginosa
che più corrode e corrompe più s’oscura.
Un punto da chiarire, sangue
d’uomo, briciola
vile oppure grumo
perenne, blocco di coraggio.

Dovemmo fare cataloghi
dividere le cose
metterle nel calibro…

[…] I conti non tornavano, le cose
sovente cambiavano colore,
consistenza, sapore, dimensione.
A occhio allora scegliemmo,
a fiuto, fidando dell’istinto.
I risultati non furono migliori.
In ogni caso ci volle sofferenza
la pazienza che logora la polpa
perché l’osso risplenda.

[…] Tutto apparve concorde con un giro
centripeto di vortice
un senso precipite d’abisso.

[…] E lasciamolo perdere Mameli
il nostro inno lo suona il marranzano
isolana lamina percossa
da un inutile fiato di dolore.

[…] E la guerra.
E chi successe alla guerra
e chi succede a chi successe
e non fa succedere.
Spalle petto girello
mi domando perché non debba esserci
una distinta dei prezzi
reni polmone cuore
e un pubblico spaccio
di carne umana
docile dolciastra facilmente
assimilabile
divorata da sempre
dietro una trasparenza di metafora.

Queste cose terrestri
che scoppiano tra i piedi come rose
le raccatti ammirato le porti
ai più alti ripiani
e perdi il lume degli occhi
non vedi
le altissime cose
cadute in frantumi.
In quel muro in quel foglio
nell’area bianca che la tua mano cerca
il mignolo bagnato nell’inchiostro
sopra strisciato con fiducia
azzurro corso d’acqua rapinoso
vena arteria in cui scorre
a occhi chiusi il mondo.
Coloniali parole
gregarie filiformi
da te lasciate in un luogo
in un discorso
nidiata
ora straniera
ritornante rimorso
fosforo stridente
nel sonno della sera.

I segni e il senso
dei segni su soggetti scalpitanti…
O apatiche scritture
membra ammansite
materie inerti ammucchiate in fondo all’anno
scritte luminose di novembre.

***

Bartolo Cattafi (all’anagrafe, Bartolomeo Maria) nasce a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) il 6 luglio 1922. La sua è una famiglia di possidenti terrie­ri, culturalmente e attivamente impegnati nel campo sociale.

L’esperienza militare del 1943, l’anno più cruciale della sua vita, lo riporta bruscamente alla realtà. Chiamato alle armi l’8 febbraio, raggiunge Bologna, dov’è aggregato al 3° Reggimento fanteria carristi, e da qui è avviato al 17° Battaglione d’istruzione a Forlì, per frequentare il corso di addestramento per allievi ufficiali.

Nel 1944, usufruendo anche delle facilitazioni concesse ai reduci, conse­gue la laurea in Giurisprudenza, mai utilizzata per ragioni professionali. Nel­l’immediato dopoguerra, medita di trasferirsi a Milano. Il progetto si realizza nel 1947 e il soggiorno dura poco più di due mesi, dal 6 aprile, domenica di Pasqua, al 22 giugno. Nel frattempo, però, stabilisce i primi contatti milanesi. Presentato da Bianca Ga­rufi, conosce Luciano Foà e poi Erich Linder, Domenico Porzio e, soprattutto, Sergio Solmi, con cui stringe una intensa amicizia.

Negli anni seguenti è di nuovo a Milano, alternando lunghe permanenze con periodici ritorni in Sicilia e, più tardi, con frequenti viaggi all’estero, finché, a partire dal 1956 e fino alla prima metà del 1967, vi dimora stabilmente trasferendovi anche la resi­denza. Solmi gli fa conoscere Vittorio Sereni – diventerà presto suo fraterno amico –, il quale lo introduce negli ambienti letterari e artistici della città. In tal modo, Cattafi entra in contatto anche con Carlo Bo, Enrico Emanuelli, Giansiro Ferrata, Luciano Erba, Luciano Anceschi, Giacinto Spagnoletti, Giovanni Giudici, Piero Chiara e, via via, con gli altri esponenti della cultura lombarda.

Nel 1952 ha inizio la stagione dei viaggi: Francia, Inghilterra, Irlanda, Scan­dinavia, Spagna, Africa. Poiché ogni vicenda pas­sa «sulla sua pelle e dentro il suo sangue», è naturale che il nomadismo di Cat­tafi si traduca in poesia, in presa diretta o a distanza di anni, a cominciare da Partenza da Greenwich del 1955.

Nel 1958 esce il primo libro mondadoriano, Le mosche del meriggio, rias­suntivo della produzione 1945-1955, col quale vince il «Premio Cittadella».

Due anni dopo, la perdita dolorosissima della madre (la ricorderà in una toccante poesia dell’Osso, Un 30 agosto), una tormentata e deprimente storia amorosa e l’aggravarsi della sua situazione finanziaria, seriamente compro­messa dall’incapacità di svolgere una stabile attività lavorativa, lo gettano in uno stato di profonda prostrazione fisica e psichica che, puntualmente, si ri­specchia ne L’osso, l’anima, edito sempre da Mondadori nel 1964. Questa raccolta, l’unica che può fregiarsi di una seconda edizione, vince il «Premio Chianciano» e segna la definitiva consacrazione poetica. Sarà poi la vendita all’Enel del fondo di Archi, nel comune di S. Filippo del Mela (Messina), conclusa nel 1966 dopo lunghe e complesse trattative, a garantirgli la tranquillità economica consentendogli di dedicarsi esclusivamente alla poesia.

Dalla fine di dicembre del 1962, Cattafi non aveva scritto un verso e non ne scriverà fino al 21 marzo del 1971: un lungo periodo di vacanza o di astinenza poetica, durante il quale egli dirotta altrove le sue energie creative. Disegna, dipinge – alcuni quadri sono bellissimi –, si dedica alla fotografia.

Il 26 giugno 1967 sposa, col solo rito civile a Callander, in Scozia, Ada De Alessandri, milanese, di ventidue anni più giova­ne di lui.

Nel marzo 1971, come si accennava, finisce il silenzio poetico. Alle quattro del mattino del 22, quasi «morso dalla tarantola», si alza dal letto e riprende a scrivere. Da quel giorno e fino alla morte, se si eccettuano gli anni 1974-’75, durante i quali egli si limita a rimaneggiare e a ordinare in volume le poesie concepite nel biennio precedente, l’urgenza espressiva di Cattafi non avrà so­sta o interruzione. Per dare un’idea di questa esplosione creativa, si pensi che, tra il marzo ’71 e il gennaio ’72, egli compone le 362 poesie de L’aria secca del fuoco, con cui vince i premi «Vann’ Antò» e «Sebèto». Esse, attraverso varie redazioni non sempre datate o databili, formeranno, per citare solo i vo­lumi riassuntivi, La discesa al trono (1975), Marzo e le sue idi (1977), Segni e parte di Codadigallo, pubblicati postumi.

Gli ultimi mesi del ‘78 si snodano tra soste nella villa dei suoceri a Cimbro (Varese), ricoveri nella clinica milanese «La Madonnina» e due brevi soggior­ni nella sua Mollerino, il secondo dei quali dal 15 dicembre al 7 gennaio ‘79. Cattafi spende le ultime, residue energie lavorando alla revisione delle «poesie segniche», alla definizione di Codadigallo e alla stesura di nuovi componi­menti. Il 6 marzo è di nuovo alla «Madonnina». Qui, all’alba del 13, il suo cuore si ferma per le complicazioni dovute al tumore alla pleura del polmone sinistro. Aveva appena avuto il tempo di firmare le copie del servizio-stampa de L’allodola ottobrina e di salutare gli amici in un ristorante milane­se, quasi presagisse non più rinviabile l’appuntamento con la morte. Una data, questa del 13 marzo, che sembra preannunciata, come per una sorta di inquie­tante premonizione, nella poesia del lontano 1972 elevata a dignità di titolo del volume Marzo e le sue idi: «Di tutto diffido / del pugnale di bruto / della tenera carne di cesare / dello stesso destino / che passi presto il tempo / venga­no alfine marzo e le sue idi».

***

Opere di Bartolo Cattafi

Partenza da Greenwich. Milano, Quaderni della Meridiana 1955.
Nel centro della mano. Milano, Edizioni della Meridiana 1951.
Le mosche del meriggio. Milano, Mondadori 1958.
Qualcosa di preciso. Milano, Scheiwiller 1961.
L’osso, l’anima. Milano, Mondadori 1964.
L’aria secca del fuoco (con un risvolto di copertina di Giovanni Raboni). Milano, Mondadori 1972.
Il buio. Milano, Scheiwiller 1973.
La discesa al trono. Milano, Mondadori 1975.
Marzo e le sue idi. Milano, Mondadori 1977.
18 dediche (‘76- ‘77). Milano, Scheiwiller 1978.
Poesie scelte (1946-1973) (a cura e con prefazione di Giovanni Raboni). Milano, Oscar Mondadori 1978.
L’allodola ottobrina. Milano, Mondadori 1979.
Oltre l’omega (con una prefazione di Giuseppe Miligi e un’incisione di Silvano Scheiwiller).
Milano, Scheiwiller 1980.
Segni (con una prefazione di Marisa Bulgheroni). Milano, Scheiwiller 1986.
Poesie 1943-1979 (a cura di Vincenzo Leotta e Giovanni Raboni). «Almanacco dello Specchio».
Milano, Mondadori 1990; poi in Milano, Oscar Mondadori 2001.
Occhio e oggetto precisi. Poesie 1972-‘73 (con una prefazione di Silvio Ramat). Milano,
Scheiwiller 1999.
Ultime (con una premessa di Luigi Baldacci). Palermo, Idola-Novecento 2000.
Simùn (a cura di Silvio Ramat). Genova, S. Marco dei Giustiniani 2004.

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